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sabato 18 maggio 2013

RECENSIONE:MARK LANEGAN & DUKE GARWOOD (Black Pudding)

MARK LANEGAN & DUKE GARWOOD   Black Pudding (Ipecac Records, 2013)

Quando Mark Lanegan nutre stima incondizionata per qualche collega, non è così raro che questo "qualcuno" riesca ad incidere musica con lui. Il suo grande cuore, solo apparentemente chiuso a chiave, quasi impenetrabile, è invece sempre aperto e propositivo. A Duke Garwood, musicista e polistrumentisca londinese, sconosciuto ai più ma con quattro album all'attivo e tante buone collaborazioni nel carniere è riuscita l'impresa di registrarci anche un intero disco. "Uno dei miei artisti preferiti e una delle migliori esperienze di registrazione della mia vita." Non sono però le parole di Garwood rivolte all'indirizzo di Lanegan, ma-sorpresa-quelle di Lanegan che fa poco per nascondere il suo entusiasmo per il musicista che ha aperto numerose tappe dei suoi ultimi tour. Un incontro pianificato fin dal 2009 ma che ha visto la nascita concreta solo ora all'interno dei Pink Duck Studios di Burbank in California. Comunque, rimane ancora vero che anche chi nutre stima per la carismatica voce e talento dell'ex Screaming Trees molto probabilmente giochi carte false per ottenere una collaborazione, spesso ottenendola (buon ultimo, Moby). Sempre più difficile tenere il conto dei suoi contributi, meglio prepararsi al prossimo cameo presente nel disco di imminente uscita degli amici e compari Queens Of The Stone Age di Josh Homme.
Dopo l'ardito Blues Funeral, disco che ha spaccato in due critica e fan (a scanso di equivoci, è stato il mio disco dell'anno 2012), con Black Pudding gli esperimenti, almeno superficialmente, sembrano essere ridotti all'osso, ritrovando la greve voce del quarantottenne vocalist di Ellensburgh alle prese con spettrali folk/blues dai suoni scheletrici (Pentecostal, War Memorial), lenti (Death Rides A White Horse), liquidamente eterei (Driver), grevi (gli archi di Thank You) ma strumentalmente legati alla tradizione, a parte la batteria elettronica che accompagna i paesaggi desertici che si aprono in Mescalito e in Good Molly, l'unica canzone ad entrare in circolo fin dal primo ascolto grazie alla sua andatura up-tempo, funk e diretta con disordinati inserti di fiati a disturbare. La sensazione generale che si ha però, è che sia Garwood a condurre i giochi, dando per veritiera l'ammirazione di Lanegan. L'inglese apre e chiude il disco con due strumentali, le arpeggiate Black Pudding e Manchester Special-che un altruista Lanegan indica come le sue canzoni preferite dell'album-la sua chitarra fingerpicking, le atmosfere ortodosse del sitar, i profondi spazi minimali, algidi, desertici da notte fonda e ventosa, o orientaleggianti come in Sphinx, dove è racchiuso il mood di tutto il disco, con Lanegan a ricamare le parole delle sue liriche poetiche e fumose seguendo lo scarno mantra musicale costruito da Garwood, così come in Last Rung segue i glaciali tasti di un austero pianoforte, lasciando alle acustiche sperimentazioni del polistrumentista di impossessarsi dello spazio circostante.
Fino ad arrivare a Shade Of The Sun, con le tastiere messianiche di Alain Johannes a richiamare spettri e redenzione.
Unico appunto negativo per alcune canzoni sfumate troppo in fretta che danno l'impressione di frammentarietà e incompiutezza.
Il grande pregio del disco, che necessita di molti ascolti prima di entrare in vena e circolare pur sempre con passo meditativo e tormentato, sta tutto nella perfetta alchimia che i due musicisti sono riusciti a creare, alla ricerca di una sincera connesione d'intenti e intesa musicale a scapito di una bella produzione di facciata.
Un tunnel lungo, dolente e tenebroso. Se inizialmente incute timore nella sua impenetrabile oscurità, via via si fa misterioso, intrigante, fino ad intravedere l'uscita dove si stagliano le ombre pure e incontaminate dei due sfuggenti protagonisti. Ma ti assale la voglia di tornare all'entrata e riaffrontare i ricami in palude.


vedi anche RECENSIONE: MARK LANEGAN BAND-Blues Funeral (2012)




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