Pagine

mercoledì 19 settembre 2012

RECENSIONE: MARK KNOPFLER (Privateering) ZZ TOP (La Futura) CAT POWER (Sun)

MARK KNOPFLER  Privateering  (Mercury Records, 2012)

E’ capitato poco tempo fa. Era il tour che Mark Knopfler ha condiviso con Bob Dylan, un connubio che ritrovava l’intesa (artistica) dopo anni di distanza e pacifico armistizio. Sentire voci scontente dopo il concerto di Mark Knopfler:” Ma come? Solo due canzoni dei Dire Straits? Che delusione!”. Eppure il concerto era stato splendido. Le sue canzoni della carriera solista, estrapolate da quasi quindici dischi (comprese le numerose colonne sonore) suonate e cantate con cristallina limpidezza insieme ad una grande band che comprende Guy Fletcher alle tastiere, anche co-produttore, l'unico superstite dei Dire Straits. Un vero piacere per le orecchie. Eppure.
Eppure, per molti, Mark Knopfler rimane ancora legato al "rock da arena" che non gli appartiene più. E pensare che ormai i suoi anni da solista (29 anni dalla prima colonna sonora Local Hero-1983) hanno superato, di molto, quelli spesi solamente con la band (18).
Rassegnatevi, voi nostalgici degli anni settanta/ottanta. Mark Knopfler sta andando oltre (da un bel pezzo), é lui stesso ad ammetterlo senza rinnegare il passato, rispettandolo ma con lo sguardo artistico proiettato da altre parti. Ma basterebbe l’ascolto dei suoi dischi solisti e di questo nuovo Privateering ,che mi sbilancio ad erigere a suo miglior lavoro solista, per fugare ogni dubbio. Un disco che forse manca della stoccata vincente, della canzone da ricordare, ma assolutamente libero da ogni vincolo di genere. Rilassato e rilassante che potrebbe anche diventare soporifero per chi non è abituato a certi suoni. Forse il disco sognato da tanti anni, dove il lavoro preteso (dai fans) dalla sua chitarra elettrica può anche prendersi una meritata pausa.
Un disco (anzi due ,della durata complessiva di quasi un'ora e mezza) ambizioso, lungo ma estremamente godibile (a parte un paio di riempitivi), dall’inizio alla fine.
Qui c’è veramente tutto il suo universo di "britannico che sogna l'America", più volte avvicinata, dal progetto The Notting Hillbillies fino al disco country con Emmylou Harris. Ma c'è anche un po’ del passato dei Dire Straits-forse per accontentare i nostalgici, di cui sopra- nella rockeggiante Corned Beef City che potrebbe essere uscita da Brothers in Arms.
CONTINUA A LEGGERE SU IMPATTO SONORO.IT 


ZZ TOP  La Futura (American Recordings,Universal, 2012)

C’era attesa per il ritorno dei più grandi, sanguigni e longevi rappresentanti dell’hard/blues texano. Attesa, perchè il loro ultimo album Mescalero (2003), che risale a nove anni fa, era da riscattare. Attesa perchè, in produzione, il nome del re mida Rick Rubin prometteva assai bene. Purtroppo, come a volte succede, non sempre nascono colorati e accecanti fiori dai cactus dell’arido deserto e quello che ne è uscito soddisfa e diverte ma non convince pienamente.Ci si potrebbe accontentare, ma a volte la pignoleria prevale.

Già un anticipo dell’album era uscito pochi mesi fa, sottoforma di Ep dal titolo Texicali, che conteneva quattro canzoni qua presenti.
Se il compito più arduo era quello di riportare il suono del power trio verso la retta via del rock/blues, si può dire riuscito. Niente pasticci elettronici, concessioni troppo smaccate all’airplay radiofonico e synth ingombranti, ma un suono diretto dove la chitarra di Billy Gibbons riprende la corsa e a seminare assoli graffianti, la sua voce è diventata più roca e aspra che mai con il tempo, e Dusty Hill e Frank Beard alla sezione ritmica mantengono quello che hanno promesso dal lontano1970, anno di formazione della band: tiro e solidità. Il titolo La Futura fa il resto, richiamando le migliori opere degli anni settanta e onorando l’entrata nella Rock n Roll Hall Of Fame avvenuta nel 2004.
Quel (poco) che non va? La produzione in certe canzoni sembra calcare troppo la mano verso la fredda pomposità, facendo perdere quello che in un gruppo sostanzialmente blues come gli ZZ Top dovrebbe essere l’imprint indiscusso: l’anima e il calore. Rubin (insieme a Gibbons in sala di produzione) ha lavorato con gli ZZ Top come lavora con i gruppi di estrazione thrash metal, quando invece avrebbe dovuto usare la mano che usò sui dischi di Johnny Cash o Tom Petty. Il rischio di far diventare il tutto molto freddo è stato toccato e superato...
CONTINUA A LEGGERE SU IMPATTO SONORO.IT

 
CAT POWER  Sun (Matador, 2012)

In sei anni possono succedere tante cose. A Chan Marshall sono successe e il frutto lo abbiamo tra le mani: scotta, disturba, raggela, in certi punti è perfino fascinosamente invitante, alcuni morsi sono anche nauseabondi e scaduti da un pezzo ( 3,6,9 è fastidiosa, i dieci minuti di Nothin But Mine sono una lungaggine mal sopportabile, interrotta solamente dalla voce di Iggy Pop).
Nel 2006 usciva il suo ultimo album di studio The Greatest (il disco soul, quello della maturità si disse) cui fece seguito nel 2008 il suo secondo capitolo di cover Jukebox, dove metteva in fila tutte le sue influenze. Nel frattempo, Cat Power, oltre al classico taglio di capelli dopo essere stata abbandonata dall’uomo della sua vita (la foto di copertina è comunque di qualche anno fa), ha raggiunto quell’età -i miei primi 40 anni- che per una donna sono un crocevia non di poco conto, fatto soprattutto di nuovi inventari mentali e fisici ( Cat Power sembra ancora la ragazzina ventenne del debutto Dear Sir-1995 ). Ha poi girato tanti studi di registrazione: a Malibu, Parigi e Miami, in solitaria, sì perché tutto quello che esce da Sun è suo, con il solo aiuto in produzione di Philippe Zdar (Cassius). Un parto travagliato anche questo disco, ma una dimostrazione di completo controllo sulla sua arte che sembra servire ad infondere fiducia, più a se stessa che al mondo che la circonda.
Un ritorno a casa e in se stessa (Ruin). La classica nuova (altra) rinascita (Sun).
Quello che ne è uscito musicalmente è completamente diverso da quello che vi aspettereste da lei. Dell’ Indie-folk è rimasto veramente poco, ma è quel poco che tiene ancora su la baracca. Sono rimaste le liriche, quelle sì, sempre estremamente personali e introspettive. Tutte le cicatrici del passato: infanzia, depressione, alcol, perdite umane, aborti e crisi personali di varia natura sono ancora lì, magari ben nascoste sotto ad un enorme cerotto color pelle, ma è una lunga cicatrice che nessun laser e nessuna maledetta macchina elettronica riuscirà mai a cancellare.
CONTINUA A LEGGERE SU IMPATTO SONORO.IT

Nessun commento:

Posta un commento