Dal fango e i jeans sporchi ai mistici passatempi da bar, il passo è stato più breve del previsto. John Hiatt, ad un solo anno di distanza dal precedente Dirty Jeans and Mudslide Hymns si ripresenta, riconfermando la straordinaria prolificità degli ultimi cinque anni e di tutta una carriera, a dire il vero. Ispirazione che gli ha permesso di registrare quattro album di discreto valore in cinque anni, questo è il terzo consecutivo negli ultimi tre. Dischi che hanno permesso a Hiatt di ritrovare una vena creativa brillante e fresca, cercando e riassaporando profumi dentro ai meandri della tradizione: il rock, il blues, il country, il soul.
Accompagnato ancora una volta dai suoi ormai fidi e solidi The Combo (Doug Lancio alla chitarra, Patrick O'Hearn al basso, Kenneth Blevins alla batteria) e dal produttore Kevin Shirley, e registrato a Nashville come il precedente, proprio da dove partì la sua carriera quand'era ancora diciottenne.
Un disco che poco aggiunge alla sua carriera e lontano dai suoi capolavori di fine anni ottanta (Bring The Family-1987, Slow Turning-1988) nati dopo periodi bui e di disperazione. Ora, alcune profonde ferite si sono chiuse e lo spirito osservatore può indagare con più tranquillità, mantenendo comunque l'urgenza comunicativa di sempre. Dice che, arrivato alla soglia dei sessantanni, sia tornato con lo spirito fanciullesco. Si sta divertendo. Si sente. Infatti c'è, ancora una volta, tutto quello che fa di Hiatt, uno dei più grandi songwriters americani, stimato, imitato e ricercato dai grandi interpreti. La sua incredibile voce soul, con il tempo sempre più aspra, i suoi testi: intrisi di romanticismo, cuori spezzati, l'amore che piace e quello che fa soffrire, l'umanità raccontata (anche) con spietata ironia, le pieghe dell'America più nascosta. Un gradino inferiore, a livello di liriche, rispetto al suo rilassato predecessore (anche se Wood Chipper presenta un bel quadretto), ma musicalmente più vario e divertente.
Questa volta le chitarre elettriche prendono il sopravvento, almeno nelle prime tre canzoni, cocciando contro le sfocate e rilassanti figure di copertina-e retrocopertina- che lo vedono ritratto, in verità, un po' preoccupato e meditativo.Il singolo We're alright now è un rock/blues pressante con tanto di claphands che ci incita a prendere coscienza e dare importanza alle piccole cose anche quando i giorni non vanno così bene come si vuole (...feels good like eatin' ice cream/so I try to have a little bit every day...), con quella impronta gospel/soul nei cori che abbiamo imparato a conoscere negli anni. Bite Marks batte territori stonesiani chiamando in causa Lee Van Cleef e immagini di un amore sanguinario, violento ma estremamente conturbante e seducente. It All Comes Back Someday è un blue-collar rock, buono per scorribande in autostrada, mentre You're All The reason I Need ha il taglio del brit-pop '60.
La già citata Wood Chipper è chitarristicamente oscura e avanza lentamente, quasi in levare, con il suo testo che narra in modo sapientemente cinemtografico di un triangolo amoroso finito nel peggiore dei modi, senza trascurare inaspettati e ironici retroscena.
In My Business, John Hiatt ulula, scalcia e canta: "my babe don't like my business", mentre la canzone avanza diretta e giocosa nel segno del blues più contagioso, così come One of them damn days, un canonico e alcolico omaggio al blues del Delta con le chitarre ancora protagoniste.
In My Business, John Hiatt ulula, scalcia e canta: "my babe don't like my business", mentre la canzone avanza diretta e giocosa nel segno del blues più contagioso, così come One of them damn days, un canonico e alcolico omaggio al blues del Delta con le chitarre ancora protagoniste.
Non mancano le ballate: I Know How to Lose You, l'arpeggiata, sofferta e dolorosa No Wicked Grin; I Just don't know what to say è una canzone con le chitarre di Lancio impegnate ad evocare spazi infiniti ed il pianoforte suonato da Hiatt come ai bei tempi di Have A little Faith in Me; oppure canzoni più rootsy come Give it Up, un allegro country up-tempo con la pedal steel di Russ Pahl e coro doo-wop contagioso, o la finale Blues can't even find me, folk con tanto di dobro e mandolino.
Nel mese delle pesanti uscite discografiche di settantenni (Dylan e Hunter), un sessantenne come Hiatt prenota, da protagonista, il prossimo decennio. Magari cercando di dare un po' di respiro ai suoi fans. Uscite così ravvicinate potrebbero togliere quell'attesa che ti fa assaporare meglio le cose e i dettagli. Il mio è un consiglio da ascoltatore.
Infatti, a smentita, sembra che Hiatt abbia già pronte alcune canzoni per il prossimo anno. E' veramente tornato un ragazzino instancabile.
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