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lunedì 23 aprile 2012

RECENSIONE: SAINT VITUS ( Lillie: F-65 )

SAINT VITUS Lillie:F-65 ( Season of Mist, 2012)

Dopo il ritorno dei Pentagram, l'anno scorso, questo 2012 vede un altro peso massimo del doom metal riunito. I Saint Vitus mancavano su disco dal lontano 1995, anno d'uscita di Die Healing inciso con il loro primo cantante Scott Reagers.
Lillie:F-65,che prende il nome da un barbiturico che sembra alleviasse la loro "giovane" vita negli anni settanta (nessun dubbio in proposito), vede il rientro al microfono del grande Scott "Wino" Weinrich (Obsessed e Spirit Caravan tra i suoi tanti progetti) che ritrova i suoi vecchi compagni, in particolar modo il chitarrista e vero deus-ex machina della band Dave Chandler, tratto distintivo del suono grazie alla sua chitarra, e uno dei pochi freakettoni, selvatici, veri e puri esistenti (il suo look è ancora qualcosa di fantastico alla vista). Reclutato il bravo Henry Vasquez  dietro alle pelli, in sostituzione dello scomparso Armando Acosta e con il basso saldamente in mano a Mark Adams, i Saint Vitus possono riprendersi in mano lo scettro che compete loro.
Abbandonate quasi totalmente le accelerazioni che distinguevano il loro doom-metal (stiamo pur sempre parlando di una band che divideva il palco con i Black Flag, nella Los Angeles dei primi anni ottanta), Lillie:F-65, in soli 35 minuti (durata in linea con i primissimi dischi) riesce ancora una volta a farci compiere un viaggio nella parte più oscura, spirituale e depressa dell'essere umano. Sette tracce che sanno bagnarsi nel dolore e disperazione, che diventano cinque, escludendo il breve interludio strumentale e arpeggiato di Vertigo e i tre minuti finali di Withdrawal, composti da feedback stordenti, liquidi e spiazzanti nel congedare l'ascoltatore.
Il disco si apre con Let Them Fall, canzone ben rappresentativa dello status attuale della band. The Bleeding Ground contiene un ottimo assolo e l'unica accelerazione del disco nella parte finale, oppressiva sinfonia della decadenza che trova il culmine nel lento, oscuro e tetro discendere di The Waste Of Time, con il gran lavoro del nuovo batterista Vasquez e con i riff di Chandler, da sempre il simbolo sonoro della filososia che si cala dietro al doom del gruppo, e nei sette minuti di Dependence, brano più lungo e contorto del disco, fuzz e psichedelia al rallentatore con una spirale centrale di feedback risucchiante e stordente che riparte per poi morire nel rumore della finale Withdrawal. Il punto più estremo del disco.
Episodio a sè, sembra essere Blessed Night, groove sulfureo in odor di Black Sabbath (non volevo nominarli, ma come si fa?) e vicina a certo Stoner dei primi anni novanta. Ma è un cane che si morde la coda.
I suoni non saranno più grezzi, abrasivi e malati come quelli del loro debutto; l'oscura, fumosa decadenza che li avvolgeva nel 1984, con Reagers alla voce è ormai impressa indelebilmente nelle rocce, preda(resistente) solamente dei più nefasti agenti atmosferici. Ora i tempi sono cambiati, ma i Saint Vitus rimangono quella macchina fosca e poco penetrabile che nell'anno 2012 li fa preferire ai tanti cloni sparsi per il mondo. Ancora bentornati, maestri "drogati" di Doom.

  


vedi anche RECENSIONE: PENTAGRAM-Last Rites (2011)

1 commento:

  1. Prendo atto di come la doverosa opera di bonifica (vagamente indotta) della recensione (peraltro esaustiva e stimolante) abbia "riverginato" anche l'area commenti...

    Ciao e grazie per l'attenzione.

    Wah

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