Il suo Here's to the Road non ha nulla da invidiare ai grandi dischi provenienti dagli States. Un disco dove i temi del viaggio e del tempo guidano le cinematografiche liriche, vero punto di forza di un lavoro con pochi difetti, sospese tra velato romanticismo e fughe di libertà.
Cesare Carugi ci parla di questi viaggi, degli ospiti e amici incontrati durante il suo cammino di vita e musicale, le sue passioni, le difficoltà giornaliere nel fare musica live, stando lontano dai grandi circuiti e la pigrizia dell'ascoltatore medio:"...manca la curiosità, si parla di musica ma le persone non sono stimolate ad uscire dal guscio, non vedono oltre la punta del loro naso..."
Here's To The Road sta ottenendo buoni riscontri sia in Italia che all'estero. Te lo aspettavi?Non proprio, o meglio, non mi aspettavo un entusiasmo così unilaterale. Ero soddisfatto del lavoro svolto però rimane comunque una sensazione personale.
Sei arrivato ad incidere il tuo primo disco, anticipato dall'ep Open 24Hrs, dopo i trent'anni d'età. Cosa è successo prima?Altre cose, lunghe pause, qualche serata a suonare le solite cover, impantanandomi in una realtà che adesso combatto fermamente. Poi c’è chi mi ha dato l’input a riprendere la scrittura e a rimettermi in gioco, e ho preso la palla al balzo
Le tue canzoni con le loro storie, i viaggi, i loro paesaggi ci portano direttamente negli Stati Uniti e mi vengono in mente le belle Goddbye Graceland, Dakota Lights & The Man who shot JohnLennon o Too Late to Leave Montgomery. Potrebbero rivivere in un contesto tutto Italiano? In futuro potresti lasciarti ispirare dalla tua terra?Spesso e volentieri non è il dove sono che mi ispira ma il cosa vedo. “Here’s To The Road” ha un approccio visivo tutto americano, ma le strade dove è nato sono anche quelle italiane. La strada è la strada ovunque tu vada.
Il tema del viaggio è ricorrente nei tuoi testi. Più voglia di fuga o conoscenza?Entrambi, qualsiasi fuga bene o male ti porta a fermarti prima o poi. Però c’è anche il senso di libertà, d’immaginazione, di osservare i grandi spazi. Il viaggio a modo suo è un bagaglio culturale immenso, e non è mai fine a sé stesso. Non sono un “leather tramp” (così in America definiscono i viaggiatori senza meta, tutti sacco a pelo e autostop), anzi, sono puntiglioso e studio sempre bene la situazione. Il viaggio è una cosa seria.
Tanti ospiti in questo tuo disco: da DanieleTenca a Riccardo Maffoni fino a Michael McDermott . Vuoi presentarli e spiegare come sono nate queste collaborazioni?Michael McDermott è uno dei personaggi che più hanno influenzato la mia scrittura negli ultimi anni. Nel 1991 fece un esordio col botto con “620 West Surf” che gli dette gran successo e varie etichette, come al solito inutili, di “nuovo Dylan” o “nuovo Springsteen”… Poi le cose con gli anni cambiarono, Michael è una persona troppo sensibile per fare la rockstar… Durante il suo tour italiano la scorsa estate rimase colpito dalla canzone e gli proposi il duetto. Accettò, con mia sorpresa, perché conoscendolo è una persona che tiene molto alla sua privacy e difficilmente si concede a cose come queste. Penso sia stato per il buon vecchio e sano valore dell’amicizia. Che poi è quella cosa che mi ha permesso di fare anche le altre collaborazioni.
Riccardo Maffoni ha un curriculum lungo un braccio, dal primo posto a Sanremo Giovani nel 2006 alla vittoria al Festival di Castrocaro, alle finali di Recanati ad altri premi, e concerti d’apertura per PFM, Van Morrison, Nomadi, Alanis Morissette… Daniele Tenca è on the road da un pezzo e sta portando avanti un progetto alquanto rispettabile sul blues unito alle problematiche della sicurezza sul lavoro. Ma credo debbano essere nominati tutti coloro che hanno partecipato, dal mio amico Massimiliano Larocca a Giulia Millanta, da Leo Ceccanti a Mike Ballini, dal mitico Fulvio A.T. Renzi a Gianni Gori, da Gianfilippo Boni (che ha anche mixato il disco) a Jacopo Creatini, fino a Lele Bianchi (ha suonato tutte le batterie) e Matteo Barsacchi (da cui ho registrato il 90% del disco). Un ringraziamento va anche a un fuoriclasse del mastering, Tommy Bianchi, il cui tocco ha dato una spinta pazzesca all’intero lavoro.
Due tra i migliori dischi del 2011 arrivano da Cecina. Il tuo e l'esordio dei Verily So. Sarà solo un caso o da quelle parti crescete a pane e buona musica?Magari è proprio perché mancano pane e buona musica che cerchiamo di sfondare il muro della mediocrità?! A parte gli scherzi, conosco Simone Stefanini ormai da un paio di decenni e ho sempre rispettato la sua verve musicale, quindi quanto di buono ha fatto coi Verily So non mi stupisce.
Quando si parla di rock in Italia, il grande pubblico nazionalpopolare tende a circoscriverlo attraverso i soliti nomi noti(Ligabue, Vasco Rossi...). Da musicista come ti poni di fronte a questa "pigrizia" tutta italiana verso il rock. Pensi si possa fare veramente qualcosa per invertire questa tendenza, spronando a cercare nel sottobosco o c'è veramente poco da fare.La pigrizia musicale non è solo un problema italiano comunque. Spesso e volentieri le majors vincolano troppo il panorama musicale, e quello che ti viene dato in pasto è quello che a loro rende introiti, e la gente, già pigra di suo, prende quello che gli viene dato. Manca la curiosità, si parla di musica ma le persone non sono stimolate ad uscire dal guscio, non vedono oltre la punta del loro naso. Brutto a dirsi, ma negli ultimi quindici anni c’è stato un vero e proprio crollo della cultura musicale. Spesso ci infilano negli orecchi cose che definiamo “nuove”, solo perché un qualche ufficio stampa ha avuto il colpo di fortuna di piazzarle bene. Penso all’exploit dei Black Keys nei mesi scorsi, ma forse nessuno sa che i Black Keys esistono da un decennio, e che “El Camino” è il disco più brutto della loro carriera.
Hai avuto modo di aprire concerti per importanti nomi del rock americano. Qual'è l'esperienza che ti è rimasta più a cuore?
Ho aperto per Jesse Malin, Michael McDermott, Bocephus King, Matthew Ryan, Israel Gripka e tanti altri, tutte esperienze interessantissime. Forse quella più emozionante resta il concerto d’apertura a Willie Nile della scorsa estate, davanti a 400 persone nella splendida cornice della Rocca di Cento, conclusa poi con una jam finale sul palco con Willie e la band spagnola Stormy Mondays a fine serata. Fatico a pensare a un musicista che ti trasmette entusiasmo più di Willie Nile. Un carissimo amico con un cuore enorme.
Quali sono le maggiori difficoltà che incontri nell'organizzare delle date live in Italia e come presenterai il disco nelle prossime date del tour? Sarai da solo o accompagnato dalla band?Potrei ricollegarmi ai discorsi che facevo sulla pigrizia delle persone, unisco le solite problematiche organizzative e lo spazio che purtroppo viene dato sempre di più alle troppe cover band, che rimangono “macchine per invogliare il pubblico” ma che artisticamente propongono la solita solfa. C’è bisogno di aria fresca e di talento, di fotocopie in giro ce ne sono troppe, e bisogna osare, fare un passo avanti e mettersi in gioco. In quel modo si resta bloccati in mezzo alla strada della mediocrità generale, in attesa di essere investiti. Sto presentando il disco proponendo diversi tipi di show, dall’acustico in solitaria al duo, fino al Double Show che stiamo portando avanti io e Riccardo Maffoni, sulla scia del connubio Dylan-Knopfler. Spero per l’estate di avere la possibilità di fare delle cose in trio. Con la band mi piacerebbe moltissimo, mancano tempo e pazienza in questo momento, quindi vedremo in futuro.
Qual'è il tuo primo ricordo legato alla musica americana? Un disco, un concerto...
La prima cosa che mi viene in mente è il breve show di Porter Wagoner che vidi alla Grand Ole Opry a Nashville. Ricordo che arrivai a Nashville la sera prima ed ero ancora distrutto dalla fatica, ma vedere quest’uomo di quasi ottant’anni con l’entusiasmo di un quindicenne mi ha rimesso al mondo. Se penso a un disco non posso non citare “Soldier” di Calvin Russell. Non è il suo disco migliore, ma è stato il mio personale apripista per la music roots americana.
Bob Dylan, Bruce Springsteen, Neil Young, Tom Petty...o chi vuoi tu. Dovessi scegliere uno solo di loro, con chi collaboreresti per un disco scritto a quattro mani, e perchè?Non sarebbe male avere i testi di Dylan con l’entusiasmo del Boss, la voce di Neil, e la backing band di Tom Petty. Sono 4 autori diversi e se ne stanno lassù nella mia lista personale di mostri sacri. Ma se dovessi sceglierne uno, pensando al mio modo di fare musica, sceglierei il Tom Petty di “Wildflowers”, quello che si sposa di più alla mia concezione di suono e di emozionalità.
C'è già un disco che ti ha colpito in questi primi mesi del 2012 e che consiglieresti? Per ora buoni dischi, come “Wrecking Ball” di Springsteen, i lavori di Craig Finn e Anais Mitchell, o gli Shearwater. Però il mio 2012 è stato letteralmente folgorato dal nuovo di Mark Lanegan. Ha ricreato le sue vecchie concezioni, è provocatorio, è potente, è profondo. Lo adoro.(...condivido pienamente)
vedi anche RECENSIONE: CESARE CARUGI-Here's to the Road (2011)
vedi anche RECENSIONE: CESARE CARUGI-Pontchartrain (2013)
vedi anche INTERVISTA ai W.I.N.D.
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