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lunedì 30 maggio 2011

RECENSIONE: STEVE EARLE ( I'll Never Get Out Of This World Alive)

STEVE EARLE I'll Never Get Out Of This World Alive ( New West, 2011)


Steve Earle è sempre stato un ribelle e alla lunga ha pagato questa sua poca accomodante visione della vita in termini di popolarità e successo ma non certamente in qualità musicale. Le sue scorribande con la legge e una vita sentimentale a dir poco tormentata e burrascosa sono difficili da affiancare al modello di vita di un suo quasi coetaneo, preso a caso, come Springsteen, attento calcolatore di ogni mossa artistica e privata. Un personaggio contro che a volte ha pagato più del dovuto.
Lontano dalla rivoluzione in rock di un disco come Copperhead Road, suo lovoro manifesto della prima parte di carriera, uscito nel 1988, I'll Never Get Out This World Alive, nasconde due grandi dediche: una ad Hank Williams, a cui ruba letteralmente il titolo della sua ultima composizione, ponendolo come titolo del proprio album, l'altra molto più importante e personale, al padre scomparso nel 2007.
Intorno a queste due figure è costruito il disco di impianto Country-Folk con temi che guardano al mistero della morte, come lo stesso Earle spiega nelle note introduttive del disco.
Earle impiega tre anni a scrivere le undici canzoni, tre anni in cui si pone letteralmente davanti al dolore della morte e da esso sa coglierne ispirazione e speranza, cercando nuova linfa di vita. Perchè l'ultimo viaggio non fruga nelle tasche delle persone in cerca dei poveri o dei ricchi ma si pone democraticamente davanti loro, compiendo scelte che a volte sono ingiustificabili ma da accettare.
Poco importa se le vite umane che ci lasciano per compiere chissà quale nuovo viaggio, siano legate dall'indissolubile parentela o sconosciute, come quelle che hanno perso la vita a New Orleans travolte dagli scherzi della natura a cui la finale This City è dedicata.
Allora nascono anche delle domande e dei dubbi, come in God is God (canzone che Earle rifà sua dopo averla regalata a Joan Baez) dove il cantautore ammette di credere in Dio, ma Dio certamente non crede in noi. Ammissione quanto mai vicina ad una negazione.
Chi rimane si aggrappa all'amore e Every part of me è sicuramente una dedica all'attuale compagna Allison Moorer(fresca di gravidanza), presente nei cori dell'intero disco e nel duetto di Heaven Or Hell.

Piace la produzione affidata a T-Bone Burnett, molto vicina agli ultimi lavori fatti con Mellencamp e che fanno risaltare canzoni come l'iniziale e piacevole country-billy Waitin' on the sky, l'oscuro blues Meet me in The Alleyway( che ricorda tanto Tom Waits) o The Gulf Of Mexico, border ballad tra folk e Irish music. L'Irlanda torna prepotente come ai tempi della collaborazione con i Pogues nel lontano 1988(Johnny Come Lately, contenuta in "Copperhead Road"), anche nella trascinante Molly-O.
Con questo disco Steve Earle conferma il buon periodo della sua vita, forse arrivata ad un punto di totale stallo e rilassatezza ma con il fuoco dell'ispirazione che arde ancora anche se, per una volta , non è alimentato da brutte storie di droga e amori finiti ma dall'amore verso una vita ancora tutta da vivere e godere meglio se da "vero sopravvissuto".

vedi anche RECENSIONE: STEVE EARLE & THE DUKES(& DUCHESSES)-The Low Highway (2013)


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