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mercoledì 20 ottobre 2010

RECENSIONE: BLACK LABEL SOCIETY- ORDER OF THE BLACK


BLACK LABEL SOCIETY Order of the black (Roadrunner, 2010)



Quanto tempo è passato da quelle foto in bianconero presenti nella busta interna del vinile No rest for the wicked, album di Ozzy Osbourne che vedeva all'esordio un giovane e sbarbato chitarrista appena maggiorenne, dai capelli biondi e quasi cotonati come la moda hair -metal dell'epoca quasi imponeva, chiamato a confrontarsi nel ruolo che nei dischi precedenti fu occupato dal genio chitarristico di Randy Rhoads e dalla chitarra quasi blues di Jackie E.Lee. Magro, quasi esile, appoggiato ad un trespolo catacombale , poteva quasi confondere dall'assomiglianza con Rhoads. Sono passati 22 anni, il ragazzo è cresciuto e si è fatto vichingo. Il suo stile chitarristico che all'epoca iniziava a prendere forma ora è talmente caratteristico che papà Ozzy ha deciso, dopo più di vent'anni e 5 dischi registrati insieme, di abbandonarlo, colpevole di portare la musica del madman troppo sulla stessa strada dei Black Label society. Zakk accetta l'esonero da grande signore, arrivando addirittura ad elogiare il nuovo chitarrista della Ozzy-band, il greco Gus G, dichiarando pubblicamente che tecincamente lui stesso ne è inferiore.

E così a pochi mesi dal buon ritorno discografico di Ozzy Osbourne, evidentemente l'aria nuova ha fatto bene, tornano anche i Black Label Society, con un album che li riporta su territori molti vicini ai primi due album "Sonic Brew" e "Stronger Than Death".

Il precedente album "Shot To Hell", sacrificava l'energia a favore di un appeal più melodico, componente comunque sempre presente in tutti gli album di Wylde, ma questa volta circoscritta unicamente alle ballads.

Il trittico iniziale(Crazy Horse, Overload, Parade of the dead) lascia la scia di cenere al suo passaggio , tre classici esempi di Black Label Society-sound, riff pesanti e quadrati, assoli mai troppo invasivi ma incastrati alla perfezione in quel mix di Southern/Sabbath sound che lo cantraddistingue. Mescola sapientemente il sound sudista del suo primo progetto solistico Pride & Glory con la pesantezza dei primi lavori dei Black Label Society, creando un giusto mix di feeling e spontaneità chitarristica. Finalmente sembra lasciare anche da parte la voce "ozzyana" che si portava dietro da qualche tempo a favore della sua naturale ugola, perchè Zakk sa anche cantare e lo dimostra in quelle ballads come le pianistiche Darkest days, Time waits for no one e Shallow grave, che non avrebbero sfigurato in nessun disco delle grandi southern band americane degli anni settanta e che il nostro ha dimostrato di maneggiare sapientemente negli anni , incidendo interi dischi di roots-music.
Canzoni che fanno tirare il fiato per pochi minuti, perchè il barbuto Wylde riprende a marciare con i riff panteriani di Godspeed Hell bound e se mai i Pantera, io spero vivamente di no, decidessero di tornare insieme, Zakk sarebbe l'unico a poter sostituire il compianto Dimebag Darrell, per tecnica ma soprattutto per attitudine nei cuori dei fans.
Wylde si diverte e per una volta mette totalmente la sua tecnica a dispozione di un brano, nel breve intermezzo flamencato di Chupacabra.
Finale dedicato al padre nella toccante January, perchè Wylde ha un gran cuore, lo ha dimostrato in tante altre occasioni, cuore che speriamo rimanga tale visto i continui ricoveri ospedalieri causati dal suo vizio preferito chiamato alcol. Eppure aveva giurato di aver smesso ma come cantava Ozzy, il demone alcol(Demon Alcohol) è sempre in agguato. Canzone contenuta proprio in "No rest for the wicked". Il cerchio si chiude.

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