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sabato 12 luglio 2025

RECENSIONE: BRUCE SPRINGSTEEN (Somewhere North Of Nashville)

BRUCE SPRINGSTEEN  Somewhere North Of Nashville (Columbia/Sony, 1995/2025)




uno dei sette

Dentro al monumentale box contenente sette dischi perduti ce ne sono almeno due o tre che mi sarei aspettato da Bruce Springsteen durante la carriera, prima o poi. Tra questi sicuramente  Streets Of Philadelphia Sessions e Inyo.

Lui ha preferito tenerseli e far uscire album come Working On A Dream e High Hopes (due dischi a caso). Questo la dice lunga su quanto spesso abbia "calcolato" troppo intorno ai suoi dischi o sia stato consigliato/indirizzato male. E farli uscire tutti così, in un sol colpo vista la varietà, a parte il costo assurdo, mi sembra  faccia un ulteriore sgarbo a certe canzoni. Uscite singole spalmate nel tempo avrebbero giovato di più a tutti. Qualcuno dice "arriveranno".

Alle tasche dei fan sicuramente, perché in fondo chi se ne fotte del librone che fa alzare il prezzo, sfogli una volta e metti via senza aprirlo mai più. Fatemi pagare la musica il giusto prezzo che non è sicuramente questo e io sono contento.

Quando qualche settimana fa uscì 'Repo Man', uno dei singoli scelti per lanciare il cofanetto, un divertente honky- tonk alla Chuck Berry, mi piacque subito e pensai " se il disco Somwhere North Of Nashville dal quale è uscito è tutto così ne ascolteremo delle belle".

 Somewhere North Of Nashville sarebbe dovuto uscire nel 1995 e fu registrato con i fidi Danny Federici, Garry Tallent e Gary Mallaber, il presentissimo Marty Rifkin alla pedal steel, Jennifer Condos, Jim Hanson, Charlie Giordano e Soozie Tyrell (violino) in registrazioni veloci, con poche takes, e senza troppi abbellimenti estetici intorno a togliere quella ruvidezza troppo spesso sacrificata per eccesso di perfezione.

E mi domando ancora una volta perché non l'abbia fatto uscire nei tempi giusti: avrebbe giovato ulteriormente ai suoi anni novanta. La parte country, honky-tonk, rockabilly, spensierata di The Ghost Of Tom Joad. Anche se sottotraccia la disperazione di quel disco fa capolino pure qui, smussata, a volte nascosta tra paesaggi, personaggi e sentimenti ma c'è.

"Quello che è successo è che ho scritto tutte queste canzoni country contemporaneamente a 'The Ghost of Tom Joad, quelle sessioni si sovrappongono completamente. Canto 'Repo Man' nel pomeriggio e 'The Line' la sera. Quindi il disco country è stato realizzato insieme a 'The Ghost of Tom Joad. 'Streets of Philadelphia' mi ha avvicinato al mio modo di scrivere canzoni socialmente impegnate o di attualità. Ecco da dove è nato 'The Ghost of Tom Joad'. Ma allo stesso tempo avevo questa vena country che pervadeva anche quelle sessioni e ho finito per realizzare un disco country parallelamente" ha detto Springsteen presentando il disco.

Un poker di canzoni si conoscono già, anche se qui sono presentate con diversi arrangiamenti: 'Stand On It' (già pubblicata, in diverse versioni, come lato B di 'Glory Days' nel 1985 e poi nel primo cofanetto Tracks) e 'Janey Don't You Lose Heart' qui in una versione bluegrass (lato B di 'I'm Goin' Down' nell'85, pure lei inclusa in Tracks), arrivano, insieme a 'Delivery Man' e 'Under A Big Sky'  dalle session di Born In The USA. Le altre conosciute sono: la title track che uscì in Western Stars ma qui è alleggerita dai sontuosi arrangiamenti che dettavano il mood di quell'album per trasformarsi in un honky- tonk, mentre 'Tiger Rose' uscì registrata da Sonny Burgess nel 1996 sotto l'intercessione di Garry Tallent, e  'Poor Side of Town'  cover del successo di Johnny Rivers del 1966 con la pedal steel di Marty Rifkyn a cucire note di malinconia. Tra i momenti top dell'album.

Ciò che resta sono canzoni semplici che svelano un'altra America con un lato a volte pure ironico ('Delivery Man', 'Detail Man'), alternando rock'n'roll con composizioni dai tratti più amari e malinconici come 'You're Gonna Miss Me When I'm Gone' e 'Under A Big Sky' che si apre in acustico, chitarra e armonica, per poi abbandonarsi al trascorrere del tempo e alla lontananza ("stasera sto inseguendo i randagi giù nel canyon, grido il tuo nome e ascolto mentre l'eco muore, sotto un grande cielo"),  e romantici ma con un finale che fa prevedere tragicità come 'Silver Mountain' ("mi incontrerai al fiume?, Ti prenderò per mia sposa, di' a tuo padre che sto arrivando, non me ne andrò finché non sarò soddisfatto") che si apre con un fischiettio per poi allungarsi in territori irish non lontani dalle Seeger Session.

Ma nel viaggio dentro a questa America non troppo esposta c'è anche lo spazio per la speranza come canta nella sognante 'Blue Highway':" un giorno mi costruirò una bella casa, sì, in alto su una collina, dove dolore e memoria, dolore e memoria sono stati placati". Visto dove è sprofondato il sogno americano in questi ultimi anni, la sua attualità non l'ha persa. Si continua a viaggiare verso una terra promessa anche se le nebbie sembrano più fitte del previsto.





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