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domenica 21 aprile 2024

RECENSIONE: MARK KNOPFLER (One Deep River)

 

MARK KNOPFLER  One Deep River (EMI, 2024)




luci gentili

Diciamo la verità: Mark Knopfler con il canzoniere messo in piedi con i Dire Straits potrebbe vivere di rendita all'infinito. Potrebbe fare tour nostalgici e accontentare quei fan distratti con un piede ancora negli anni ottanta che dopo i suoi concerti odierni si domandano "ma come? Solo due canzoni dei Dire Straits?". Li ho sentiti con le mie orecchie. Che poi, a fare queste cose ci pensano le cover band. E Mark Knopfler da più di trent'anni ha scelto di non essere la cover band di se stesso. Vi sento: "ma come? I suoi dischi sono tutti uguali. Fanno dormire". Troppo facile liquidare un disco così. Ha scelto una strada, la sta percorrendo e probabilmente la seguirà fino alla fine dei suoi giorni. Alcune recenti dichiarazioni non lasciano dubbi "con i Dire Straits non tornerò mai". Ma nemmeno dal vivo da solista a quanto pare. Una strada onesta che serpeggia elegantemente in mezzo al folk, al country, al blues, ai toni jazzati, dove i guizzi veramente elettrici sono pochi (in questo disco quasi assenti), dove i tempi sono lenti, contemplativi, da lungo viaggio, dove comunque a prevalere sono sempre le belle canzoni. E qui calo il mio asso che sa di sentenza: Privateering rimane il suo album migliore e per ora inavvicinabile.

Perché le canzoni di Mark Knopfler sono tutte belle: basterebbe sceglierne una a caso anche da questo disco, e ascoltarla senza pregiudizio. Prendetevi quattro minuti. Fatto? Non è bella? Ecco, questo mio scritto potrebbe finire qui, senza che vi racconti di quanta malinconia e contemplazione serpeggi tra le dodici canzoni che compongono questo suo decimo disco in studio, popolate da continui rimandi al Tulsa Sound del suo mentore JJ Cale, fin dall'apertura 'Two Pairs Of Hands' , canzone che si sofferma sulla sempre dura vita del musicista on the road insieme a una band, mentre in 'Ahead Of The Game' ricorda con velata nostalgia i primi passi musicali.

Serve ricordare quanto la sua scrittura sia sempre magnificamente descrittiva come nel bel blues 'Scavenger's Day' (uno dei pochi up tempo con la chitarra elettrica in evidenza) dove racconta di un poco di buono o in 'Tunnel 13' dove racconta la storia di tre banditi, i fratelli D'Autremont, con l'aiuto delle coriste? Potrei raccontarvi di quanto gli archi di ' Black Tie Jobs' diano una solenne grevità a una delle tante ballate del disco che indugia alla riflessione, al sogno, come in 'Watch Me Gone' con la lap steel di Greig Leisz riesca a citare due vecchi amici. A voi scoprire chi. Potrei dirvi come in 'Sweeter Than The Rain' che si apre con un canto a cappella riesca ad evocare antiche lande britanniche, o come non possa mancare un treno in arrivo ('Before My Train Comes'), che potrebbe essere anche 'slow' come quello del 1979 ('that's my train coming' canta) mentre il batterista Ian Thomas spazzola sui tamburi unendo America e Inghilterra.

"Se ascolti il suono del treno interpreti meglio il suono della vita" ha detto recentemente.

Potrei raccontarvi di come in 'This One's Not Going To End Well' giochi di classe aiutato dal violino di John McCusker con una storia di schiavitù inclusa nel.testo o come in 'Smart Money' le tastiere del sempre fedele Guy Fletcher portino verso lande caraibiche.

Ascoltando la finale, autobiografica (il fiume è il Tyne della sua Newcastle) e dylaniana 'One Deep River' (che già da sola varrebbe l'acquisto) mi assale quella strana voglia di pensare a cosa uscirebbe oggi da una collaborazione tra Mark Knopfler e Bob Dylan, ora che la saggezza ha preso il sopravvento, il tour quasi "pacco" insieme lo hanno già fatto e sembra un vecchio ricordo e il rosicato tempo davanti non è più quello che c'era ai tempi di Infidels.





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