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giovedì 1 febbraio 2024

RECENSIONE: KARA JACKSON (Why Does The Earth Give Us People To Love?)

 

KARA JACKSON  Why Does The Earth Give Us People To Love? (September, 2023)




poesie in musica

Troppo colpevolmente intenti a celebrare il passato con ricorrenze di dischi e artisti con almeno vent'anni sul groppone, io per primo, a volte ci passano davanti delle prelibate novità che ignoriamo o facciamo finta di non vedere per troppa pigrizia. Uscire dal proprio e rassicurante orto è sempre attività che in cambio richiede indietro un po' del tuo tempo e a volte le vecchie e rassicuranti scorciatoie sono meno dispendiose. O facciamo finta di non avere tempo per ascoltare per l'ennesima volta un disco che sappiamo a memoria.

 Io per primo ancora una volta. Kara Jackson no, è arrivata subito grazie al passaparola dei social e di chi, fortunatamente, vive anche nel presente. Grazie. Però lo ammetto: la copertina è arrivata prima di tutto. Kara Jackson è una figlia del sud degli States (i genitori sono originari della Georgia) cresciuta a Chicago, bella (ecco ancora la copertina!) ma soprattutto brava. Venuta su a pane, musica e poesia ("al liceo ero conosciuta come "la ragazza della poesia". C'è sempre stata questa distanza tra me e le persone" racconta) con una mamma insegnante e sindacalista, un papà accanito ascoltatore di jazz, un fratello appassionato di hip hop e le lezioni di piano prese in giovanisssima età. In casa giravano i dischi di Pete Seeger, Joni Mitchell, Nina Simone e Jim Croce.

"Vengo da gente del sud. Per me c'è qualcosa di veramente spirituale nella musica folk" ha detto in una recente intervista. Kara Jackson non ha fatto altro che unire tutti questi puntini (mica facile eh?) aggiungere la sua voce profonda e il suo presente con testi che indagano sulla retta che unisce il dolore all'amore con una narrazione poetica che la fa emergere pur senza far uso di facili ritornelli, totalmente assenti. 'Pawnshop' però ti cattura al primo ascolto. 

Nella title track narra  della sua migliore amica mancata nel 2016 a soli diciassette anni per un tumore. I giochi di parole e gli incastri poetici legano e slegano le canzoni dove lel relazioni umane vengono in continuazione sviscerate ('Therapy', 'Brain', 'Rat'). In 'Dickhead Blues' indaga con ironia su relazioni amorose con uomini che alle fine si sono rivelati di poco conto. Scava tra le pieghe dei rapporti, scruta tra i meandri della solitudine. 

Il suo è un folk che sa unire la classicità del racconto con una chitarra acustica (compare pure un banjo) alla modernità di inaspettate fughe costruite di cori, orchestrazioni d'archi e pianoforte, mantenendo sempre una linea delicata e gentile, eterea e senza tempo.

Insieme a lei una squadra formata da Kaina Castillo, Nnamdi Ogbannaya e Sen Morimoto, che si muove in perfetta, umana simbiosi. 

Uno dei migliori dischi di debutto di questi anni. Ho pure una convinzione: il secondo disco potrà riservare ulteriori sorprese.

"Stiamo solo aspettando il nostro turno, chiamiamolo vivere” canta. E allora sarà ancora più bello aspettare ascoltando questo disco, quasi magico e ammaliante.





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