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mercoledì 27 aprile 2022

RECENSIONE: OLD CROW MEDICINE SHOW (Paint This Town)

 

OLD CROW MEDICINE SHOW   Paint This Town (ATO Records, 2022)


coloriamoci la vita

Sono passati quattro anni dall'ultimo album Volunteer, in mezzo e tuttora in corso una pandemia e una una guerra (una delle tante). Gli Old Crow Medicine Show ritornano con un batterista in più, Jerry Pentecost che si prende pure la scena lasciando la voce solista nel bluegrass 'DeFord Rides Again' dedicata a DeFord Bailey,  pioniere di colore della musica country Americana, armonicista e musicista il primo ad essere trasmesso dalla trasmissione radiofonica Grande Ole Opry negli anni venti. 

Ma non è la sola novità della band nata nel 1998, partita proprio dallo spirito dei vecchi Medicine Show, rubandone il nome (gli spettacoli itineranti che fin dall '800 portavono in giro per le città americane i prodotti medicinali-apparentemente più miracolosi- reclamizzati grazie all'ausilio di spettacoli teatrali e musicali-un carosello televisivo ante litteram-), suonando vecchi traditional senza tempo utilizzando solo strumenti a corda. La band è cresciuta, maturata e oggi sono tra i migliori rappresentanti dell'american music tutta. Lo si capisce dall'iniziale 'Paint This Town' elogio alla giovinezza e alle tante piccole e sperdute città egli States, condotta alla John Mellencamp, da una 'Gloryland con il passo  di Bob Dylan (la band in passato si era pure cimentata in brani del nostro musicando perfino una mai completata ' Wagon Wheel', contenuta in Remedy), o nello scatenato honky tonk rock'n'roll ' Lord Willing And The Creek Don't Rise'.

È certamente uno dei dischi più vari della loro carriera. 

Per temi affrontati: dal degrado ambientale che anima la dura 'Used To Be A Mountain', un country rock che piacerebbe a Steve Earle, al sociale affrontato nella ballata soul guidata dal pianoforte 'New Mississippi Flag', un incrocio tra l' Elton John "americano" e Billy Joel periodo Piano Man che attraversa la travagliata storia dello schiavismo degli stati del sud. 

E pure musicalmente: passando dal folk di 'Reasons To Believe' all'assalto punk bluegrass di 'Painkiller', un affondo sulle "dipendenze" pericolose fino allo scuro blues 'John Brown's Dream. 

Anche se antiche schegge country bluegrass rimangono a ricordare i primi tempi: 'Bombs Away' e 'Hillbilly Boy'. 

Non ci si annoia certamente, ascoltando le canzoni che il frontman Ketch Secor ha scritto ispirato dalle persone che lo circondano. 

"Mi piacciono le persone che fungono da segnaletica per altre persone, mi piacciono le persone che possono essere sia un simbolo che reali... Incontro sempre persone su cui potrei scegliere di scrivere una canzone o di non scriverne una. Ci sono così tanti personaggi affascinanti e interessanti in questa città e tutte le città».






giovedì 21 aprile 2022

RECENSIONE in breve: SCORPIONS (Rock Believer)

SCORPIONS  
 Rock Believer (Vertigo, 2022) 






il passato chiama, gli Scorpions rispondono

A volte "il ritorno al passato" sembra una minaccia. Altre può essere una benedizione, soprattutto se in discografia hai un disco che cercò di cavalcare il presente (e il futuro) come Eye II Eye (1999), massacrato all'uscita ma che ho comunque recuperato recentemente per completezza. Dopo vent'anni pare almeno divertente. La verità è che spesso il famoso "ritorno al passato" è una frase che poche volte trova casa nella verità. Questa volta no: sembra tutto vero. Finalmente. Lo si capisce immediatamente dalla copertina che pare riprendere quella di Blackout (uno dei loro vertici) e dal trittico iniziale che riporta gli Scorpions indietro a quei nove anni cavalcati in cima alla montagna hard e heavy, quelli che partivano da Animal Magnetism (1980) e portavano a Savage Amusement (1988), quando chiodo di pelle e toppe, riff e melodia viaggiavano a braccetto. 'Rock Believer' e 'Peacemaker' sono un perfetto esempio del sound eighties della band. Rudolf Schenker e Matthias Jabs poi, rimangono una delle coppie di chitarre più affiatate e longeve del rock mentre Klaus Meine sembra non risentire minimamente degli anni che passano. C'è ancora tutto. Se in 'Gas In The Tank' piazzata all'inizio è la migliore delle chiamate alle armi, piena di riferimenti al passato nascosti nel testo, l'assalto di 'Roots In My Boots' si contrappone alla cadenzata 'Knock' Em Dead' e 'Call Of The Wild' avanza sinuosa e suadente, con 'When I Lay My Bones To Rest' il nuovo batterista Mikkey Dee si presenta portando un po' di sano fast rock'n'roll alla Motorhead che ti fa esclamare "ah però 'sti settantenni!". A volte ci sono autoplagi come il ritmo quasi reggae di 'Shining Of Your Soul' che pare lo stesso di 'There Anybody There?', la bella 'Seventh Sun' ricorda 'China White' ma la presenza di una sola ballata ('When You Know (Where You Come From)'), questa sì non all'altezza del passato, è la cartina al tornasole che ci fa capire quanto gli Scorpions dopo cinquant'anni di carriera siano stati in grado di tirato fuori il loro miglior disco "heavy" dai tempi di Face The Heat. Correva l'anno 1993. 
A testimonianza del buono stato di forma, non deludono anche le cinque canzoni in più contenute nella versione Deluxe: 'Shoot For Your Heart' e 'Unleash The Beast' avrebbero meritato di stare nel disco principale.






venerdì 15 aprile 2022

RECENSIONE: ERIC WAGNER (In The Lonely Light Of Mourning)

 

ERIC WAGNER   In The Lonely Light Of Mourning (Cruz Del Sur Music, 2022)



disco emozionale del 2022?

Di un artista che nei suoi testi ha sempre cercato di trovare un significato all'esistenza e a ciò che eventualmente ci aspetterà dopo, è quantomeno straniante ascoltare un disco postumo.

Ancor di più dopo aver ascoltato 'Maybe Tomorrow' qui contenuta che recita:"Where will I be this time tomorrow If I die today, Will you remember I was even here, By the end of the day, Maybe tomorrow I will love again".

Eric Wagner ha abbandonato questa vita terrena a 62 anni nell'Agosto del 2021, vittima del Covid, non prima di aver portato a termine le otto canzoni che compongono il suo secondo disco solista. Un disco fatto e finito che trovo splendido nel suo riallacciarsi con la parte più pesante della sua lunga carriera di cantante, spingendosi a recuperare il primordiale heavy doom dei mai troppo lodati Trouble ma anche della sua creatura Skull.

Che i Trouble abbiano aperto tante strade a altre band lo testimoniano i tanti elogi e attestati di stima ricevuti negli anni: da Dave Grohl ("ascoltare i Trouble la prima volta, fu come ascoltare Sgt. Peppers per la prima volta. Psalm 9, The Skull furono gli album che diventarono la colonna sonora della mia vita. I testi di Eric Wagner erano ispiratissimi e nessuna band ti trascinava in una nenia funebre come sapevano fare loro. Dio li benedica") a Lee Dorrian dei Cathedral ("hanno completamente reinventato il genere e trasceso la formula standard in qualcosa di veramente unico"), tanto per citarne due.

Messo da parte anche l'amore per la psichedelia (e gli amati Beatles) che ha segnato notevolmente la seconda parte di carriera dei Trouble ma non solo - chi si ricorda dei LID formati da Wagner insieme a Danny Cavanagh degli Anathema? - le otto canzoni sono una passeggiata sulfurea tra i lenti ritmi doom che hanno nella greve 'If You Lost It All', voce e violoncello, e nel più tirato hard rock finale 'Wish You Well' gli unici momenti di divagazione dal pesante incedere guidato dalla sua voce inconfondibile, divenuta vera icona del genere. Ad ascoltarlo oggi sembra quasi un testamento a cui hanno messo firma anche tanti ex compagni dei Trouble: da Dave Synder, batterista ma anche autore e chitarra, il chitarrista Chuck Robinson e il bassista Ron Holzner. Aggiungete la chitarra di Victor Griffin (Pentagram e Place of Skulls) nella title track e avrete una superband.

In una intervista di qualche anno fa Wagner spiegò: "non credo nelle religioni perché non credo che tutti possano avere ragione. Ma credo che ci debba essere qualcosa di meglio di questo, perché altrimenti non ci sarebbe alcuno scopo per noi essere qui, attraversare tutta questa miseria, il dolore, la sofferenza, i soldi, le persone che muoiono, le persone che vengono uccise, la coca cola, le droghe. Non credo che siamo solo messi in una scatola e poi nel terreno. Altrimenti non vedo alcun senso".

Sarà tutto dettato dalle suggestioni, da quanto è successo, ma canzoni come la sabbathiana 'Strain Theory', 'Isolation' e 'Walk With Me To The Sun' toccano il vertice delle emozioni.

Certo, Wagner poteva aspettare ancora qualche anno prima di iniziare la personale esplorazione dell'aldilà. Qui sembra darci, ancora una volta, qualche anticipo.





domenica 3 aprile 2022

RECENSIONE: THE HANGING STARS (Hollow Heart)

 

THE HANGING STARS  Hollow Heart (Loose Music, 2022)



aria di sixties

Sbirciando tra le "nuove" uscite discografiche dei pochi negozi di dischi rimasti è impossibile non notare quanto il mercato sia totalmente invaso da reperti della grande epoca del rock: è un susseguirsi di uscite di vecchi live dimenticati, registrazioni radiofoniche, b side e outtake. Mi domando allora: meglio "raschiare" il fondo del barile finché ce n'è andando sul sicuro con i grandi nomi della storia (tipo l'ennesimo live di Neil Young datato 1971 che sappiamo a memoria ancor prima di sentirlo) oppure "rischiare" con qualche nuova band che pur guardando al passato vive il presente e ha pure cose da dire sul questi tempi bui, strani e maledetti (brexit, pandemia)? The Hanging Stars con il quarto disco in carriera calano l'asso in grado di far girare il nome. Londinesi ma innamorati di certi suoni che andavano di moda in America tra il 1967 e il 1972: country rock, psichedelia, pop, cosmic country con band come Byrds, CS&N, Turtles, Buffalo Springfield, Flying Burrito Brothers come punti di riferimento. Ma anche il folk britannico dei Fairport Convention, più vicino geograficamente, non manca. Ma il bello arriva quando quei suoni californiani in voga a Laurel Canyon negli anni 70 vengono filtrati con qualcosa di più moderno (per modo di dire): echi di REM, Jayhawks, Wilco e Stone Roses si mischiano in un suono che solo una band di oggi con una tavolozza con cinquant'anni di rock a disposizione può governare a proprio piacimento e la band guidata da Richard Olson ci sa fare. 

Registrato tra le a highland scozzesi, Hollow Heart è un disco in grado di prendere l'ascoltatore e farlo viaggiare per terra e mare, cieli e strade tra le pedal steel e i cori eterei di 'Weep & Whisper', le suggestioni sixties di 'I Don' t Want To Feel So Bad Anymore', le chitarre elettriche acide e ficcanti di 'Hollow Eyes, Hollow Heart', il country rock da viaggio che più west coast non si può di 'Black Light Night', il singolo 'Radio On' ("sono io che cerco di scrivere una canzone soul e penso che abbia qualcosa di simile ai Velvet Underground. È come se i Big Star incontrassero i Velvet" racconta Olson). 

Nota di merito anche per la bella copertina.