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martedì 16 febbraio 2021

RECENSIONE: THE DEAD DAISIES (Holy Ground)

THE DEAD DAISIES  Holy Ground (SPV, 2021)




il timbro di Glenn Hughes

Me lo immagino così David Lowy, padre e padrone dei Dead Daisies: al supermercato della musica a barattare quel che ha con qualcos'altro. Tenga signor Lowy, le diamo un solo Glenn Hughes al posto dei suoi John Corabi e Marco Mendoza, le va bene? Come no? Prendo e porto a casa. Voi lo avreste fatto? 

"Ci siamo incontrati a Los Angeles, abbiamo cenato bene e mi ha detto che la band stava cambiando, e mi ha chiesto se volevo incontrarmi con loro a New York e fare le prove, scrivere nuove canzoni…" racconta Hughes del suo incontro con il capo Lowy. 

Il risultato? Un disco che conferma i Dead Daisies come una delle band punta del moderno hard rock degli anni duemila, seppur con  la interminabile girandola di musicisti, tutte delle vecchie volpi, che vi hanno gravitato intorno. Super gruppo che oltre a Lowy (chitarra ritmica) e Hughes (voce e basso) può contare su due pezzi da novanta come Doug Aldrich (chitarre) e Deen Castronovo (batteria) che però sembra aver già abbandonato il suo posto per motivi personali. 

L'entrata di Hughes a basso e voce si sente in 'Like No Other (Bassline') che è quasi subito lì, una sorta di carta d'identità, a dimostrare forza e bravura con il suo irresistibile groove funky  e un po' tutto il disco sembra avvolgersi intorno al carisma di quella voce che non sembra aver perso un'oncia della sua forza. Gli anni sono 68. E poi si sa, ovunque vada, Hughes porta il tuo trade mark riconoscibile, che siano i Deep Purple, i Black Sabbath o i Black Country Communion.

"La presenza di Glenn ha portato un timbro diverso rispetto a John Corabi, il disco, infatti, ha delle sonorità più heavy e un groove decisamente bello" ha detto Aldrich in una recente intervista. 

Sono così sorte due correnti di pensiero: c'è chi pensa che i Dead Daisies abbiano snaturato  troppoil loro suono, c'è chi dice che Hughes abbia solo portato la sua esperienza e il suo carattere all'interno di una macchina già ben oliata e rodata. Una cosa è certa, se un brano come 'Come Alive' sembra ancora legato ai vecchi dischi in canzoni come la terremotante apertura 'Holy Ground (Shake the Memory)', nella modernità che segna 'Saving Grace', nel riff sabbathiano di 'My Fate' (i caratteri alla Master Of Reality che campeggiano nel retro copertina sono un omaggio ben evidente), nella cover '30 Days In A Hole' degli Humble Pie con Castronovo alla voce, nella finale 'Far Away', power ballad dal lungo minutaggio che alterna arpeggi a stacchi elettrici, ci sono le solide basi su cui si poggia un disco che non inventa nulla ma ha il pregio di mantenere caldo e vivo un suono troppe volte dato per agonizzante. Certo, i detrattori di Hughes, quelli che non avrebbero mai preso attraverso un baratto con altri due musicisti di primissimo piano, devono girare alla larga.






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