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venerdì 22 maggio 2020

RECENSIONE: STEVE EARLE & THE DUKES (Ghosts Of West Virginia)

STEVE EARLE & The DUKES   Ghosts Of West Virginia (New West Records, 2020)






l'ultimo dei working class hero

Le loro storie vengono sempre a galla quando è troppo tardi. I giornali dedicano pagine intere e titoli, i loro volti, i nomi vengono sbattuti in prima pagina. I  sindacati, quando ci sono, fanno la voce grossa. Ma solo pochi giorni dopo il  ricordo si stinge, le foto sbiadiscono, i nomi vengono dimenticati, tutto vive sempre e solo nella memoria dei cari rimasti in piedi in questa superficie alla luce del sole, poco sicura anch'essa, oppure scolpito sopra a un monumento in granito che li ricorda, posizionato lungo la statale. Visibile solo quando passa la mano di un tosaerba e se freni, parcheggi  e scendi dall'auto.
Era il pomeriggio del 5 Aprile del 2010 quando un'esplosione improvvisa non lasciò scampo a 25 minatori che stavano lavorando nella miniera di Upper Big Branch nella comunità di Montcoal nel West Virginia, 1000 piedi sotto la terra. Altri quattro dispersi verranno trovati successivamente portando il conto a 29 operai deceduti. Le scarse condizioni di sicurezza della miniera furono spesso denunciate ma rimasero un grido inascoltato, pronto da tirare fuori a tragedia avvenuta. Buono e utile solo per eventuali processi. Per la cronaca: la miniera è stata chiusa, il presidente ha passato un solo anno di reclusione e ha continuato la sua vita riciclandosi in politica. Sembra un copione già scritto troppe volte: giustizia non fu fatta, naturalmente. Rimane solo il granito scolpito con i loro nomi e l'erba alta intorno.
Steve Earle quei 29 minatori li nomina tutti, quasi con rabbia, nel testo della tesa ed elettrica 'It' s About Blood' una delle dieci canzoni che compongono questo nuovo Ghosts Of West Virginia, figlio di uno spettacolo teatrale. Un progetto nel quale venne coinvolto, pensato da Jessica Blank e Eric Jensen per mantenere intatta la memoria e che sarebbe stato messo in scena nel marzo di quest'anno se il lockdown non fosse intervenuto a mettere i sigilli.
Earle nel disco riprende quella triste storia di cronaca e alcune canzoni scritte appositamente per la commedia e ce le racconta insieme ai suoi Dukes (la "rossa e indispensabile Eleanor Whitmore al violino, il marito Chris Masterson alla chitarra, Ricky Ray Jackson alla pedal steel, Brad Pemberton alla batteria e Jeff Hill-Chris Robinson Brotherhood-al basso in sostituzione di Kelley Looney, scomparso poco prima di entrare in studio), più Eleanor Masterson voce nell'arioso ma straziante folk  'If I Could See Your Face Again', interpretata con la vista spostata dalla parte di chi sta a casa ad aspettare, magari con dei figli e un mutuo da pagare.
Un disco breve (29 sono i minuti proprio come i morti), registrato in mono (per via dei problemi all'udito di Earle), diretto, accusatorio, che ha i suoi eroi e i suoi bersagli politici.
Si apre con il canto a cappella che sa di traditional 'Heaven Ain' t Goin'Nowhere', si prosegue sulle strade ben battute del bluegrass in 'Union, God And Country' (una vita già segnata da rotaie sempre uguali ma da affrontare con orgoglio) e la nera 'Black Lung' (se sopravvivi ai disastri dovrai comunque fare i conti con altre malattie), dell' honky tonk in 'John Henry Was A Steel Drivin' Man', dove la figura di John Henry viene rivista, del folk ('Time Is Never Our Side', 'The Mine'), del rockabilly in una 'Fastest Man Alive' quasi springsteeniana.
L'orgoglio e la consapevolezza degli operai già svegli di prima mattina con una preghiera stretta tra i denti a scongiurare un rischio calcolato, nell'incalzante ritmo con violino e banjo che guida 'Devil Put The Coal In The Ground', un blues primitivo, straziante, che si spezza con l'entrata della chitarra elettrica, sono forse l'apice di un disco che non fa nulla per compiacere l'ascoltatore. Qui conta solo l'empatia e con Steve Earle di mezzo si va sempre sul sicuro. Insomma: sappiamo sempre da che parte sta.
Ora, a ricordarci di quella giornata di dieci anni fa, oltre a un monumento in granito fermo su un lato di una strada trafficata, all'opera teatrale ferma invece al palo ancora prima di iniziare c'è questo disco che conferma Steve Earle come uno dei pochi veri songwriter in grado di portare in superficie storie dimenticate alla maniera dei vecchi folk singer.
Un disco che solo uno come Steve Earle può permettersi.
Corto, ruvido, sincero, poco accomodante. Di denuncia e speranza. Anche se non aggiungerà nulla alla sua carriera musicale, è un'altra tacca da scolpire sopra al monumento Earle alla voce rispetto. Adesso tagliate quell'erba!










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