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mercoledì 24 luglio 2019

RECENSIONE: WARRIOR SOUL (Rock'n'roll Disease)

WARRIOR SOUL  Rock'n'roll Disease (LiveWire, 2019)
 
 
 
rock'n'roll never dies
 
KORY CLARKE ha sempre fatto quello che cuore e mente gli hanno dettato. Nel bene e nel male. A un passo dal diventare uno dei più credibili guru del rock alternativo degli anni novanta quando la sua creatura Warrior Soul, nata a Detroit e cresciuta a New York, iniziò a buttare fuori dischi che mischiavano l'urgenza del post punk con il metal, la New Wave e la psichedelia condendo il tutto con testi al vetriolo da ultimo dei reietti con la missione ben precisa di mettere in guardia il mondo da un'imminente apocalisse. Ci andò vicino ma i suoi messaggi erano "troppo divisivi" per un mercato che cercava nuovi idoli universali.
"In America ho sempre trovato difficoltà. Ho sempre pensato che fosse a causa delle mie critiche alla situazione sociale americana e al coraggio di dire davvero quello che provo al riguardo". Musicalmente il tutto durò una stagione, Clarke chiuse i Warrior Soul nel cassetto delle "cult band", si mise l'anima in pace ma continuò a produrre musica su strade più leggere e sleaze con il progetto Space Age Playboys, diventando pure il cantante dei fumosi Trouble. Nel suo passato più remoto anche esperienze come batterista (Raging Slab), capacità che sfodera ogni tanto: qui dentro sei canzoni su otto le ha suonate lui.
Nel 2007 ha rimesso insieme la sua arma più scintillante e pericolosa. Rock'n'roll Disease non lascia nulla all'immaginazione: titolo e copertina sono chiari. Si continua in qualche modo a combattere con lo sguardo meno visionario e poetico ma più truce, beffardo e festaiolo .
Perso per strada il suono graffiante a tratti ipnotico degli anni novanta e persa la fredda epicità della sua voce, diventata ora roca e ringhiosa, a tratti rantolante, sulla buona strada che porta verso il caro Lemmy, a guadagnare sono la belluina urgenza, l'istintività che si aggancia alle radici proto punk dei 70 di Mc5 e Stooges ('Rock'n'roll Disease', 'Melt Down'), e ai rami di quel suono hard rock blues sporco e puzzolente che Motorhead e vecchi AC DC ('Up The Dose', 'Going Mental') portavano in giro con orgoglio ai tempi d'oro. La chitarra di Adam Arling è una buona ascia su cui contare per riff e assoli, 'War Ride Children' un testo su cui pensare. 
Il disco riprende il discorso interrotto dal precedente Back On The Leash, uscito due anni fa: otto canzoni secche e dirette (registrate in presa live) la cui vera casa è il palco, 32 minuti senza un attimo di respiro che passano in quella sorta di apnea ruvida e contagiosa che sa ancora essere il rock’n’roll quando non si affida a calcoli ma al puro istinto.
Alla larga gente con troppa puzza sotto il naso, qui dentro il marciume del rock'n'roll vince su tutto.
 
 
 

 

 

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