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martedì 9 luglio 2019
AMERICA live@Teatro Romano, Verona, 7 Luglio 2019
AMERICA live@Teatro Romano, Verona, 7 Luglio 2019
La musica unisce. L'ho sempre saputo, l'ho sempre sperato anche se spesso ci si traveste da giudici per far uscire le nostre sentenze a volte frettolose, spesso frutto di luoghi comuni e presunte invidie, su gruppi che non ci aggradano troppo. Ne sanno qualcosa gli America, tanto baciati dal successo per un certo periodo quanto spesso bollati negli anni come "easy listening" come se scrivere belle canzoni in grado di arrivare facilmente al grande pubblico fosse un reato da scontare in qualche modo. "Copia carbone in versione pop di CSN&Y" la critica più abusata.
La musica unisce. Ieri sera, complice il gradevole colpo d'occhio del Teatro Romano di Verona pieno in ogni sua parte, all'ora del tramonto ma appena reduce da un violento temporale pomeridiano con grandine annessa, c'è stato un momento in cui ho capito che la musica va oltre, chiude i cerchi, si rinnova in continuazione. Esattamente quando a metà concerto circa, Dewey Bunnell e Gerry Beckley hanno introdotto la cover di 'Eleanor Rigby' dei Beatles, parlando di George Martin, il grande produttore dei quattro inglesi che per una buona fetta degli anni settanta si è occupato anche dei suoni degli America, trovando nell'allora trio un valido sostituto alla sua opera maggiore venuta a mancare proprio quando tre ragazzini americani, figli di militari di stanza in Inghilterra, si conobbero e formarono una band che fosse in grado di racchiudere le loro radici. Sono passati cinquant'anni, alcuni protagonisti non ci sono più (il terzo America Dan Peek morto nel 2011 ma che lasciò la band nel 1977, lo stesso Martin) ma il grande numero di belle canzoni scritte dal gruppo è impressionante se messe in fila, una dietro l'altra come stasera, accompagnate da qualche video nostalgico che mischia la storia della band con quella della società in continua mutazione, ad aumentarne la forza evocativa. La California si respirava nell'aria.
Un canzoniere inattaccabile il loro. Almeno lo è stato fino al 1980.
Un suono pulito e basico (acustica e visione da dieci e lode in qualunque angolo del teatro), fatto di armonie vocali, belle chitarre acustiche, batteria (bravo il giovane batterista Ryland Steen che si è pure cimentato dietro il microfono), basso (il veterano Rich Campbell) e chitarre elettriche spesso in mano all'altro giovane Steve Fekete.
Dall'apertura 'Tin Man' ai grandi successi dei settanta: l'ariosa gita on the road di 'Ventura Highway', il country folk di 'Don' t Cross The River', la malinconica 'Lonely People' cantata dal batterista con Beckley al piano e all'armonica, 'Daisy Jane', 'Riverside', la ballata pianistica 'I Need You', i ritmi jamaicani di 'Woman Tonight', il grande successo 'Sister Golden Hair', fino al colpo di coda dei primi anni ottanta rappresentati dal rock fm di 'Survival' e 'You Can Do Magic', in una sorta di bolla temporale dove West Coast music, country rock, pop (quando Gerry Beckley si siede al pianoforte a insegue il suo mito Paul McCartney) e qualche bella tirata rock come 'Hollywood', 'Greenhouse' cantata da Bunnell, e la sempre desertica ed evocativa 'Sandman' con tre chitarre elettriche sul palco a rincorrersi.
Il tempo di 'California Dreamin', la seconda cover in scaletta, ricordando quando in un vecchio concerto con The Mamas and the Papas e Beach Boys "tutte e tre le band avevano questa canzone nella loro scaletta" fino l'atteso finale: naturalmente il bis è tutto per 'Horse With No Name'.
Buon cinquantesimo anniversario.
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