RYAN BINGHAM American Love Song (AB Records, 2019)
tra privato e politico
Vorrebbe scrivere canzoni mettendo al centro delle attenzioni gli altri ma alla fine ci ritrova sempre se stesso. Così anche American Love Song finisce per diventare una sorta di autobiografia in musica della sua vita: l'approdo definitivo dopo anni spesi a cercare la sua vera identità. La sua terapia, la sua valvola di sfogo, perché altro di meglio su cui appoggiarsi non ha se non la musica stessa. “Penso che tutti abbiano contribuito a formare quello che sono ora. Scrivere veramente canzoni richiede empatia. Devi cercare di metterti nei panni degli altri. " Ryan Bingham ci è riuscito molto bene fin dal suo esordio Mescalito, passando per un premio Oscar, e altri quattro album fino all’ultimo Fear And Saturday Night uscito quattro anni fa. Ecco che la sua dura infanzia è sempre lì dietro l’angolo a premere per un posto in prima fila e la ritrova in parte in una ballata folk come ‘Wolves’, che parla di bullismo nelle scuole, di armi che hanno vie troppo facili anche per serpeggiare indisturbate tra i banchi di scuola, una voce data a quei studenti che si stanno battendo perché ciò non avvenga più. Mai più. La morte prematura dei genitori, il padre suicida, la madre alcolizzata che ritroveremo insieme ad altre donne (Janis Joplin in prima fila) nella finale ‘Blues Lady’ un country guidato da una bella chitarra dedicato alle donne forti ma piene di debolezze, una gioventù senza un punto di riferimento geografico fisso, sempre in movimento tra il New Mexico, il Texas e la California. Così anche quando canta del dilagante razzismo, di un presidente che vende menzogne, riferendosi chiaramente a Donald Trump e di proiettili vestiti di sangue nell’apparente quiete del quasi valzer ‘Situation Station’ e ‘America’ dove si chiede anche dov’è finito il sogno da sempre promesso, lui è sempre dietro l’angolo, spettatore, a volte protagonista, di esperienze raccolte in anni passati a contatto con persone di tutti i tipi durante i tanti rodei che ha portato a termine in gioventù. American Love Songs, il suo sesto album a nove anni dal premio Oscar vinto con The Weary Kind, è sostanzialmente un album dall’impalcatura blues, prodotto da Charlie Sexton, chitarra fedele di Bob Dylan, che spazia in continuazione dal personale ai forti accenni politici come lui stesso ha raccontato durante un’intervista al Texas Monthly: “è una responsabilità” dice, spiegando perché il disco vira spesso nella denuncia sociale. “I miei figli devono sapere”.
Ma se con il blues parte il disco, l’iniziale ‘Jingle And Go’, quasi festosa, trainata da un piano honky tonk e dai cori gospel si avventura on the road tra i suoi inizi musicali continua con ‘Hot House’, il giro canonico della scura ‘Got Damn Blues’ con il suo crescendo soul, nella notturna ‘Blue’, la dylaniana ‘What Would I’ve Become’, durante l’ascolto delle 15 tracce (forse troppi 66 minuti?) incontriamo anche il vecchio Bingham nel folk acustico e leggero di ‘Beautiful And Kind’, nelle atmosfere quasi west coast di ‘Lover Girl’, nel country di ‘Time For My Mind’ con l’armonica che guida, nella tesa ballata con archi ‘Stones’, e nei numeri più accesi ed elettrici come lo sbuffante rock boogie di ‘Pontiac’ che insegue il violino e ‘Nothing Holds Me Down’. Un disco diverso da quanto fatto fino ad ora, a conferma di un talento genuino che non ha paura di mettersi ancora in gioco ma soprattutto di porre serie domande a se stesso alla sua grande America. E se tutto questo non bastasse, c’è sempre la sua voce a portare a casa la partita.
RECENSIONE: RYAN BINGHAM -Fear And Saturday Night (2015)
RECENSIONE: RYAN BINGHAM-Tomorrowland (2012)
RECENSIONE: RYAN BINGHAM & the DEAD HORSES Live@Sarnico(BG), 19 Giugno 2011
tra privato e politico
Vorrebbe scrivere canzoni mettendo al centro delle attenzioni gli altri ma alla fine ci ritrova sempre se stesso. Così anche American Love Song finisce per diventare una sorta di autobiografia in musica della sua vita: l'approdo definitivo dopo anni spesi a cercare la sua vera identità. La sua terapia, la sua valvola di sfogo, perché altro di meglio su cui appoggiarsi non ha se non la musica stessa. “Penso che tutti abbiano contribuito a formare quello che sono ora. Scrivere veramente canzoni richiede empatia. Devi cercare di metterti nei panni degli altri. " Ryan Bingham ci è riuscito molto bene fin dal suo esordio Mescalito, passando per un premio Oscar, e altri quattro album fino all’ultimo Fear And Saturday Night uscito quattro anni fa. Ecco che la sua dura infanzia è sempre lì dietro l’angolo a premere per un posto in prima fila e la ritrova in parte in una ballata folk come ‘Wolves’, che parla di bullismo nelle scuole, di armi che hanno vie troppo facili anche per serpeggiare indisturbate tra i banchi di scuola, una voce data a quei studenti che si stanno battendo perché ciò non avvenga più. Mai più. La morte prematura dei genitori, il padre suicida, la madre alcolizzata che ritroveremo insieme ad altre donne (Janis Joplin in prima fila) nella finale ‘Blues Lady’ un country guidato da una bella chitarra dedicato alle donne forti ma piene di debolezze, una gioventù senza un punto di riferimento geografico fisso, sempre in movimento tra il New Mexico, il Texas e la California. Così anche quando canta del dilagante razzismo, di un presidente che vende menzogne, riferendosi chiaramente a Donald Trump e di proiettili vestiti di sangue nell’apparente quiete del quasi valzer ‘Situation Station’ e ‘America’ dove si chiede anche dov’è finito il sogno da sempre promesso, lui è sempre dietro l’angolo, spettatore, a volte protagonista, di esperienze raccolte in anni passati a contatto con persone di tutti i tipi durante i tanti rodei che ha portato a termine in gioventù. American Love Songs, il suo sesto album a nove anni dal premio Oscar vinto con The Weary Kind, è sostanzialmente un album dall’impalcatura blues, prodotto da Charlie Sexton, chitarra fedele di Bob Dylan, che spazia in continuazione dal personale ai forti accenni politici come lui stesso ha raccontato durante un’intervista al Texas Monthly: “è una responsabilità” dice, spiegando perché il disco vira spesso nella denuncia sociale. “I miei figli devono sapere”.
Ma se con il blues parte il disco, l’iniziale ‘Jingle And Go’, quasi festosa, trainata da un piano honky tonk e dai cori gospel si avventura on the road tra i suoi inizi musicali continua con ‘Hot House’, il giro canonico della scura ‘Got Damn Blues’ con il suo crescendo soul, nella notturna ‘Blue’, la dylaniana ‘What Would I’ve Become’, durante l’ascolto delle 15 tracce (forse troppi 66 minuti?) incontriamo anche il vecchio Bingham nel folk acustico e leggero di ‘Beautiful And Kind’, nelle atmosfere quasi west coast di ‘Lover Girl’, nel country di ‘Time For My Mind’ con l’armonica che guida, nella tesa ballata con archi ‘Stones’, e nei numeri più accesi ed elettrici come lo sbuffante rock boogie di ‘Pontiac’ che insegue il violino e ‘Nothing Holds Me Down’. Un disco diverso da quanto fatto fino ad ora, a conferma di un talento genuino che non ha paura di mettersi ancora in gioco ma soprattutto di porre serie domande a se stesso alla sua grande America. E se tutto questo non bastasse, c’è sempre la sua voce a portare a casa la partita.
RECENSIONE: RYAN BINGHAM -Fear And Saturday Night (2015)
RECENSIONE: RYAN BINGHAM-Tomorrowland (2012)
RECENSIONE: RYAN BINGHAM & the DEAD HORSES Live@Sarnico(BG), 19 Giugno 2011
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