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sabato 6 ottobre 2018

RECENSIONE: ROD STEWART (Blood Red Roses)


ROD STEWART   Blood Red Roses (Republic Records, 2018)




Che pasticcio Rod! 
Gli ultimi tre dischi di Rod Stewart sono usciti in sordina, senza troppi clamori. Se per i primi due Time e Another Country mi scappa un “che peccato”, per questo dico “va bene, giusto così”. Ho sempre amato Rod Stewart. Fin da quel primo momento che lo vidi in tv un giorno d’estate di fine anni settanta. Quando la tv di stato passò- chissà poi perché?-un suo video live e lui era vestito con la classica tutina colorata e attillata che indossava in quegli anni. Sicuramente stava cantando ‘Da Ya Think I'm Sexy?’. Per me fu uno shock. Positivo. Quando recentemente è uscita la sua spassosa autobiografia ha messo da parte il grande canzoniere americano che aveva oramai consumato (arrivato a un tot spropositato di dischi) e gli è tornata la voglia di prendere una penna e scrivere nuove canzoni, insieme al produttore e musicista Kevin Savigar, come non succedeva più da tempo. “Quando ho realizzato il mio primo album ('Time') dopo il libro, ho scritto una canzone su mio padre ('Can not Stop Me Now') e mi sono reso conto che avevo così tante cose da scrivere". Time e Another Country, pur se non interamente avevano dei bei momenti: la sua voce ha retto bene e lo fa ancora in questo nuovo disco. Quella non si tocca! Ma le canzoni? No quelle sono una delusione. Come dite? Con quella voce potrebbe cantare di tutto?
Sì, ma qui il buon Rod prende tutto alla lettera e si lancia in una sarabanda di generi musicali che nella teoria potrebbero anche andare bene, ma poi arriva la pratica e c’è sempre qualche schifezza nei suoni e pastrocchio nella produzione che vanificano tutto lo sforzo: dalla pop danzereccia con orribili echi di voce (‘Look In Her Eyes’) al celtic rock della title track con quei violini che paiono campionati (come dite? lo sono?) , al funky dance (‘Give Me Love’) dimenticato nell’angolo buio di una discoteca dal 1978, peccato che siano rimaste solo le macerie di quella sala da ballo e non capisco perché in ogni disco si sente obbligato a rifare il verso a ‘Da Ya Think I'm Sexy?’ in eterno, al stucchevole soul di ‘Rest Of My Life’. Piacciono di più la ballata ‘Grace’, la cover blues ‘Rollin & Tumbling' di Muddy Waters, l’hard blues di ‘Vegas Shuffle’ con i suoi cori femminili che io avrei tolto, la ballata folk ‘Honey Gold’. Una ‘Did Not I’ che mette in fila i sentimenti di un padre verso i figli tossicodipendenti, i ricordi nostalgici della finale ‘Cold Old London’ dove canta “ora sto invecchiando, e le ragazze stanno diventando più giovani". Fattene una ragione Rod. Mette in fila tanti ricordi Rod (toccante è ‘Farewell’ dedicata a Ewan Dawson, un amico che non c’è più) ma peccato che tra questi non ne sia saltato fuori uno legato a quel periodo d’oro deg7li anni settanta quando più toglievi meglio era. Per tutti. Qui sembra ci sia una grande abbuffata di luoghi comuni e un abuso sopra le norme stabilite di cliché musicali da far quasi rimpiangere i Great American Songbook. Da gran burlone sembra che il meglio lo abbia lasciato nella versione Deluxe del disco, dove appaiono almeno un paio di canzoni niente male. Rod, senti me: chiama il tuo amico Ron Wood, sedetevi sopra a due sgabelli e fate quello che vi viene meglio.
Nella sua autobiografia scrisse “ne ho fatte di stronzate”. Questo disco potrebbe essere solo una delle tante... Intanto dice di aver già scritto almeno 15 canzoni per un altro disco. Avete paura eh? Amo quest’uomo.


Ph:Peggy Sirota

2 commenti:

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  2. Ha ha mi sono scompisciato dalle risate! Anch'io amo Rod alla follia, ma quel che è giusto è giusto. Ottima recensione

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