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giovedì 25 ottobre 2018

DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA # 70: DIRE STRAITS (Dire Straits)

DIRE STRAITS    Dire Straits (1978)






Immaginate una piccola piazza di un paese in collina nei primi anni ottanta, domenica mattina, una macchina parcheggiata con le portiere aperte e una canzone che si diffonde tra i vicoli stretti mischiandosi con i profumi di cibo che uscivano dalle finestre delle case. È quasi mezzogiorno. Gente che torna dalla messa domenicale, gente la cui unica funzione è il bar cooperativa del paese, vecchi seduti sulle panchine e il parco giochi sempre pieno di schiamazzi. Io probabilmente ero lì, nell’ultimo dell’elenco. Quando qualcuno doveva battezzare la nuova autoradio non era così raro ascoltare ‘Sultans Of Swing’ per le strade del paese e vedere gente suonare l’air guitar sull’assolo finale. Ma cosa sarebbe stato di tutto questo senza l’intuito del dj della BBC Charlie Gillett che ancora prima della registrazione del disco, iniziò a diffondere quella canzone in radio? Forse lo squattrinato (ecco il nome della band!) e mancino Mark Knopfler avrebbe continuato il resto della sua vita a alternare il lavoro di insegnante d’inglese con la sua passione per la Stratocaster, dando lezioni serali di chitarra un giorno e suonando per pochi intimi nel pub sotto casa l’altro, accompagnato dalla chitarra ritmica del fratello David, dal basso di John Illsley e dallo straordinario e sottovalutato batterista Pick Withers, vecchia conoscenza per chi seguì i Primitives di Mal. Quando il debutto dei Dire Straits uscì, uno dei più straordinari debutti nel rock, alla faccia di chi non li ha mai potuti digerire (un nuovo quarantenne in splendida forma), non era così difficile additarlo come una mosca bianca all’interno del panorama musicale dominato da punk, new wave e disco music. Anacronistico e controcorrente, forse più punk del più grande gruppo punk, perché se ne fotteva altamente di cosa andava di moda ai tempi. Senza tempo se ascoltato oggi.
L’amore per Randy Newman e Bob Dylan (che una volta visti dal vivo a Los Angeles non se li lasciò sfuggire”Mark mi imita meglio di chiunque altro” dirà prima di chiamarlo per Slow Train Coming) , J. J. Cale, per il blues, il R&B, il folk e il country si traduceva in canzoni (‘In The Gallery’, ‘Lions’, ’Water Of Love’, ‘Down To The Waterline’, ‘Wild West End’, ‘Southbound Again’, ‘Six Blade Knife’) che sembravano tanto semplici, pulite e lineari ma che in realtà non lo erano affatto. L’omogeneità generale è il maggior pregio e il peggior difetto per i detrattori, opera della produzione di Muff Winwood, fratello di Steve, quella manciata di canzoni erano in grado di immergere l’ascoltatore dentro un mood di rilassatezza senza scadenza, parete di quadri agrodolci, riflessivi, notturni e malinconici che ritraevano amanti, amori finiti e pittori, tanto un fumoso club con una band jazz protagonista e una chitarra che suona “puro ritmo”, quanto le vie più battute o le più periferiche di Londra e di Leeds. O quelle meno trafficate del mio paese, una domenica mattina grigia di Ottobre nei primi anni ottanta, proprio come oggi.




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