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mercoledì 23 agosto 2017

RECENSIONE: RAY WYLIE HUBBARD (Tell The Devil... I’m Gettin' There As Fast I Can)

RAY WYLIE HUBBARD  Tell The Devil That I’m Gettin' As Fast I Can (Bordello Records, 2017)






“Se vuoi diventare un fuorilegge, figliolo, pensaci due volte” canta Steve Earle nel suo ultimo album. Il texano d’adozione RAY WYLIE HUBBARD (nato in verità in Oklahoma), uno degli ultimi rimasti, e tra i più dimenticati di quella straordinaria generazione che cambiò radicalmente la country music negli anni settanta, potrebbe confermare dall’alto dei suoi quasi 71 anni d’età. E’ un lavoro difficile, lasciate fare a me, sembra pensare dalla foto che lo ritrae in copertina. Da qualche tempo, poi, sembra averci preso gusto e sta sfornando dischi a ripetizione (4 negli ultimi sette anni) tutti toccati dalla buona ispirazione e con una decisa virata verso un suono più paludoso e dark rispetto al passato. In questo TELL THE DEVIL...I’M GETTIN' THERE AS FAST AS I CAN emerge fuori dal nero della copertina con un paio d’ali per volare sopra alla sua musica costruita come sempre sull’ossatura di un folk blues semplice, fangoso e misterioso ma sempre ficcante e pieno di simboli e rimandi: quando ulula come un lupo alla luna piena nell’omaggio a Howlin Wolf (‘Old Wolf’), quando cita l’album del trio folk Koener, Ray & Glover, BLUES, RAGS AND HOLLERS (1963) in ‘Spider, Snaker and Little Sun’, quando riesce a scrivere una canzone sull’accordatura della sua chitarra in ‘Open G’, condotta in solitaria. Seppure non sia un concept come lui stesso ha dichiarato in un’ intervista, le undici canzoni sembrano seguire un corso logico: partono con la genesi (la strisciante ‘Good Looked Around’ guidata dai battiti di mano) e finiscono con qualcosa che si avvicina al paradiso nella finale ‘In Times Of Cold’ dedicata al produttore dei suoi ultimi due dischi George Reiff, scomparso l’anno scorso a soli 56 anni.
In mezzo: tutto il suo straordinario immaginario fatto di polvere e deserti (‘Dead Thumb King’), fede e peccato (la cowboy song ‘Prayer’), stivali e serpenti striscianti, diavoli rossi tentatori, fantasmi (‘House Of The White Rose Bouquet’) e la sempre giusta dose d’ironia. Immancabile. Ray è il traghettatore che trasporta le nostre anime dal bene verso il male e viceversa. Folk blues minimale, quanto di più si avvicini alle murder ballads acustiche con qualche buon graffio elettrico (‘Lucifer And Fallen Angels’) portato in dote dal figlio Lucas ormai spalla destra affidabile e preziosa nelle due tracce che aprono il disco. Ma sono tanti anche gli ospiti questa volta: da Lucinda Williams e Eric Church nella title track che avanza pigra a ritmo di un country valzer dylaniano scaldato sotto il sole dei deserti, a Patty Griffin nella conclusiva e già citata ‘In Times Of Cold’ ai Bright Light Social Hour al completo  nella più variegata e psichedelica (moderna?) del lotto ‘The Rebellious Sons’. E se fino a qui avevate scelto Steve Earle come disco dell’anno americano, ora dovete fare i conti con il vecchio Ray . La lotta è dura, come si conviene a due veri outlaw.







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