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giovedì 16 marzo 2017

RECENSIONE: MARTY STUART AND HIS FABULOUS SUPERLATIVES (Way Out West)

MARTY STUART AND HIS FABULOUS SUPERLATIVES   Way Out West (Superlatone Records, 2017)






Il giorno che il giovanissimo Marty Stuart, appena dodicenne, approdò a Nashville, città che rappresentava già un sogno predestinato, dovette aspettare ore prima di incontrare colui che lo invitò nella città del country per offrirgli il primo lavoro in campo musicale. In quei momenti di attesa, Stuart non perse troppo tempo e si avventurò, solo, alla scoperta della città. Quello spirito di ricerca gli rimase per tutta la carriera, trovando uno dei suoi culmini quando entrò nella band di Johnny Cash. Marty Stuart con i suoi dischi, le sue memorabilia raccolte in un museo e le sue trasmissioni televisive rimane una delle più fulgide memorie storiche “viventi” della country music che potremmo tradurre in un più semplice ed esaustivo “musica americana”. Adesso che anche i più grandi, uno ad uno, stanno passando a miglior vita, a lui il compito di preservare la forza e la tradizione di certi suoni. Tanto che Johnny Cash nella sua biografia scrisse: “Fra tutti, Dwight Yokam e Marty Stuart sono stati capaci di inserirsi nella tradizione della musica country apportando nuova linfa ma senza snaturare il genere. Non cercano di imitare il soundi di artisti come George Jones e Lafty Frizzell, come invece fanno molti altri”.
In compagnia dei fedeli Fabulous Superlatives (la chitarra di Kenny Vaughan, la batteria di Harry Stinson e il basso di Chris Scruggs) e della produzione di Mike Campbell (Tom Petty and the Heartbreakers) scrive un’accorata lettera d’amore lunga quindici canzoni (suddivise in autografe, strumentali e una cover) al territorio americano dell’Ovest. La terra promessa tanto agognata compresa tra deserti (‘Mojave’) e interminabili autostrade (‘Whole Lotta Highway’), preghiere e invocazioni ai nativi (‘Desert Prayer’), difficili confini (‘Old Mexico’, ‘El Fantasma Del Toro’), tra rutilanti honky tonk (‘Air Mail Special’ di Benny Goodman), rock (la byrdsiana ‘Time Don’t Wait’, ‘Quicksand’), accenni surf e country western cosmici accecati e storditi dal sole dove si può ancora intravedere la sagoma nera di Johnny Cash alle prese con Folsom Prison (‘Way Out west’). Un disco senza tempo, suonato alla grande (che chitarre!), destinato a farsi strada e diventare un piccolo classico di questi tempi ingrati, troppo veloci anche per il cuore e la perfezione qui contenuti.





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