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martedì 29 novembre 2016

DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA # 25: GEORGE HARRISON (Living In THe Material World)

GEORGE HARRISON  Living In The Material World (1973)




LIVING IN THE MATERIAL WORLD ebbe una gestazione difficile e un ruolo importante, anche se spesso nascosto, all’interno della discografia di GEORGE HARRISON. Arrivare dopo un disco perfetto come ALL THINGS MUST PASS e dopo gli acclamati concerti FOR BANGLADESH dell'agosto 1971 a New York , organizzati insieme a Ravi Shankar per raccogliere fondi per i profughi di guerra del Bangladesh (da cui Harrison prenderà spunto per scrivere ‘The Day The World Gets ‘Round’ presente nel disco) non fu per nulla facile. Harrison arriva alla stesura del disco tra mille difficoltà: si era appena ripreso da un incidente automobilistico che lo tenne lontano dalle scene per alcuni mesi e dovette rinunciare all’ultimo momento alla presenza di Phil Spector in produzione, il produttore stava messo peggio di lui. Fece tutto da solo. Anche se ‘Try Some, Buy Some’ che inizialmente fu scritta per l'ex Ronettes Ronnie Spector è prodotta proprio da Phil Spector. L’unica. Premiato dal pubblico all’uscita (primo posto in USA) venne stroncato dalla critica dell’epoca che sembrò mal sopportare l’accentuata vena spirituale che aleggiava così pesantemente intorno alle undici canzoni, unita a un tono da predicatore che spesso andava sopra le righe (‘The Lord Loves The One’). Ma questo era Harrison e la sua slide alla fine vince, anche senza le nubi psichedeliche, create in studio da Spector, che sormontavano il precedente disco. Il titolo è ben rappresentato dalla grande foto interna che ritrae Harrison e i musicisti coinvolti in studio (Nicky Hopkins, Jim Horn, Klaus Voorman, Gary Wright, Jim Keltner e Ringo Starr) seduti nel lussuoso giardino di casa Harrison a mo’ di ultima cena. È il tema dominante di gran parte delle canzoni: quanto è difficile portare avanti una vita mistica di fronte ad un mondo materiale. Tra amore e spiritualità (esplicita è ‘Give Me Love’, quasi la sua ‘Imagine’: “dammi amore/dammi pace sulla terra/donami la luce e la vita/conservami libero dalla nascita/) spuntano anche riferimenti ai vecchi compagni. Paul McCartney e John Lennon sono citati nella title track (“John And Paul here in The Material World”), mentre in ‘Sue Me Sue Blues’ riprende cinicamente le beghe legali dopo lo scioglimento dei Beatles.
L’album più spirituale della carriera e forse l’ultimo degno di nota per molti anni a venire.
Curiosa la scritta che compare stampata nel retro copertina: “Jim Keltner Fan Club. For all information send a stamped undressed elephant to: 5112 Hollywood Boulevard, Hollywood, California”. Così il batterista Jim Keltner spiega quella bizzarra frase: “quando vidi la scritta chiesi a George, ma cosa vuol dire, cosa ti è venuto in mente? E lui mi rispose che se avesse dovuto fondare un fan club lo avrebbe fondato per qualcuno che ammirava sul serio. Gli piaceva scherzare sempre”. Inutile dirlo: a casa Keltner arrivò di tutto.
George Harrison morì esattamente quindici anni fa: il 29 Novembre 2001



lunedì 21 novembre 2016

DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA # 24: BADLANDS (Voodoo Highway)

BADLANDS  Voodoo Highway (Atlantic records, 1991)






Unite due prime donne di talento: l’axe hero Jake E.Lee, appena scaricato senza motivi dalla band di Ozzy Osbourne dopo aver registrato due dischi come BARK AT THE MOON e THE ULTIMATE SIN e Ray Gillen, un cantante dal timbro “plantiano” e avrete grande musica hard blues e tanti screzi nelle pagine finali del breve romanzo. Il secondo disco dei Badlands (nel 1999 ne uscì un terzo, postumo: DUSK), può essere annoverato come uno dei più fulgidi esempi di southern hard blues degli anni novanta, da tenere vicino alle migliori uscite del genere di quel periodo: Pride And Glory, Mother Station, Black Crowes, Gov’t Mule, Cry Of Love, Brother Cane, The Screamin’ Cheetah Wheelie. Pur durando il giro di un orologio, i BADLANDS riuscirono a piazzare due dischi di grande fattura. Uscito nel 1991, due anni dopo il più patinato e prodotto esordio-comunque ottimo-vedeva la band sporcare nettamente il sound di polvere e benzina, con una produzione più scarna ed essenziale, unendo idealmente l’hard rock blues britannico dei 70 tanto caro a band come Free, Bad Company, Whitesnake e Led Zeppelin al southern rock americano. Guidati dalla sei corde di Lee, che finalmente poteva esprimere il suo grande talento di bluesman, questo rimarrà, però, il disco di Ray Gillen, uno dei più talentuosi cantanti partoriti dagli anni '80 e purtroppo anche uno dei più sfortunati. Mancata, per motivi legali, l'occasione della vita: l'entrata nei scalcinati e instabili Black Sabbath di metà anni ottanta, quelli che si accingevano a registrare THE ETERNAL IDOL, con Tony Iommi e soci riuscì, nonostante tutto, a portare a termine alcuni concerti e registrare alcuni demo, recuperabili in rari bootleg. Con una voce paragonabile ai migliori vocalist hard blues, un incrocio tra Paul Rodgers a Robert Plant, Gillen ebbe con questo disco, inspiegabilmente sottovalutato e poco spinto dall’etichetta discografica, l'occasione di un riscatto di carriera. A più di vent’anni dalla sua morte possiamo dire che ci riuscì pienamente. La copertina del disco, raffigurante una solitaria casetta in legno, galleggiante in mezzo alle acque paludose del Mississippi tra corvi e coccodrilli, disegna bene, ma non completamente, la direzione musicale del disco. La super formazione completata da Greg Chaisson al basso e Jeff Martin alla batteria si lancia, fin dall'iniziale ‘The Last Time’ in un frenetico hard blues, con la chitarra di Lee sugli scudi e un organo a fare da tappeto alla voce imprendibile di Gillen. Pochi punti deboli in questo disco, costruito tra l’alternanza di pesanti riff e frequenti intermezzi acustici.


Da un lato il blues pesante di ‘Show Me The Way’, ‘Whiskey Dust’, della splendida ‘Silver Horses’ e di ‘3 Day Funk’ , un funk blues che non sfigurerebbe in nessun disco dei Black Crowes, dall’altro canzoni più metal oriented come ‘Shine On’, ‘Soul Stealer’ e ‘Heaven's Train’, fanno riaffiorare il passato di tutti i musicisti coinvolti. Se ‘Joe's Blues’ non è altro che una breve prova di abilità di E.Lee all'acustica, e ‘Voodoo Highway’ un blues acustico con Lee alla dobro, il finale è una pirotecnica vetrina per Gillen: la cover di James Taylor, ‘Fire And Rain’, resa naturalmente in chiave rock e ‘In A Dream’ cantata a cappella, tanto per dare una ulteriore prova della sua straordinaria versatilità vocale. VOODOO HIGHWAY è un piccolo gioiello in mezzo allo strapotere grunge di quegli anni. Poi si sa, quando due talenti come E.Lee e Gillen devono provare a convivere insieme sono previste scintille. E così fu scioglimento. E.Lee proseguirà la carriera lontano dalla grande ribalta, evidentemente poco adatta al suo carattere schivo per ritornare nel 2014 con un nuovo album solista, mentre il talento galoppante di Gillen fermerà la sua corsa a soli 34 anni, nel 1993, sconfitto dall’AIDS.

mercoledì 16 novembre 2016

DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA # 23: ERIC ANDERSEN (Blue River)

ERIC ANDERSEN  Blue River (1972)





Con i se e i ma non si ricostruiscono le storie. Ma se i nastri pronti e finiti, ma in copia unica, di STAGES, l’album che doveva uscire dopo questo, non si fossero persi per strada nel viaggio tra Nashville e New York, forse la carriera del folksinger nato a Pittsburgh avrebbe imboccato la strada di quel successo che invece non arrivò mai, se non circoscritto dentro quell’aura di culto che lo ha sempre avvolto e che spesso vale doppio. Questo il caso. Su STAGES l’etichetta Columbia puntò molto ma qualche dipendente distratto non era al corrente di tutto ciò (cose da ergastolo!), Andersen la lasciò immediatamente per accasarsi all’Arista, ma la frittata era ormai fatta: tre anni buttati al vento. STAGES uscì solo molti anni dopo, nel 1991, quando era troppo tardi, la magia dell’epoca svanita per sempre ma ancora in tempo per fare incetta di riconoscimenti. Così rimane BLUE RIVER, l’ottavo disco in carriera, il più famoso e celebrato per capire quanto Eric Andersen fu importante per una buona fetta di cantautori degli anni settanta. Le canzoni di protesta del Greenwich Village (‘Thirsty Boots’ la più famosa) vengono messe da parte per una maggiore ricerca interiore e meditativa, per liriche che cercano di tratteggiare la sfuggevolezza dell’amore. I trattti poetici e romantici delle sue canzoni, cantate con voce quasi sussurrata, trovano nella delicata produzione di Norbert Putman, nei morbidi arrangiamenti, nella voce di Joni Mitchell, ospite in ‘Blue River’ e in musicisti di prim’ordine come Dave Briggs, Eddie Hinton e David Bromberg tra gli altri, i giusti compagni di viaggio. Album che scorre puro e liscio tra intimismo e superbi tocchi di raffinatezza (le eteree ballate al pianoforte ‘Wind And Sand’ e ‘Round The Bend’) le belle chitarre di Andy Johnson e Bromberg (dobro) negli ariosi country ‘More Often Than Not’ e la più buia ‘Sheila’ (la mia preferita). Se BLUE RIVER è il totem della sua discografia, non mancano una manciata di buoni dischi in ogni decennio della carriera, comprese le ultime collaborazioni con Michele Gazich che rinsaldano il grande amore per l’Europa (in Norvegia piantò pure radici). Una carriera che ha preso il via al Greenwich Village a New York nei primi anni sessanta e continua ancora oggi. Un viaggio lungo e non ancora terminato. Eric Andersen ha visto morire troppo presto una buona parte della sua generazione (Phil Ochs, Tim Hardin, Fred Neil, Tim Buckley, Jim Croce) e oggi, a scapito di una carriera in seconda linea, può considerarsi un fortunato sopravvissuto. Quel ”Old Man Go To The River” che apriva la title track, oggi risuona ancora più vero e cristallino dentro le mie stanze.

venerdì 11 novembre 2016

DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA # 22:AMERICA (Silent Letter)

AMERICA-Silent Letter (EMI, Capitol Records, 1979)





Serata di pioggia. L’ennesima. Appoggio la puntina sul disco e inevitabilmente ritornano alla mente alcune serate degli anni ottanta passate ad ascoltare musica in sala, da solo, seduto nel divano con due grosse cuffie a coprirmi le orecchie, con un libro di scuola aperto ma presto abbandonato sul tavolo e lo stereo dell’epoca, un enorme Philips più alto di me, come fedele compagno di giochi. I dischi degli America erano già tanti in casa. Questa sera ho scelto SILENT LETTER (ai tempi presente solo in cassetta), un album di transizione che segnò un nuovo inizio nella carriera degli AMERICA. Dan Peek, dopo l’uscita del precedente HARBOR, lasciò il gruppo per seguire la fede, continuando la sua carriera nei circuiti minori della musica cristiana fino alla morte avvenuta nel 2011 . Dopo anni di incisioni per la Warner ci fu il passaggio alla Capitol records. A sottolineare questo nuovo passo di carriera, venne scelto, per la prima volta, un titolo senza la lettera H come iniziale. Il disco registrato nel Marzo/Aprile del 1979 vedeva però ancora George Martin come produttore (sette i dischi registrati insieme). Fu l’ultima volta. SILENT LETTER è un disco che paga dazio al periodo di transizione e ad una non chiara via musicale da seguire. “Fu un periodo di sconvolgimenti. L’abbandono di Dan, ci siamo accasati con la Capitol Records. Era un momento di transizione. La stessa industria musicale stava cambiando in quel momento. Eravamo alla fine degli anni ' 70 e agli albori degli ' 80. Il movimento New Wave era lì e noi eravamo tagliati fuori. Siamo passati attraverso quegli alti e bassi presenti in qualsiasi carriera.” Raccontò Dewey Bunnell nel 1998.
Da una parte c’è il tentativo di stare al passo con i tempi con canzoni di indirizzo pop più marcato (‘All Around’, ‘Foolin’, ‘No Fortune’), dall’altra la mano di Martin si faceva sentire ancora pesantemente nei pezzi orchestrali come ‘All My Life’ che diventerà l’unica vera hit del disco, ‘ One Morning’ e nella pianistica e personale ‘1960’ cantata da Gerry Beckley. Infine la voglia di suonare ancora alla vecchia maniera, inspessendo anche il sound con chitarre più rock rispetto al passato nella trascinante apertura ‘ Only Game In Town’ con tanto di fiati, in ‘All Night’ scritta da Dewey Bunnell e nella tesa e desertica ‘Tall Treasures’ che completavano un disco fin troppo vario e confuso ma per nulla malvagio da ascoltare. Ancora oggi. Il risultato finale fu un flop commerciale. Gli anni ottanta bussavano alle porte e gli America erano pronti per dare ancora un paio di zampate in classifica (‘Survival’, ‘You Can Do Magic’), seguendo una delle tante vie indicate da SILENT LETTER. Io iniziai a infoltire lo spazio sottostante lo stereo con dischi scelti da me, non più imposti dalla casa, ma per gli America lasciai uno spazio speciale. Cosa volete farci?

martedì 8 novembre 2016

RECENSIONE: TODD SNIDER (Eastside Bulldog)

TODD SNIDER  Eastside Bulldog (Aimless, 2016)
☆☆☆1/2




Se riuscite a ritagliarvi mezz’ora di svago e divertimento (scontati: 26 minuti per la precisione) durante le vostre frenetiche giornate lavorative, EASTSIDE BULLDOG il nuovo disco di Todd Snider potrebbe fare da buona colonna sonora. A qualche anno dall'ultimo album solista e dopo i due lavori più seri con il supergruppo Hard Working Americans, Snider riveste i panni stropicciati del suo alter ego, da prendere poco sul serio, Elmo Buzz, si chiude in studio con alcuni amici e registra 10 canzoni con lo stesso spirito con cui suonerebbe sopra al palco del peggior pub della città davanti a un pubblico distratto, poco esigente ma con il bicchiere sempre pronto per il brindisi. Una cosa alla Blues Brothers dietro a una rete, o come quando Neil Young si vestì di rosa e si impomatò i capelli e ci prese per il culo, per intenderci. Un pianoforte sgangherato, fiati, cori stonati che spuntano da dietro, e testi che raccontano di donne e motori, musicisti con pochi soldi e bevute, con l’aria di East Nashville che tira di lato e il fiato di Hank Williams Jr. che sbuffa dall’altro. Il gioco è fatto. Non cercate premi Nobel qua dentro, troverete solo una manciata di minuti di puro e alticcio divertimento rock’n’roll con ritmi swinganti annegati in un r&b alticcio. "It's songs about East Nashville, chicks, cars, fighting, partying and Bocephus and that’s it. No bullshit... just the good stuff." Firmato Elmo Buzz o Todd Snider, fate voi.





RECENSIONE: LUCINDA WILLIAMS-The Ghosts Of Highway 20 (2016)
RECENSIONE: PARKER MILLSAP-The Very Last Day (2016)
THE WHITE BUFFALO. Per la prima volta in Italia. Due date: 28 Luglio a Ravenna, 30 Luglio a Brescia
RECENSIONE: WILLIE NILE-World War Willie (2016)
RECENSIONE: ZAKK WYLDE-Book Of Shadows II (2016)
RECENSIONE: HAYES CARLL-Lovers And leavers (2016)
RECENSIONE: STURGILL SIMPSON-A Sailor’s Guide To Earth (2016)
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RECENSIONE: JOHN DOE-The Westerner (2016)
RECENSIONE: TOM GILLAM &THE KOZMIC MESSENGERS-Beautiful  Dream (2016)
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REPORT LIVE: GRAHAM NASH live@Teatro Sociale COMO, 3 Giugno 2016
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RECENSIONE: ALEJANDRO ESCOVEDO- Burn Something Beautiful (2016)


giovedì 3 novembre 2016

Il ritorno di LITTLE STEVEN. Tre dischi da ascoltare: Men Without Women (1982), Voice Of America (1984), Born Again Savage (1999)

Dopo l'unica data europea della reunion svoltasi a Londra il 29 Ottobre 2016, Little Steven e i Disciples Of Souls hanno annunciato un nuovo disco e un nuovo tour per il 2017. Ecco tre dischi da avere...

LITTLE STEVEN AND THE DISCIPLES OF SOUL   Men Without Women (1982)

Tra i tanti album mai usciti con la dicitura Bruce Springsteen in fronte, ma che a tutti gli effetti potrebbero rientrare nella sua discografia, il debutto di Little Steven con i Disciples Of Soul brilla particolarmente, unitamente ai dischi di GARY US BONDS del periodo (DEDICATION e ON THE LINE). In verità, anche se non accreditato ufficialmente per problemi con l’etichetta CBS, Springsteen appare nei cori di almeno tre canzoni: la trascinante ‘Angel Eyes’, ‘Until the Good is Gone’ e la title track ispirata dal libro di racconti di Ernest Hemingway. Così come accanto a Miami Steve Van Zandt-ma da ora chiamatemi pure Little Steven!-c’è buona parte della E STREET BAND: Max Weinberg alla batteria, Garry Tallent al basso, Danny Federici alle tastiere e Clarence Clemons ai cori. Insomma, manca solo Roy Bittan. Compaiono anche gli ex Young Rascals, Dino Danelli e Felix Cavaliere, Gary US Bonds e il bassista di colore con il taglio alla Mohawk John Beauvoir, allora nei Plasmatics della povera Wendy O.Williams, che in seguito formerà i mai troppo lodati Crown Of Thorns . L’album parte in quarta con ‘Lyin’ In A Bed Of Fire’ che riassume il mood dell’intero disco: un concentrato di chitarre garage rock (‘Under The Gun’) accompagnate dalla possente sezione fiati dei La Bamba’s Mambomen (formata da membri degli Asbury Jukes di Southside Johhny) che contornano il tutto con forti dosi di soul e R&B (‘Forever’) e testi che ruotano intorno all’amore, quello focoso e quello sbiadito (perdite). Una menzione particolare per la le armonie folkie di ‘Princess Of Little Italy’. L’unico neo di un disco quasi perfetto potrebbe essere la voce debole, ma comunque caratterizzante, di Miami Steve: queste canzoni con la personalità vocale di Springsteen volerebbero ancora più alte? Comunque sia, il già ricco The River si troverà, in un colpo solo, tante facciate della stessa medaglia, al bellissimo Dedication di Gary US Bonds il merito di offrirne altre due. Alcuni anni fa, in un post lasciato al proprio sito ufficiale, il grande amico Southside Johnny scrisse: “oggi in macchina ho ascoltato nuovamente MEN WITHOUT WOMEN e non riesco a credere che non sia diventato un successo enorme. Grandi canzoni, grandi arrangiamenti e una band killer, insieme alla voce più autentica e interessante che abbia mai sentito." Se Little Steven fino ad allora si era pregevolmente nascosto alla sinistra di Springsteen o dietro le quinte come autore e produttore di Southside Johnny e Gary Us Bonds, da qui in avanti cercherà un po’ di gloria personale, lasciando il capo nel momento del maggiore successo mondiale (BORN IN THE USA e rispettivo tour erano alle porte) ed esponendo idee politiche e lotte sociali a tutti fin dal successivo VOICE OF AMERICA (1984). Gloria culminata con la collettiva esperienza anti-apartheid denominata Sun City, datata 1985.




LITTLE STEVEN Voice Of America (1984)

 Musicalmente preferisco il debutto solista MEN WITHOUT WOMEN (1982) ancora legato al New Jersey sound, anche grazie alla schiera dei numerosi ospiti pescati dalla "famiglia", ma non si può negare a questo seguito, uscito nel 1984, un certo coraggio nelle convinte (anche se alcuni le leggeranno come ingenue) prese di posizione politiche e sociali che culmineranno con il mega evento collettivo anti-apartheid denominato Sun City, e messo in piedi nel 1985. LITTLE STEVEN abbandona la nave del capo dopo aver coprodotto il disco che cambierà per sempre la rotta di Springsteen, che nelle note di copertina di BORN IN THE USA gli augura “buon viaggio mio fratello Little Steven”. Little Steven replica con “ un grande grazie a Bruce Springsteen, senza i vent’anni d’amicizia questo disco non avrebbe visto la luce”. Ancora amici, comunque?
Little Steve racconterà: “avevo la sensazione che la nostra amicizia cominciasse a essere a rischio. E pensai che il modo migliore per salvaguardarla fosse andarmene. Sapevo che se fossi rimasto le nostre divergenze, che erano ancora piuttosto civili, lo sarebbero state progressivamente meno”.
Siamo nei pieni anni ottanta e qualcosa di plastificato inizia a farsi largo nei suoni dei suoi DISCIPLES OF SOULS (Jean Beauvoir, Dino Danelli, Monti Louis Ellison, Pee Wee Weber, Zoe Yanakis) che non compaiono più nel monicker in copertina. Quello che potrebbe essere un buon disco di garage rock puro e duro (bisognerà aspettare il sempre sottovalutato BORN AGAIN SAVAGE del 1999 per quello), viene limato e fatto rimbalzare dalla presenza di synth e tastiere, e da sconfinamenti che toccano perfino il reggae (‘Solidarity’) . A contare sono però i testi: dalla chiamata alla presa di coscienza a velocità punk di ‘Voice Of America’, all’esortazione a combattere senza paura (‘Fear’), alla denuncia della repressione che attanaglia alcuni stati del Sud America in ‘Los Desaparecidos’, al patriottismo convinto di ‘I Am A Patriot’ che l’amico Jackson Browne, unitamente alla title track, farà sue. I due daranno voce a Sun City e combatteranno insieme per un buon periodo.
Da segnalare, infine, la presenza di Gary Us Bonds nell’altro reggae ‘Among The Believers’, comunque lontano dalla perfezione di dischi come DEDICATION e ON THE LINE.


LITTLE STEVEN Born Again Savage (1999)

 "Questo è il disco che avrei voluto fare nel 1969... è un tributo ai pionieri dell'hard rock con i quali sono cresciuto... The Kinks, The Who, Yardbirds e i tre gruppi nati da loro: Cream, Jeff Beck group e Led Zeppelin...".
Basterebbero queste poche righe, scritte per presentare l’album, per avere un'idea del contenuto. Uscito nel 1999, ma frutto di anni di stesura, è praticamente il quinto album che chiude la serie dei suoi dischi politicizzati iniziata nei lontani anni ottanta in era “reganiana” (anche se il rapporto con le religioni-tutte- è qui protagonista): dallo stupendo Jersey Sound di ‘Man Without Women’ al culmine raggiunto con l’esperienza Sun City, Artist United Against Apartheid. Ma questo album qualcosa di diverso lo contiene veramente, è a tutti gli effetti un album di garage rock grezzo e di hard rock fumante ed intransigente che da Little Steven non ti aspetteresti più. Uscito fuori tempo massimo. Il sogno della sua vita da musicista si concretizza a più di trent'anni dall'inizio di carriera.
Formazione a tre con Little Steven alla voce (mai così incazzata) e chitarre (vere protagoniste del lavoro), Jason Bonham (figlio di cotanto padre) alla batteria e Adam Clayton (sì proprio quello che sta alla sinistra di Bono) al basso. Bastano i primi due brani per presentare un Little Steven che può finalmente farsi valere e far vedere a tutti quanto la chitarra la sappia suonare alla grande, senza dover sottostare a nessun “boss padrone”. ’Born Again Savage’ e ‘Camouflage of Righteousness’ sono dure rock songs con chitarre in grande spolvero e l’umore fumoso dell’ hard blues settantiano. ‘Guns, Drugs and Gasoline’ veloce e galoppante racchiude un coro che sembra uscito dalla London punk '77, così come ‘Organize’. ‘Face of God’, uno spoken rock, anticipa la stupenda e stratificata ‘Saint Francis’, con una grande e accorata prova vocale di Van Zandt: la migliore canzone del disco, senza dubbio.
Chiudono: la dilatata e psichedelica ‘Lust for Enlightenment’ e la rock oriented ‘Tongues of Angels’, che ricorda qualcosa dei migliori U2 degli anni ottanta.
L’album passò totalmente inosservato all’uscita, ed ora con un po’ di fortuna lo si può trovare impolverato nel banchetto degli usati. Qualche anno fa, Steven parlò di una rimasterizzazione del catalogo che avrebbe compreso anche quest'ultimo lavoro. Un ascolto lo merita.