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lunedì 18 aprile 2016

RECENSIONE: STURGILL SIMPSON (A Sailor's Guide To Earth)

STURGILL SIMPSON  A Sailor’s Guide To Earth (Atlantic, 2016)





Salutato come il salvatore del country americana dopo l’uscita dei precedenti HIGH TOP MOUNTAIN (2013), il debutto, e il più sorprendente METAMODERN SOUNDS IN COUNTRY MUSIC (2014), Sturgill Simpson mette la freccia a sinistra e supera tutti in volata. Va da altre parti, spiazzando e convincendo ancora di più. Vola sopra a tutto, fregandosene delle etichette. Se tutti gli album avessero questa gioiosa voglia di giocare con i generi musicali, il mondo (musicale) sarebbe anche meno brutto di quanto appaia ad un primo sguardo. Ambizioso ma rispettoso di certe tradizioni. E di bello e gioioso non c’è molto dentro alle sue liriche, anche se spesso viene usata l’ironia come metodo per convincere. Le nove canzoni sono una lettera aperta, intima e personalissima, cantata con una voce che fa la differenza e indirizzata al piccolo figlio di due anni per avviarlo sulle strade del mondo nel modo più giusto e meno traumatico possibile, un avviso al futuro navigante: Simpson lo mette in guardia fin da subito nell’apertura ‘Welcome To Earth’, una canzone che si apre come farebbe un vero outlaw countryman dei ’70 per poi scoppiare in una babilonia di fiati (suonano i The Dap-Kings) che sembrano provenire direttamente dalle strade di Memphis e trascinati da una sezione ritmica caricata a funk. Avrebbe già vinto con questa sola canzone. Questa commistione tra country e Stax sound caratterizza tutte le restanti otto tracce con poche eccezioni. E la scelta di ‘In Bloom’ dei Nirvana di Kurt Cobain come cover da stravolgere la dice tutta sul coraggio di questo trentasettenne proveniente dal Kentucky con la voce che pare un bastardo mix tra Waylon Jennings, Marvin Gaye e Otis Redding . Qui diventa confidenziale e incastra perfettamente la canzone nel concept da lui creato.
Al figlio racconta anche la sua vita: dagli anni di marina militare nell’esercito U.S Navy (il country di ‘Sea Stories’) all’incontro e la relazione con la donna che è diventata compagna e madre (la profonda ‘Oh Sarah’) fino al finale honk y tonk ‘Call To Arms’, una vera antiwar song, di quelle che non scrive più nessuno, che porta a tutta velocità verso fine disco, come un treno lanciato in corsa. Trentanove minuti giusti, senza pause e silenzi. Non c'è più Dave Cobb a produrre ma fa tutto da solo, impegnandosi nel costruire canzoni strutturate e piene fino all'orlo.
Non mi piace mai gridare al capolavoro, ma questo è uno dei dischi più sorprendenti ascoltati in questi primi quattro mesi del 2016. Quelli capaci di inchiodarti all’istante.





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