MALCOLM HOLCOMBE-Another Black Hole (Proper/ IRD, 2016)
Sotto troverete alcune righe scritte per la rubrica Cantastorie di Classix!, in presentazione del precedente disco THE RCA SESSIONS, una raccolta di suoi pezzi risuonati per l’occasione. Parole sempre valide. Quello che vedete in questa foto, invece, è il freschissimo album uscito a Febbraio, a soli sei mesi dal precedente. Holcombe prosegue il buon periodo di tormentata creatività con altre dieci canzoni che lo confermano uno dei songwriter americani più veri, aspri, puri e genuini degli ultimi anni. La voce strisciante, burbera che raschia e pare sempre ferita e sanguinante dice, ancora una volta, tutto. Registrato a Nashville con la sua ormai rodata band (Jared Tyler, Ken Coomer, Dave Roe) e con l’aiuto di un pezzo da novanta come Tony Joe White alla chitarra elettrica, prosegue sulle strade folk country blues tracciate con tanta fatica in questi anni, aggiungendo un tocco soul dato dai cori di Drea Merritt e accenni swamp portati in dote da Tony Joe White, meritando il titolo di album più completo e vario della sua carriera. Storie di vita (dura) penetranti, presenze a volte spettrali, saggezza guadagnata sul campo con pochi calci nel culo, e redenzione ('Heidelberg Blues'), si incontrano in ogni angolo del disco, tra le pieghe, le rughe e i silenzi. Canzoni blues dal taglio elettrico come la title track e 'Papermill Man', il folk di‘ 'To Get By' , 'September’ e il country ('Someone Missing') disegnano i tratti amari di un album come sempre troppo sincero per essere vero e troppo ostico per trovare la via del facile successo. Ma ne sono sicuro: a lui sta bene così.
Se c’è un cantautore che impersona al meglio il titolo e il sottotitolo di questa rubrica (Cantastorie), è Malcolm Holcombe. Prima di raccontarvi chi è, però, soffermatevi per un attimo su una sua foto, guardate poi un video qualunque caricato in rete ma a volume spento: scrutate i lineamenti del viso, gli occhi sgranati e inquieti che fissano il pubblico, seguite le rughe della sua faccia, le smorfie, la saliva che cola dagli angoli della sua bocca quando canta con più fervore, osservate le mani nodose che afferrano la chitarra e la percuotono, i piedi che battono il tempo sul pavimento.
Ecco, credo potrebbe bastare come presentazione. Ora alzate il volume e ascoltate i silenzi e le esplosioni delle sue canzoni. Malcolm Holcombe la sa lunga sulla vita, nonostante una carriera decollata soltanto in prossimità dei quarant'anni: con la sola voce potrebbe mangiarsi in un boccone metà di tutti quei cantautori che spuntano come funghi oggigiorno. Holcombe ha la scorza dura di chi ha sceso le verdi colline delle Blue Ridge Mountains in North Carolina per cercare più fortuna in città (Nashville), trovando spesso più disagi che bellezza (l'alcolismo è stata una piaga dura da sconfiggere, la depressione pure) ma le tante verità che ha raccolto riesce a raccontarle con la rara naturalezza dei puri. Sopravvissuto all'illusione del successo promesso ma mai arrivato concretamente (un contratto con la Geffen Records ed un album mai uscito nel 1996), Holcombe ha sia l'onestà che la sapienza concesse a pochi, la capacità di non costruire arsenali davanti alla voce che potrebbe bastarsi da sola: una chitarra fingerpicking, belle chitarre dobro, un banjo, un violino costruiscono dolenti ballate folk/country nella struttura, ma blues giù fino al profondo dell'anima. Tanto scure e amare quanto raggianti e speranzose. Se ancora avete dei dubbi, l’ultimo dei tanti album usciti vi verrà in soccorso: THE RCA SESSIONS che contiene sia un CD che un DVD, ripercorre la sua carriera attraverso sedici canzoni risuonate live, estrapolate dai dieci album composti dal 1994 ad oggi. Se volete scavare nel passato cercate le sue tracce anche in A HUNDRED LIES (1999) e TO DRINK THE RAIN (2011), i suoi due lavori migliori. E se ancora non siete convinti, ascoltate chi la musica la mastica bene. Steve Earle disse di lui: “Malcolm Holcombe è il miglior cantautore che abbia mai fatto uscire dal mio studio di registrazione”. Dave Roe, invece, il leggendario bassista dell'ultima band di Johnny Cash, i Tennessee Three, non perde occasione per suonare con lui: "Malcolm è l'unico artista per cui combatto per essere presente durante le sue registrazioni".
Queste le date del suo imminente tour italiano 2016:
28/4 VEROLANUOVA (BS) - Parco Nocivelli
29/4 TALMASSONS (UD) - Mondelli Stable
30/4 PARMA -Mentana 104
1/5 VIGNOLA (MO) - Stones Cafe
2/5 TORINO - Folk Club
3/5 CANTU' (CO) - 1e35 Circa
RECENSIONE: MALCOLM HOLCOMBE-Pitful Blues (2014)
RECENSIONE: PETER CASE-HWY 62 (2015)
RECENSIONE: LUCINDA WILLIAMS-The Ghosts Of Highway 20 (2016)
RECENSIONE: PARKER MILLSAP-The Very Last Day (2016)
THE WHITE BUFFALO. Per la prima volta in Italia. Due date: 28 Luglio a Ravenna, 30 Luglio a Brescia
RECENSIONE: WILLIE NILE-World War Willie (2016)
RECENSIONE: ZAKK WYLDE-Book Of Shadows II (2016)
RECENSIONE: HAYES CARLL-Lovers And leavers (2016)
RECENSIONE: STURGILL SIMPSON-A Sailor’s Guide To Earth (2016)
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mercoledì 27 aprile 2016
venerdì 22 aprile 2016
RECENSIONE: CHEAP TRICK (Bang Zoom Crazy...Hello)
CHEAP TRICK Bang Zoom Crazy...Hello (Big Machine Records, 2016)
Con l'uscita del batterista Bun E. Carlos si interrompe quella spiritosa dualità interna che li ha sempre caratterizzati: da una parte i belli da prima pagina (Robin Zander, Tom Petersson), dall'altra i brutti con la sostanza (Carlos e l'eterno nerd Rick Nielsen). Ma i fan lo rivorrebbero già a casa. In questo 2016, però, hanno guadagnato la rock'n' roll Hall Of Fame e la voglia di rimanere in pista con un nuovo disco (a sette anni dall'ultimo THE LATEST) che cambia poco le carte in tavola della loro carriera: l'hard rock spianato dal pop rimane il miglior ingrediente delle canzoni, con meno freschezza rispetto al passato ma con ancora tanto mestiere. Perché cambiare? Chitarre e assoli in canzoni dal tiro hard street ('Heart on The Line', 'Roll Me'), cori come fossero gli anni 60 ('No Directipn Home', ''The Sun Never Sets'), qualche puntata nella new wave più leggera degli eighties ('When I Wake Up Tomorrow') e nel glam di scuola T Rex ('Blood Red Lips').
Per il resto solo divertimento da ascoltare in buona compagnia. Party band per eccellenza, ancora oggi a quarantadue anni dalla nascita. Aperitivo in spensieratezza salvato anche se non usciranno hit da tramandare ai prossimi anni di carriera i ai concerti in programma. Dimenticavo: c'è pure una cover di Dobie Gray, conosciuta anche nella versione di Bryan Ferry ('In The Crowd') e il sostituto di Carlos è stato allevato in casa (il figlio del chitarrista Nielsen).
RECENSIONE: PETER CASE-HWY 62 (2015)
RECENSIONE: LUCINDA WILLIAMS-The Ghosts Of Highway 20 (2016)
RECENSIONE: PARKER MILLSAP-The Very Last Day (2016)
THE WHITE BUFFALO. Per la prima volta in Italia. Due date: 28 Luglio a Ravenna, 30 Luglio a Brescia
RECENSIONE: WILLIE NILE-World War Willie (2016)
RECENSIONE: ZAKK WYLDE-Book Of Shadows II (2016)
RECENSIONE: HAYES CARLL-Lovers And leavers (2016)
RECENSIONE: STURGILL SIMPSON-A Sailor’s Guide To Earth (2016)
Con l'uscita del batterista Bun E. Carlos si interrompe quella spiritosa dualità interna che li ha sempre caratterizzati: da una parte i belli da prima pagina (Robin Zander, Tom Petersson), dall'altra i brutti con la sostanza (Carlos e l'eterno nerd Rick Nielsen). Ma i fan lo rivorrebbero già a casa. In questo 2016, però, hanno guadagnato la rock'n' roll Hall Of Fame e la voglia di rimanere in pista con un nuovo disco (a sette anni dall'ultimo THE LATEST) che cambia poco le carte in tavola della loro carriera: l'hard rock spianato dal pop rimane il miglior ingrediente delle canzoni, con meno freschezza rispetto al passato ma con ancora tanto mestiere. Perché cambiare? Chitarre e assoli in canzoni dal tiro hard street ('Heart on The Line', 'Roll Me'), cori come fossero gli anni 60 ('No Directipn Home', ''The Sun Never Sets'), qualche puntata nella new wave più leggera degli eighties ('When I Wake Up Tomorrow') e nel glam di scuola T Rex ('Blood Red Lips').
Per il resto solo divertimento da ascoltare in buona compagnia. Party band per eccellenza, ancora oggi a quarantadue anni dalla nascita. Aperitivo in spensieratezza salvato anche se non usciranno hit da tramandare ai prossimi anni di carriera i ai concerti in programma. Dimenticavo: c'è pure una cover di Dobie Gray, conosciuta anche nella versione di Bryan Ferry ('In The Crowd') e il sostituto di Carlos è stato allevato in casa (il figlio del chitarrista Nielsen).
RECENSIONE: PETER CASE-HWY 62 (2015)
RECENSIONE: LUCINDA WILLIAMS-The Ghosts Of Highway 20 (2016)
RECENSIONE: PARKER MILLSAP-The Very Last Day (2016)
THE WHITE BUFFALO. Per la prima volta in Italia. Due date: 28 Luglio a Ravenna, 30 Luglio a Brescia
RECENSIONE: WILLIE NILE-World War Willie (2016)
RECENSIONE: ZAKK WYLDE-Book Of Shadows II (2016)
RECENSIONE: HAYES CARLL-Lovers And leavers (2016)
RECENSIONE: STURGILL SIMPSON-A Sailor’s Guide To Earth (2016)
lunedì 18 aprile 2016
RECENSIONE: STURGILL SIMPSON (A Sailor's Guide To Earth)
STURGILL SIMPSON A Sailor’s Guide To Earth (Atlantic, 2016)
Salutato come il salvatore del country americana dopo l’uscita dei precedenti HIGH TOP MOUNTAIN (2013), il debutto, e il più sorprendente METAMODERN SOUNDS IN COUNTRY MUSIC (2014), Sturgill Simpson mette la freccia a sinistra e supera tutti in volata. Va da altre parti, spiazzando e convincendo ancora di più. Vola sopra a tutto, fregandosene delle etichette. Se tutti gli album avessero questa gioiosa voglia di giocare con i generi musicali, il mondo (musicale) sarebbe anche meno brutto di quanto appaia ad un primo sguardo. Ambizioso ma rispettoso di certe tradizioni. E di bello e gioioso non c’è molto dentro alle sue liriche, anche se spesso viene usata l’ironia come metodo per convincere. Le nove canzoni sono una lettera aperta, intima e personalissima, cantata con una voce che fa la differenza e indirizzata al piccolo figlio di due anni per avviarlo sulle strade del mondo nel modo più giusto e meno traumatico possibile, un avviso al futuro navigante: Simpson lo mette in guardia fin da subito nell’apertura ‘Welcome To Earth’, una canzone che si apre come farebbe un vero outlaw countryman dei ’70 per poi scoppiare in una babilonia di fiati (suonano i The Dap-Kings) che sembrano provenire direttamente dalle strade di Memphis e trascinati da una sezione ritmica caricata a funk. Avrebbe già vinto con questa sola canzone. Questa commistione tra country e Stax sound caratterizza tutte le restanti otto tracce con poche eccezioni. E la scelta di ‘In Bloom’ dei Nirvana di Kurt Cobain come cover da stravolgere la dice tutta sul coraggio di questo trentasettenne proveniente dal Kentucky con la voce che pare un bastardo mix tra Waylon Jennings, Marvin Gaye e Otis Redding . Qui diventa confidenziale e incastra perfettamente la canzone nel concept da lui creato.
Al figlio racconta anche la sua vita: dagli anni di marina militare nell’esercito U.S Navy (il country di ‘Sea Stories’) all’incontro e la relazione con la donna che è diventata compagna e madre (la profonda ‘Oh Sarah’) fino al finale honk y tonk ‘Call To Arms’, una vera antiwar song, di quelle che non scrive più nessuno, che porta a tutta velocità verso fine disco, come un treno lanciato in corsa. Trentanove minuti giusti, senza pause e silenzi. Non c'è più Dave Cobb a produrre ma fa tutto da solo, impegnandosi nel costruire canzoni strutturate e piene fino all'orlo.
Non mi piace mai gridare al capolavoro, ma questo è uno dei dischi più sorprendenti ascoltati in questi primi quattro mesi del 2016. Quelli capaci di inchiodarti all’istante.
RECENSIONE: PETER CASE-HWY 62 (2015)
RECENSIONE: LUCINDA WILLIAMS-The Ghosts Of Highway 20 (2016)
RECENSIONE: PARKER MILLSAP-The Very Last Day (2016)
THE WHITE BUFFALO. Per la prima volta in Italia. Due date: 28 Luglio a Ravenna, 30 Luglio a Brescia
RECENSIONE: WILLIE NILE-World War Willie (2016)
RECENSIONE: ZAKK WYLDE-Book Of Shadows II (2016)
RECENSIONE: HAYES CARLL-Lovers And leavers (2016)
Salutato come il salvatore del country americana dopo l’uscita dei precedenti HIGH TOP MOUNTAIN (2013), il debutto, e il più sorprendente METAMODERN SOUNDS IN COUNTRY MUSIC (2014), Sturgill Simpson mette la freccia a sinistra e supera tutti in volata. Va da altre parti, spiazzando e convincendo ancora di più. Vola sopra a tutto, fregandosene delle etichette. Se tutti gli album avessero questa gioiosa voglia di giocare con i generi musicali, il mondo (musicale) sarebbe anche meno brutto di quanto appaia ad un primo sguardo. Ambizioso ma rispettoso di certe tradizioni. E di bello e gioioso non c’è molto dentro alle sue liriche, anche se spesso viene usata l’ironia come metodo per convincere. Le nove canzoni sono una lettera aperta, intima e personalissima, cantata con una voce che fa la differenza e indirizzata al piccolo figlio di due anni per avviarlo sulle strade del mondo nel modo più giusto e meno traumatico possibile, un avviso al futuro navigante: Simpson lo mette in guardia fin da subito nell’apertura ‘Welcome To Earth’, una canzone che si apre come farebbe un vero outlaw countryman dei ’70 per poi scoppiare in una babilonia di fiati (suonano i The Dap-Kings) che sembrano provenire direttamente dalle strade di Memphis e trascinati da una sezione ritmica caricata a funk. Avrebbe già vinto con questa sola canzone. Questa commistione tra country e Stax sound caratterizza tutte le restanti otto tracce con poche eccezioni. E la scelta di ‘In Bloom’ dei Nirvana di Kurt Cobain come cover da stravolgere la dice tutta sul coraggio di questo trentasettenne proveniente dal Kentucky con la voce che pare un bastardo mix tra Waylon Jennings, Marvin Gaye e Otis Redding . Qui diventa confidenziale e incastra perfettamente la canzone nel concept da lui creato.
Al figlio racconta anche la sua vita: dagli anni di marina militare nell’esercito U.S Navy (il country di ‘Sea Stories’) all’incontro e la relazione con la donna che è diventata compagna e madre (la profonda ‘Oh Sarah’) fino al finale honk y tonk ‘Call To Arms’, una vera antiwar song, di quelle che non scrive più nessuno, che porta a tutta velocità verso fine disco, come un treno lanciato in corsa. Trentanove minuti giusti, senza pause e silenzi. Non c'è più Dave Cobb a produrre ma fa tutto da solo, impegnandosi nel costruire canzoni strutturate e piene fino all'orlo.
Non mi piace mai gridare al capolavoro, ma questo è uno dei dischi più sorprendenti ascoltati in questi primi quattro mesi del 2016. Quelli capaci di inchiodarti all’istante.
RECENSIONE: PETER CASE-HWY 62 (2015)
RECENSIONE: LUCINDA WILLIAMS-The Ghosts Of Highway 20 (2016)
RECENSIONE: PARKER MILLSAP-The Very Last Day (2016)
THE WHITE BUFFALO. Per la prima volta in Italia. Due date: 28 Luglio a Ravenna, 30 Luglio a Brescia
RECENSIONE: WILLIE NILE-World War Willie (2016)
RECENSIONE: ZAKK WYLDE-Book Of Shadows II (2016)
RECENSIONE: HAYES CARLL-Lovers And leavers (2016)
venerdì 15 aprile 2016
RECORD STORE DAY 2016
Vi siete mai persi in un negozio di dischi? Io spesso, quasi sempre: quello sì, quello no, quello aspetto, questo mi manca per completare la discografia, questi non li conosco ma mi incuriosiscono. Sì, insomma, avete capito. Eppure qualcuno sa perdersi in maniera diversa, buffa, quasi originale. Sentite qua...
Un sabato pomeriggio a Ivrea. Il negozio Discoccasione è in centro, in salita, in una via laterale che porta al castello, è piccolo ma stipato di vinili di tutti i tipi e generi, facile perdersi sì: vinili nuovi e usati, economici e più costosi, scatole e scatolette in ogni buco ma anche CD. Aggiungete un commesso competente, simpatico e super disponibile, e la bussola va in tilt per una buona oretta. Poi, all'improvviso, l'attenzione si sposta completamente: lo sguardo smette di lavorare sulle copertine dei Del-Lords e e si attivano le orecchie. Passi per un signore che confonde un disco di Townes Van Zandt con i fratelli Van Zant, quelli dei Lynyrd Skynyrd, ma poi...entrano in scena loro: due ragazzi sedicenni/diciottenni, dall'aria un po' sfigata, sembra si siano persi completamente. Ma non in quel senso come me.
Ragazzi: "ciao, stiamo cercando un disco dei Guns N' Roses per un regalo, uno che abbia tutte le canzoni che si sentono alla radio. Però questi..." indicando i vinili a 33 giri nello scaffale e balbettando qualcosa tipo: "sono troppo grandi, vogliamo quelli piccoli".
Stupore generale: "ohhhh".
Commesso: "ah 45 giri? No non ne ho, mi spiace".
Nel sentire nominare" 45 giri" qualcosa si inceppa. Questi giri sconosciuti. Ma come? 45 giri e il disco è più piccolo di uno che di giri ne ha 33? Qualcosa non torna nella loro testa.
Ragazzi: " No, vogliamo i dischi piccoli. Quelli!" indicando i CD, questi sconosciuti detti anche compact disc. Termine mai pervenuto dalle loro parti. Ah ok. Tratteniamo il respiro per non scoppiare a ridere. Ma il tutto è rimandato di pochi minuti dopo la loro uscita di scena.
I ragazzi usciranno dal negozio con una copia di un disco GRANDE di Appetite For Destruction in una mano (che tanto, a quanto pare, l'amico possiede il "coso" per ascoltarlo) e con una lezione di geometria musicale imparata nell'altra. Le misure contano. Si può ridere. Da due settimane, la radio continua a ripetere che sabato 16 Aprile è la festa dei negozi di dischi. Il consueto Record Store Day, utile solamente per ricordarci che esistono ancora nelle parti più sperdute delle nostre città. La festa a cui partecipano i soliti volti noti, quelli che si vedono durante i restanti giorni dell'anno, e visto che anch'io, insieme a miei soldi, dentro ai negozi di dischi ci trascorro almeno due giorni a settimana, come ogni anno salterò l'appuntamento e lascerò libero il mio spazio per nuovi possibili alunni dell'ultima generazione. Ah: comprate i dischi, piccoli o grandi non ha importanza. Durante tutto l'anno (possibilmente), e nei piccoli negozi dove potrete fare anche di questi buffi incontri. Ora capisco come ha fatto Maurizio Blatto a scrivere il suo 'L'ultimo disco dei Mohicani'(bellissimo e divertentissimo, cercatelo).
RECORD STORE DAY 2012, intervista a PAOLO CAMPANA,regista di "VINYLMANIA
RECORD STORE DAY 2014: i dischi degli artisti
Ragazzi: "ciao, stiamo cercando un disco dei Guns N' Roses per un regalo, uno che abbia tutte le canzoni che si sentono alla radio. Però questi..." indicando i vinili a 33 giri nello scaffale e balbettando qualcosa tipo: "sono troppo grandi, vogliamo quelli piccoli".
Stupore generale: "ohhhh".
Commesso: "ah 45 giri? No non ne ho, mi spiace".
Nel sentire nominare" 45 giri" qualcosa si inceppa. Questi giri sconosciuti. Ma come? 45 giri e il disco è più piccolo di uno che di giri ne ha 33? Qualcosa non torna nella loro testa.
Ragazzi: " No, vogliamo i dischi piccoli. Quelli!" indicando i CD, questi sconosciuti detti anche compact disc. Termine mai pervenuto dalle loro parti. Ah ok. Tratteniamo il respiro per non scoppiare a ridere. Ma il tutto è rimandato di pochi minuti dopo la loro uscita di scena.
I ragazzi usciranno dal negozio con una copia di un disco GRANDE di Appetite For Destruction in una mano (che tanto, a quanto pare, l'amico possiede il "coso" per ascoltarlo) e con una lezione di geometria musicale imparata nell'altra. Le misure contano. Si può ridere. Da due settimane, la radio continua a ripetere che sabato 16 Aprile è la festa dei negozi di dischi. Il consueto Record Store Day, utile solamente per ricordarci che esistono ancora nelle parti più sperdute delle nostre città. La festa a cui partecipano i soliti volti noti, quelli che si vedono durante i restanti giorni dell'anno, e visto che anch'io, insieme a miei soldi, dentro ai negozi di dischi ci trascorro almeno due giorni a settimana, come ogni anno salterò l'appuntamento e lascerò libero il mio spazio per nuovi possibili alunni dell'ultima generazione. Ah: comprate i dischi, piccoli o grandi non ha importanza. Durante tutto l'anno (possibilmente), e nei piccoli negozi dove potrete fare anche di questi buffi incontri. Ora capisco come ha fatto Maurizio Blatto a scrivere il suo 'L'ultimo disco dei Mohicani'(bellissimo e divertentissimo, cercatelo).
RECORD STORE DAY 2012, intervista a PAOLO CAMPANA,regista di "VINYLMANIA
RECORD STORE DAY 2014: i dischi degli artisti
lunedì 11 aprile 2016
RECENSIONE: HAYES CARLL (Lovers And Leavers)
HAYES CARLL Lovers And Leavers (Thirty Tigers, 2016)
Hayes Carll è uno di quelli buoni. Mi è sempre piaciuto. Il texano ritorna dopo cinque anni di assenza discografica. Tanti. Senza fretta e con una relazione importante fallita alle spalle. Succede. Da qui, e dalla nascita di un figlio, a cui dedica il country di 'The Magic Kid' riparte tutto. Perché bisogna sempre ripartire. Dopo aver raccontato di vagabondi, poeti e epiche bevute (TROUBLE IN MIND), dopo le stoccate politiche lanciate con il precedente KMAG YOYO, questa volta scava nella profondità delle relazioni umane con dieci ballate acustiche intense, profonde, illuminanti, ma anche ironiche, dove i paesaggi schiariti dalle luci di città e quelli dimenticati nelle ombre della profonda America fanno da sfondo alla vita e a ciò che ci riserva. Dieci canzoni (scritte a quattro mani con diversi autori tra cui Jim Lauderdale) cariche di riflessioni, confessionali (il lento walzer 'You Leave Alone') e avvolte intorno ai tanti cambiamenti di questi ultimi anni. Un salto quasi abissale dalla gioventù alla maturità. Si mette a nudo da autentico heartbreaker, non ha freddo ma trasmette calore e qualche speranza. Autentico.
Produce Joe Henry, una garanzia, che gioca di sottrazione con i risvolti acustici della musica americana infarciti da chitarre dal passo spesso pigro ('Drive') con rari scatti in avanti (la più frizzante 'Love Is So Easy'); suonano Jay Bellerose alla batteria, David Pilch al basso, Tyler Chester al piano e Wurlitzer e Eric Heywood alla pedal steel. Altre garanzie. Un po' Townes Van Zandt, John Prine e Guy Clark, un po' Steve Earle, un po' Ray Wylie Hubbard e Todd Snider, due amici questi ultimi. Un bel ritorno, a voce bassa e atmosfere unplugged.
RECENSIONE: PETER CASE-HWY 62 (2015)
RECENSIONE: LUCINDA WILLIAMS-The Ghosts Of Highway 20 (2016)
RECENSIONE: PARKER MILLSAP-The Very Last Day (2016)
THE WHITE BUFFALO. Per la prima volta in Italia. Due date: 28 Luglio a Ravenna, 30 Luglio a Brescia
RECENSIONE: WILLIE NILE-World War Willie (2016)
RECENSIONE: ZAKK WYLDE-Book Of Shadows II (2016)
Hayes Carll è uno di quelli buoni. Mi è sempre piaciuto. Il texano ritorna dopo cinque anni di assenza discografica. Tanti. Senza fretta e con una relazione importante fallita alle spalle. Succede. Da qui, e dalla nascita di un figlio, a cui dedica il country di 'The Magic Kid' riparte tutto. Perché bisogna sempre ripartire. Dopo aver raccontato di vagabondi, poeti e epiche bevute (TROUBLE IN MIND), dopo le stoccate politiche lanciate con il precedente KMAG YOYO, questa volta scava nella profondità delle relazioni umane con dieci ballate acustiche intense, profonde, illuminanti, ma anche ironiche, dove i paesaggi schiariti dalle luci di città e quelli dimenticati nelle ombre della profonda America fanno da sfondo alla vita e a ciò che ci riserva. Dieci canzoni (scritte a quattro mani con diversi autori tra cui Jim Lauderdale) cariche di riflessioni, confessionali (il lento walzer 'You Leave Alone') e avvolte intorno ai tanti cambiamenti di questi ultimi anni. Un salto quasi abissale dalla gioventù alla maturità. Si mette a nudo da autentico heartbreaker, non ha freddo ma trasmette calore e qualche speranza. Autentico.
Produce Joe Henry, una garanzia, che gioca di sottrazione con i risvolti acustici della musica americana infarciti da chitarre dal passo spesso pigro ('Drive') con rari scatti in avanti (la più frizzante 'Love Is So Easy'); suonano Jay Bellerose alla batteria, David Pilch al basso, Tyler Chester al piano e Wurlitzer e Eric Heywood alla pedal steel. Altre garanzie. Un po' Townes Van Zandt, John Prine e Guy Clark, un po' Steve Earle, un po' Ray Wylie Hubbard e Todd Snider, due amici questi ultimi. Un bel ritorno, a voce bassa e atmosfere unplugged.
RECENSIONE: PETER CASE-HWY 62 (2015)
RECENSIONE: LUCINDA WILLIAMS-The Ghosts Of Highway 20 (2016)
RECENSIONE: PARKER MILLSAP-The Very Last Day (2016)
THE WHITE BUFFALO. Per la prima volta in Italia. Due date: 28 Luglio a Ravenna, 30 Luglio a Brescia
RECENSIONE: WILLIE NILE-World War Willie (2016)
RECENSIONE: ZAKK WYLDE-Book Of Shadows II (2016)
giovedì 7 aprile 2016
RECENSIONE: ZAKK WYLDE (Book Of Shadows II)
ZAKK WYLDE Book Of Shadows II (eOne Music, 2016)
Non mi fido di chi continua a ripetere: “non escono più album belli”. Non ci credo, ma spesso sono di bocca buona. Io continuo a trovarli in qualche modo. In queste ultime due settimane ne sono usciti almeno un paio degni di nota: Grant-Lee Phillips e Richmond Fontaine, per esempio. E mi tengo al paio che ho detto. A questi aggiungo volentieri il nuovo album di Zakk Wylde, perché, a suo modo, va nella stessa direzione di bellezza, quella costruita con la sincerità, la passione e la spontaneità dei puri. Il disco è stato pensato e lavorato mentre era in tour e pur peccando di omogeneità, le quattordici canzoni (chiamiamole anche ballate) viaggiano tutte alla stessa velocità di crociera, o meglio galleggiano sopra le acque torbide e ferme di un fiume sotto il caldo sole del sud, rilasciando forti segni di vita. Il fiume è ancora navigabile. "Un viaggio nello spirito e nella psiche" dice lui. L’irsuto chitarrista lanciato da Ozzy Osbourne nel lontano 1988 si mette a nudo per la seconda volta a ben vent’anni dal debutto solista BOOK OF SHADOWS (1996), uscito quando era ancora uno sbarbato ragazzo dalla lunga criniera bionda che lasciò il New Jersey in cerca del grande successo. Che naturalmente troverà. Vent’anni sono tanti, e qui sembra che voglia espiare i tanti peccati accumulati in anni di bagordi sopra e sotto i palchi di mezzo mondo a capo delle sue creature: i PRIDE AND GLORY prima (magnifico progetto southern rock ma abortito quasi sul nascere) e i più longevi e pesanti BLACK LABEL SOCIETY.
Lo fa nella stessa maniera di allora e gli riesce ancora bene, nonostante negli anni novanta si respirasse un’aria più pesante e tesa rispetto a oggi. Appoggia la chitarra elettrica in un angolo non troppo lontano, giusto per essere ripresa all’occorrenza per assoli melodici e misurati, abbandona le pose da guitar hero per le masse metallare per sedersi davanti a quel pianoforte che, in gioventù, lo fece avvicinare alla musica, ripetendo le lezioni che uscivano in modo gratuito dai vinili del migliore Elton John (‘The King’), o arpeggiando con una chitarra acustica come faceva Neil Young quando era in cerca di “cuori d’oro” (‘ Eyes Of Burden’, ‘The Leeve’). Il canadese è uno dei suo eroi musicali e non ne ha mai fatto mistero . Nell'ariosa ‘Sleeping Dogs’ duetta con Corey Taylor, cantante di Slipknot e Stone Sour, e ci ironizza su durante un'intervista: “siamo i nuovi Simon & Garfunkel”. Zakk Wylde ha un talento musicale smisurato e una voce che sa fare la differenza quando graffia, e quando non picchia con i BLS e riesce a lavorare con lentezza, tira fuori l’anima più malinconica (‘Autumn Changes’), introspettiva (‘Tears Of December’) e romantica che vive sotto alla sua lunga barba, lì un pochino più sotto nella parte sinistra del torace. Dove si intravede la prima goccia rossa.
ZAKK WYLDE Book Of Shadows (1996)
La calata di Zakk Wylde al Teatro degli Arcimboldi di Milano, fissata per il 9 Giugno 2016, è la mia notizia musicale del mese. L’atmosfera raccolta e la buona acustica saranno perfette per presentare BOOK OF SHADOWS II, seguito di questo primo disco, unico della carriera uscito con il solo nome in copertina. Nel 1996 Zakk Wylde è ancora uno sbarbato, ma talentuoso, ragazzo del New Jersey, lontano dall’immagine che prenderà corpo solo qualche anno dopo e con una voce personale e bellissima, che si perderà negli anni inseguendo e spesso scimmiottando Ozzy. Già, da otto anni è il chitarrista di Ozzy Osbourne, ma nel 1994 con il progetto PRIDE & GLORY tenta di dare sfogo alle sue vere radici musicali legate al blues e al southern rock, fino ad allora ancora imprigionate e ben nascoste. Ci riesce benissimo, ma il progetto rimarrà un episodio isolato. Con BOOK OF SHADOWS quelle radici scavano ancora più in profondità, cercando l’aspetto più introspettivo e romantico della sua musica, senza abbandonare mai il rock (‘1,000,000 Miles Away’ è la più dura del lotto) che spesso fa capolino dagli assoli di chitarra: al southern rock di Allman Brothers e Lynyrd Skynyrd si aggiungono pagine di country folk dal passo younghiano (‘Between And Hell’), arrangiamenti d’archi sparsi un po’ ovunque (‘Dead As Yesterday’), ballate pianistiche (‘Too Numb To Cry’, Road Back Home’) e sentite dediche che si bagnano di lacrime. ‘Throwin’ It all away’ è per Shannon Hoon , cantante dei Blind Melon, morto un anno prima, la finale, delicata e arpeggiata ‘I Thank You Child’ con esplosione finale è per il piccolo figlio.
Lavoro intenso, sentito e intimista, per certi versi anche semplice, che però svela la parte migliore del musicista Wylde, quella che la creatura BLACK LABEL SOCIETY, che debutterà tre anni dopo, spianerà sotto pesanti macigni heavy non sempre sorretti dalla migliore ispirazione, salvo ripresentarsi sporadicamente a ricordarci la completezza musicale del personaggio. HANGOVER MUSIC VOL.VI (2004) è l’esempio migliore. Con i BLS la quantità ha finito per mangiarsi la qualità. Peccato. Comunque un puro, sanguigno e genuino come pochi. Sotto alla lunga barba rossa da vichingo americano di oggi batte un cuore, ultimamente sfinito dagli eccessi, ma ancora romantico. Carismatico.
Accompagnano: James Lo Menzo al basso e Joe Vitale alla batteria.
RECENSIONE: BLACK LABEL SOCIETY -Catacombs Of The Black Vatican (2014)
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA # 7: PRIDE & GLORY -Pride & Glory (1994)
Non mi fido di chi continua a ripetere: “non escono più album belli”. Non ci credo, ma spesso sono di bocca buona. Io continuo a trovarli in qualche modo. In queste ultime due settimane ne sono usciti almeno un paio degni di nota: Grant-Lee Phillips e Richmond Fontaine, per esempio. E mi tengo al paio che ho detto. A questi aggiungo volentieri il nuovo album di Zakk Wylde, perché, a suo modo, va nella stessa direzione di bellezza, quella costruita con la sincerità, la passione e la spontaneità dei puri. Il disco è stato pensato e lavorato mentre era in tour e pur peccando di omogeneità, le quattordici canzoni (chiamiamole anche ballate) viaggiano tutte alla stessa velocità di crociera, o meglio galleggiano sopra le acque torbide e ferme di un fiume sotto il caldo sole del sud, rilasciando forti segni di vita. Il fiume è ancora navigabile. "Un viaggio nello spirito e nella psiche" dice lui. L’irsuto chitarrista lanciato da Ozzy Osbourne nel lontano 1988 si mette a nudo per la seconda volta a ben vent’anni dal debutto solista BOOK OF SHADOWS (1996), uscito quando era ancora uno sbarbato ragazzo dalla lunga criniera bionda che lasciò il New Jersey in cerca del grande successo. Che naturalmente troverà. Vent’anni sono tanti, e qui sembra che voglia espiare i tanti peccati accumulati in anni di bagordi sopra e sotto i palchi di mezzo mondo a capo delle sue creature: i PRIDE AND GLORY prima (magnifico progetto southern rock ma abortito quasi sul nascere) e i più longevi e pesanti BLACK LABEL SOCIETY.
Lo fa nella stessa maniera di allora e gli riesce ancora bene, nonostante negli anni novanta si respirasse un’aria più pesante e tesa rispetto a oggi. Appoggia la chitarra elettrica in un angolo non troppo lontano, giusto per essere ripresa all’occorrenza per assoli melodici e misurati, abbandona le pose da guitar hero per le masse metallare per sedersi davanti a quel pianoforte che, in gioventù, lo fece avvicinare alla musica, ripetendo le lezioni che uscivano in modo gratuito dai vinili del migliore Elton John (‘The King’), o arpeggiando con una chitarra acustica come faceva Neil Young quando era in cerca di “cuori d’oro” (‘ Eyes Of Burden’, ‘The Leeve’). Il canadese è uno dei suo eroi musicali e non ne ha mai fatto mistero . Nell'ariosa ‘Sleeping Dogs’ duetta con Corey Taylor, cantante di Slipknot e Stone Sour, e ci ironizza su durante un'intervista: “siamo i nuovi Simon & Garfunkel”. Zakk Wylde ha un talento musicale smisurato e una voce che sa fare la differenza quando graffia, e quando non picchia con i BLS e riesce a lavorare con lentezza, tira fuori l’anima più malinconica (‘Autumn Changes’), introspettiva (‘Tears Of December’) e romantica che vive sotto alla sua lunga barba, lì un pochino più sotto nella parte sinistra del torace. Dove si intravede la prima goccia rossa.
ZAKK WYLDE Book Of Shadows (1996)
La calata di Zakk Wylde al Teatro degli Arcimboldi di Milano, fissata per il 9 Giugno 2016, è la mia notizia musicale del mese. L’atmosfera raccolta e la buona acustica saranno perfette per presentare BOOK OF SHADOWS II, seguito di questo primo disco, unico della carriera uscito con il solo nome in copertina. Nel 1996 Zakk Wylde è ancora uno sbarbato, ma talentuoso, ragazzo del New Jersey, lontano dall’immagine che prenderà corpo solo qualche anno dopo e con una voce personale e bellissima, che si perderà negli anni inseguendo e spesso scimmiottando Ozzy. Già, da otto anni è il chitarrista di Ozzy Osbourne, ma nel 1994 con il progetto PRIDE & GLORY tenta di dare sfogo alle sue vere radici musicali legate al blues e al southern rock, fino ad allora ancora imprigionate e ben nascoste. Ci riesce benissimo, ma il progetto rimarrà un episodio isolato. Con BOOK OF SHADOWS quelle radici scavano ancora più in profondità, cercando l’aspetto più introspettivo e romantico della sua musica, senza abbandonare mai il rock (‘1,000,000 Miles Away’ è la più dura del lotto) che spesso fa capolino dagli assoli di chitarra: al southern rock di Allman Brothers e Lynyrd Skynyrd si aggiungono pagine di country folk dal passo younghiano (‘Between And Hell’), arrangiamenti d’archi sparsi un po’ ovunque (‘Dead As Yesterday’), ballate pianistiche (‘Too Numb To Cry’, Road Back Home’) e sentite dediche che si bagnano di lacrime. ‘Throwin’ It all away’ è per Shannon Hoon , cantante dei Blind Melon, morto un anno prima, la finale, delicata e arpeggiata ‘I Thank You Child’ con esplosione finale è per il piccolo figlio.
Lavoro intenso, sentito e intimista, per certi versi anche semplice, che però svela la parte migliore del musicista Wylde, quella che la creatura BLACK LABEL SOCIETY, che debutterà tre anni dopo, spianerà sotto pesanti macigni heavy non sempre sorretti dalla migliore ispirazione, salvo ripresentarsi sporadicamente a ricordarci la completezza musicale del personaggio. HANGOVER MUSIC VOL.VI (2004) è l’esempio migliore. Con i BLS la quantità ha finito per mangiarsi la qualità. Peccato. Comunque un puro, sanguigno e genuino come pochi. Sotto alla lunga barba rossa da vichingo americano di oggi batte un cuore, ultimamente sfinito dagli eccessi, ma ancora romantico. Carismatico.
Accompagnano: James Lo Menzo al basso e Joe Vitale alla batteria.
RECENSIONE: BLACK LABEL SOCIETY -Catacombs Of The Black Vatican (2014)
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA # 7: PRIDE & GLORY -Pride & Glory (1994)
lunedì 4 aprile 2016
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #9: THE MOTHER STATION (Brand New Bag)
THE MOTHER STATION Brand New Bag (1994)
Gli anni ottanta avevano spento il tizzone ardente del southern rock, quello che bruciava incandescente solo qualche anno prima. Nei primi anni novanta alcune band iniziarono a soffiare forte sul carbone e improvvisamente la fiamma riprese a scaldare l’ambiente: Black Crowes, Gov’t Mule, Cry Of Love, Brother Cane, The Screamin’ Cheetah Wheelie e i (...o le) MOTHER STATION appunto. Qualcuno di questi gruppi sta continuando a soffiare, chi con il fiato corto, chi ancora con immutato fervore, alcuni come la band nata a Memphis ha dato tutto e subito. Un respiro profondo e tutto il fiato dei polmoni è riversato sulle dodici canzoni che compongono il debutto (e unico disco in carriera) BRAND NEW BAG prodotto dal veterano Joe Hardy, a oggi tra le migliori classic rock songs ascoltate negli anni novanta. Guidati dalla carismatica voce di Susan Marshall, una micidiale miscela tra Janis Joplin e Tina turner o un Chris Robinson in abiti femminili se preferite, dalla sei corde ispiratissima e selvaggia della chitarrista Gwin Spencer, lasciando agli uomini Rick Shelton (batteria) e Michael Jaques (basso) il compito di tenere il ritmo e a Paul Brown di ricamare con le tastiere. Tra assalti hard di stampo zeppeliniano (‘Put TheBlame On Me’), il singolo ‘Show You The Way’, la cover (l’unica del disco) di ‘Fool For A Pretty Face’ degli Humble Pie, funky blues vicini ai primissimi Black Crowes (‘Black Beauty’), la presenza di un flauto (‘Love Me’) e di un violino (la ballata ‘Spirit In Me’) a primeggiare è l’aria soul che sbuffa e si intrufola in ogni singola nota trasformandosi presto in forte uragano, e la grande interpretazione in ‘Heart Without A Home’ ne è la dimostrazione più ficcante.
La storia, purtroppo, finisce esattamente dopo la dodicesima traccia, la bucolica e crescente ‘ Stranger To My Soul’. Le orme della rossa cantante Susan Marshall le troveremo in numerosi dischi dove presterà la voce come corista, tra cui gli Afghan Whigs di Greg Dulli, periodo 1965, i Lynyrd Skynyrd, Lenny Kravitz, Willy deVille, Lucinda Williams. Poi il nulla. Peccato. Poteva essere una lunga e bella storia. Rimane un solo disco. Bellissimo.
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA # 1: FRANCESCO DE GREGORI- Titanic (1982)
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #2: THE HOUSEMARTINS-London 0 Hull 4
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #3: THE NOTTING HILLBILLIES-Missing...Presumed Having A Good Time
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #4: EDDIE HINTON-Very Extremely Dangerous (1978)
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #5: BIG COUNTRY-Steeltown, 1984
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #6: TESLA-Five Man Acoustical Jam, 1990
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA # 7: PRIDE & GLORY-Pride & Glory (1994)
Gli anni ottanta avevano spento il tizzone ardente del southern rock, quello che bruciava incandescente solo qualche anno prima. Nei primi anni novanta alcune band iniziarono a soffiare forte sul carbone e improvvisamente la fiamma riprese a scaldare l’ambiente: Black Crowes, Gov’t Mule, Cry Of Love, Brother Cane, The Screamin’ Cheetah Wheelie e i (...o le) MOTHER STATION appunto. Qualcuno di questi gruppi sta continuando a soffiare, chi con il fiato corto, chi ancora con immutato fervore, alcuni come la band nata a Memphis ha dato tutto e subito. Un respiro profondo e tutto il fiato dei polmoni è riversato sulle dodici canzoni che compongono il debutto (e unico disco in carriera) BRAND NEW BAG prodotto dal veterano Joe Hardy, a oggi tra le migliori classic rock songs ascoltate negli anni novanta. Guidati dalla carismatica voce di Susan Marshall, una micidiale miscela tra Janis Joplin e Tina turner o un Chris Robinson in abiti femminili se preferite, dalla sei corde ispiratissima e selvaggia della chitarrista Gwin Spencer, lasciando agli uomini Rick Shelton (batteria) e Michael Jaques (basso) il compito di tenere il ritmo e a Paul Brown di ricamare con le tastiere. Tra assalti hard di stampo zeppeliniano (‘Put TheBlame On Me’), il singolo ‘Show You The Way’, la cover (l’unica del disco) di ‘Fool For A Pretty Face’ degli Humble Pie, funky blues vicini ai primissimi Black Crowes (‘Black Beauty’), la presenza di un flauto (‘Love Me’) e di un violino (la ballata ‘Spirit In Me’) a primeggiare è l’aria soul che sbuffa e si intrufola in ogni singola nota trasformandosi presto in forte uragano, e la grande interpretazione in ‘Heart Without A Home’ ne è la dimostrazione più ficcante.
La storia, purtroppo, finisce esattamente dopo la dodicesima traccia, la bucolica e crescente ‘ Stranger To My Soul’. Le orme della rossa cantante Susan Marshall le troveremo in numerosi dischi dove presterà la voce come corista, tra cui gli Afghan Whigs di Greg Dulli, periodo 1965, i Lynyrd Skynyrd, Lenny Kravitz, Willy deVille, Lucinda Williams. Poi il nulla. Peccato. Poteva essere una lunga e bella storia. Rimane un solo disco. Bellissimo.
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA # 1: FRANCESCO DE GREGORI- Titanic (1982)
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #2: THE HOUSEMARTINS-London 0 Hull 4
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #3: THE NOTTING HILLBILLIES-Missing...Presumed Having A Good Time
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #4: EDDIE HINTON-Very Extremely Dangerous (1978)
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #5: BIG COUNTRY-Steeltown, 1984
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #6: TESLA-Five Man Acoustical Jam, 1990
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA # 7: PRIDE & GLORY-Pride & Glory (1994)