BANDITOS Banditos (Bloodshot/IRD, 2015)
Tre voci soliste che si alternano, due maschili (i chitarristi Timothy Steven Corey Parsons e Stephen Alan Pierce II anche al banjo) e una femminile (Mary Beth Richardson alle prese con kazoo-Long Gone, Anyway- e tamburello), e tanti input musicali presi dalla vecchia tradizione americana con banjo e contrabbasso che riescono a rendere la proposta del gruppo proveniente dall'Alabama, ma di casa a Nashville, fresca, variegata e personale. A dispetto di un look che potrebbe far pensare ad una Southern rock band arcigna e cazzuta, i Banditos sono un sestetto (completano la formazione l'altro chitarrista Jeffrey David Salter, il bassista e contrabassista Jeffrey "Danny" Vines e il batterista Randy Taylor Wade) a cui piace scavare molto indietro nel tempo, facendo partire ogni cosa dal vecchio rock'n'roll '50 (Cry Baby Cry), aggiungendo di volta in volta qualcosa di diverso per far virare le canzoni verso strade suggestive, a volte impervie, ma sempre rassicuranti nel loro mantenere i piedi nel territorio americano più polveroso e umidiccio di alcol appena rovesciato: dal vigore del boogie/blues quasi zz topiano dell'apertura The Breeze, alle dissonanze elettriche di Golden Grease, all'evocativo blues di Old Ways, al fervore rockabilly/garage di Still Sober (After All These Beer), all' hillybilly di Waitin' con la voce della Richardson che inizia ad impossessarsi della scena risultando, a fine disco, la vera arma in più: all'occorrenza sa indossare i vestiti dell'innocenza irriverente alla Wanda Jackson, per poi trasformarsi in una affamata e sanguigna Janis Joplin in No Good.
In questo disco tutto parla l'antica lingua della tradizione americana. La vera sorpresa è il piglio con cui viene presentato il tutto: non c'è tempo per far posare troppa polvere sugli strumenti. "La maggior parte dell'album è stata registrata dal vivo e l'energia si sente sicuramente" dice il chitarrista Salter. I Banditos viaggiano che è un piacere anche quando ciondolano in ballate come Blue Mosey #2 e la finale Preachin' To The Choir, una perfetta chiosa soul. Impatto sporco, attitudine sudata e presenza scenica genuina bastano a formare il carattere vincente di una band che bada al sodo e che ha portato a casa la partita alla prima uscita discografica.
I Banditos sono una delle sorprese più interessanti di questa prima metà dell' anno.
Pagine
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venerdì 29 maggio 2015
mercoledì 27 maggio 2015
RECENSIONE: HAYSEED DIXIE (Hair Down To My Grass & live@Spazio 211, Torino, 13 Febbraio 2015)
‘HAIR DOWN TO MY GRASS’
(Hayseed Dixie Records)
Veniam giù dai monti...
Usciti di scena i due
fratelli Reno, da sempre pilastri musicali della band, sostituiti dai nuovi
entrati Johnny Butten (banjo) e Hippy Joe Hymas (mandolino), la strana e vivace
creatura di John Wheeler, nata tra i monti Appalachi, continua imperterrita a
portare avanti la formula che li ha visti nascere: reinterpretare la storia del
(hard) rock sotto la veste country/ bluegrass. Se in principio c’era il
repertorio degli AC/DC, dei Kiss, e poi arrivarono le prime canzoni autografe e
persino dischi cantati in lingua scandinava, questa volta a farne le spese sono
canzoni più leggere legate al glam e all’hard rock melodico anni ottanta:
Twisted Sister, Def Leppard, Survivor, Europe, Bryan Adams, Scorpions, Bon Jovi
e Journey entrano nel calderone. Una formula che pur sembrando ripetitiva
rimane accattivante e divertente, in particolar modo quando tutto si
trasferisce sopra ad un palco. Lì potreste essere catturati definitivamente.
(Enzo Curelli) da CLASSIX! # 43 (Marzo/Aprile 2015)
live @ Spazio 211, Torino, 13 Febbraio 2015
Appalachian rockgrass
Appalachian rockgrass
La
serata è di quelle rigide e grigie. Dentro al piccolo club di Torino però, la
visione di due enormi figure vestite di bermuda mimetiche e grossi anfibi sembra
dare un caloroso benvenuto: l’irsuto bassista Jake Bakesnake Byers e il cantante
e leader John Wheeler, i due veterani della formazione americana scesa dai
monti Appalachi alla conquista del mondo
a suon di brani hard rock rivisitati in salsa country/bluegrass (rockgrass è il
loro trademark), si aggirano indisturbati e sorridenti tra il pubblico. I due integratissimi
nuovi elementi della formazione, invece, si intravedono dalla porta socchiusa
del camerino: Johnny Butten, di diritto nei Guinness dei Primati come le dita
più veloci al mondo se si tratta di suonare le corde di un banjo e Hippy Joe
Hymas al mandolino, personaggio eccentrico, vero spasso per gli occhi, una
babilonia di smorfie che cattura gli sguardi
e accende sorrisi durante tutto il concerto. Ad aprire, il contagioso
country and roll dei padroni di casa FJM, un trio dal tiro punk che il pubblico
amico apprezza e gradisce. Serata portata a casa tra gli applausi. Gli Hayseed
Dixie, invece, hanno un nuovo album da presentare HAIR DOWN TO MY GRASS, il
loro tributo al glam/street rock degli anni ottanta (We’re Gonna Take It, Pour
Some Sugar On Me e Eye Of The Tiger
sono uno spasso così stravolte), ma in apertura di concerto vogliono giocare sul sicuro con due brani della band australiana
da cui hanno preso il nome. Hells Bells
e You Shook Me All Night Long sono un
biglietto da visita vincente che li traghetterà senza cedimenti fino alla fine,
quando si aggiungerà l’immancabile e spianata “autostrada per l’inferno”.
I loro concerti sono una sarabanda ben assortita di traditional bluegrass suonato con piglio da veri metallari tanto che su Ace Of Spades si scatena l’inevitabile pogo nelle prime file, musica classica (Eine Keine Trinkemusic di un certo Mozart), tecnica strumentale invidiabile (Bohemian Rhapsody è sempre un piacere, una”killing song” come dicono loro) e gag divertenti. A centro palco a fare da scenografia, dove tutte le band normali terrebbero una batteria, campeggia un frigorifero stipato di birre. Gli Hayseed Dixie, infatti, di normale hanno ben poco e John Weeler è un cerimoniere che tra un elogio ai vini italiani, snocciolati uno dopo l’altro da vero ed esperto sommelier, giochi di parole che legano insieme il compianto R.J. Dio con alcune bestemmie italiane imparate con nonchalance dal defunto Germano Mosconi, quando imbraccia il violino incanta e la pinkfloydiana Comfortably Numb si candida a miglior brano della serata. Il meglio arriva nel finale quando la lunga esecuzione di Hotel California diventa un contenitore pieno di sorprese e citazioni tra cui emergono un inaspettato e bizzarro omaggio a Tiziano Ferro e una coinvolgente Clandestino di Manu Chao. Finito il concerto, come la loro ironica canzone Merchandise Table invita a fare: tutti al banco merchandise per lo shopping, foto di rito...e l’ultimo brindisi. (Enzo Curelli) da CLASSIC ROCK # 29 (Aprile 2015)
I loro concerti sono una sarabanda ben assortita di traditional bluegrass suonato con piglio da veri metallari tanto che su Ace Of Spades si scatena l’inevitabile pogo nelle prime file, musica classica (Eine Keine Trinkemusic di un certo Mozart), tecnica strumentale invidiabile (Bohemian Rhapsody è sempre un piacere, una”killing song” come dicono loro) e gag divertenti. A centro palco a fare da scenografia, dove tutte le band normali terrebbero una batteria, campeggia un frigorifero stipato di birre. Gli Hayseed Dixie, infatti, di normale hanno ben poco e John Weeler è un cerimoniere che tra un elogio ai vini italiani, snocciolati uno dopo l’altro da vero ed esperto sommelier, giochi di parole che legano insieme il compianto R.J. Dio con alcune bestemmie italiane imparate con nonchalance dal defunto Germano Mosconi, quando imbraccia il violino incanta e la pinkfloydiana Comfortably Numb si candida a miglior brano della serata. Il meglio arriva nel finale quando la lunga esecuzione di Hotel California diventa un contenitore pieno di sorprese e citazioni tra cui emergono un inaspettato e bizzarro omaggio a Tiziano Ferro e una coinvolgente Clandestino di Manu Chao. Finito il concerto, come la loro ironica canzone Merchandise Table invita a fare: tutti al banco merchandise per lo shopping, foto di rito...e l’ultimo brindisi. (Enzo Curelli) da CLASSIC ROCK # 29 (Aprile 2015)
lunedì 11 maggio 2015
GOAT live@Latteria Molloy, Brescia, 9 Maggio 2015
venerdì 8 maggio 2015
RECENSIONE: WILLIAM ELLIOTT WHITMORE (Radium Death)
WILLIAM ELLIOTT WHITMORE
Radium Death
(ANTI)
Il giovane vecchio
I tatuaggi nascosti sotto la camicia tradiscono la gioventù passata ascoltando i dischi dei Minor Threat e i trascorsi musicali suonando in una punk rock band; lo scenario sul retro è, invece, un dipinto rurale che ritrae trattori, fattorie e i campi arati del suo Iowa.
Mai come in questo ottavo disco le due anime del trentasettenne folksinger si sono mescolate così bene: la voce allenata con i vecchi dischi di Leadbelly posati sul giradischi è sempre una lama che raschia sul vetro, sia quando le chitarre elettriche ed una full band si prendono la scena (Healing To Do, Don’t Strike Me Down), sia quando lo scarno folk blues tenuto in piedi da soli banjo e chitarra acustica riportano alle atmosfere agresti dei precedenti dischi (Have Mercy, Civilizations). Whitmore si conferma tra i più credibili narratori americani dei nostri tempi: la vicenda delle povere operaie morte intossicate a Orange (New Jersey) conosciute come “radium girls” diventa lo spunto per costruire un sorta di concept album su una delle più grandi menzogne umane della storia del Novecento.
Enzo Curelli,
7 da Classic Rock #30 (Maggio 2015)
vedi anche
RECENSIONE: SEASICK STEVE-Sonic Soul Surfer (2015)
RECENSIONE: STEVE EARLE-Terraplane (2015)
Il giovane vecchio
I tatuaggi nascosti sotto la camicia tradiscono la gioventù passata ascoltando i dischi dei Minor Threat e i trascorsi musicali suonando in una punk rock band; lo scenario sul retro è, invece, un dipinto rurale che ritrae trattori, fattorie e i campi arati del suo Iowa.
Mai come in questo ottavo disco le due anime del trentasettenne folksinger si sono mescolate così bene: la voce allenata con i vecchi dischi di Leadbelly posati sul giradischi è sempre una lama che raschia sul vetro, sia quando le chitarre elettriche ed una full band si prendono la scena (Healing To Do, Don’t Strike Me Down), sia quando lo scarno folk blues tenuto in piedi da soli banjo e chitarra acustica riportano alle atmosfere agresti dei precedenti dischi (Have Mercy, Civilizations). Whitmore si conferma tra i più credibili narratori americani dei nostri tempi: la vicenda delle povere operaie morte intossicate a Orange (New Jersey) conosciute come “radium girls” diventa lo spunto per costruire un sorta di concept album su una delle più grandi menzogne umane della storia del Novecento.
Enzo Curelli,
7 da Classic Rock #30 (Maggio 2015)
vedi anche
RECENSIONE: SEASICK STEVE-Sonic Soul Surfer (2015)
RECENSIONE: STEVE EARLE-Terraplane (2015)
martedì 5 maggio 2015
RECENSIONE/REPORT: SOCIAL DISTORTION live @ Live Club, Trezzo sull'Adda (MI), 23 Aprile 2015
Esco dal Live Club di Trezzo, stracolmo e sold out (pare), mentre un gruppetto di skin, neri o rossi non lo so-ma non ha importanza-si scaglia meschinamente su un povero malcapitato, riempendolo di pugni e calci. Cose brutte da vedere ad un concerto, soprattutto dopo aver la certezza che, stasera, la differenza l'ha fatta proprio il pubblico presente. Le stesse persone che durante Ring Of Fire di Johnny Cash, il pezzo più osannato e cantato della serata, hanno portato in trionfo la band di Mike Ness, Jonny Two Bags (chitarre), Brent Harding (basso) e del "figlio dei Los Lobos" David Hidalgo Jr. (batteria) . Mi chiedo anche quanto sia singolare e curioso che, dopo più di trent'anni di carriera, il pezzo più conosciuto rimanga una canzone che non porta la loro firma. Eppure si stava celebrando il venticinquennale di quell'album omonimo uscito nel 1990 che racchiude bene tutte le anime musicali di Mike Ness (punk, hardcore, rockabilly, blues e country) e contenente pure tanti inni come Story Of My Life e Sick Boys (sulle cui note si scatena, comunque, il finimondo). Una prima parte di concerto tirata e senza cedimenti- e senza sorprese visto che la scaletta segue l'ordine dei brani nel disco- anche se Ness sembra tenuto in piedi più dal forte carisma e un po' meno dalla voce che arriva poco. A deludere, invece, è la seconda parte di concerto, più stanca e povera di sostanza, con lo storico debutto Mommy's Little Monster incredibilmente ignorato, ma non sarà il solo: il riuscito Sex, Love And Rock'n'Roll (2004), dedicato allo scomparso Dennis Danell dov'era? L'ultimo sforzo di una discografia parsimoniosa, Hard Times And Nursey Rhymes, è invece fresco di memoria e ricordato grazie a Machine Gun Blues e Gimme The Sweet And Lowdown.
Non bastano una ben accolta Cold Feelings dal sempre sottovalutato Somewhere Between Heaven And Hell (1992) e la già citata Ring Of Fire a non far nascere alcuni dubbi su quante canzoni in più potessero essere presenti in scaletta, visto le poche date da headliner nel nostro paese nel corso degli anni. Anche se poi gioca tutto a favore dell'integrità artistica di Mike Ness: uno che non è mai sceso a compromessi con niente e nessuno. Diritto per la sua strada, anche quando decide di sacrificare le canzoni autografe a favore di cover come Wild Horses degli Stones-non roba da poco comunque-che tradisce anche le sue vere e vecchie radici musicali.
SETLIST
So Far Away/Lei It Be Me/Story Of My Life/Sick Boys/Ball And Chain/I Coulda Been Me/She's A Knockout/A Place In My Heart/Drug Train/Cold Feelings/Machine Gun Blues/Wild Horses/I Won't Run No More/99 To Life/Gimme The Sweet And Lowdown/Ring Of Fire/Don't Drag Me Down
sabato 2 maggio 2015
RECENSIONE:THERAPY? (Disquiet)
THERAPY?
Disquiet (Amazing Records)
Coerenza
Per i più distratti, i nord irlandesi Therapy? sono quelli di TROUBLEGUM (1994), album monumento dell’alternative rock anni novanta appena festeggiato in tour per il ventennale. Al massimo quelli ancora più grezzi del precedente NURSE(1992) o quelli più accessibili di INFERNAL LOVE (1995). Poi? Per molti il nulla. Invece la band di Andy Cairs e Michael McKeegan ha continuato a produrre dischi a cadenza regolare, seguendo un percorso che li ha portati a sperimentare, mostrando una libertà di movimento che ha toccato tutte le sfumature: dai dischi più melodici e rock'n'roll (SHAMELESS-2001, HIGH ANXIETY-2003) ai quelli ostici e poco penetrabili (SUICIDE PACT YOU FIRST-1999, CROOKED TIMBER-2009), il tutto senza farsi influenzare da mode musicali e lontano da qualsiasi catalogazione. Anche questo quattordicesimo album segue la filosofia di sempre.
La collaudata formazione a tre (con Neil Cooper alla batteria) sa ancora scrivere buone melodie pop (Tides) e picchiare all’occorenza (Insecurity) senza dimenticare di far pensare. Tutto convincente in quello che potrebbe essere il loro best seller del nuovo millennio. Enzo Curelli 8 da Classic Rock #29 (Aprile 2015)
vedi anche
RECENSIONE/REPORT: THERAPY? live @ Rock'n'Roll arena, Romagnano sesia (NO), 9 Novembre 2012
Coerenza
Per i più distratti, i nord irlandesi Therapy? sono quelli di TROUBLEGUM (1994), album monumento dell’alternative rock anni novanta appena festeggiato in tour per il ventennale. Al massimo quelli ancora più grezzi del precedente NURSE(1992) o quelli più accessibili di INFERNAL LOVE (1995). Poi? Per molti il nulla. Invece la band di Andy Cairs e Michael McKeegan ha continuato a produrre dischi a cadenza regolare, seguendo un percorso che li ha portati a sperimentare, mostrando una libertà di movimento che ha toccato tutte le sfumature: dai dischi più melodici e rock'n'roll (SHAMELESS-2001, HIGH ANXIETY-2003) ai quelli ostici e poco penetrabili (SUICIDE PACT YOU FIRST-1999, CROOKED TIMBER-2009), il tutto senza farsi influenzare da mode musicali e lontano da qualsiasi catalogazione. Anche questo quattordicesimo album segue la filosofia di sempre.
La collaudata formazione a tre (con Neil Cooper alla batteria) sa ancora scrivere buone melodie pop (Tides) e picchiare all’occorenza (Insecurity) senza dimenticare di far pensare. Tutto convincente in quello che potrebbe essere il loro best seller del nuovo millennio. Enzo Curelli 8 da Classic Rock #29 (Aprile 2015)
vedi anche
RECENSIONE/REPORT: THERAPY? live @ Rock'n'Roll arena, Romagnano sesia (NO), 9 Novembre 2012