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lunedì 8 dicembre 2014

RECENSIONE: BEN GLOVER (Atlantic)

BEN GLOVER  Atlantic (Carpe Vita Creative/IRD, 2014)



Se un disco lo consiglia una come Mary Gauthier, potrei finire qui e lasciarvi liberi mentre vi allacciate le scarpe e uscite di casa per fare vostro Atlantic. No niente download, please. Se poi la cantautrice lascia la sua firma su tre canzoni, nelle battenti blues Oh Soul (presente anche nel suo ultimo e splendido Trouble And Love), Too Long Gone e in Take And Pay-conflitti di interesse che piacciono-, il cantautore Rod Picott collabora alla stesura dell'apertura This World is a Dangerous Place (fuoco nell'acqua, chiodi in strada, un cane in lontananza, una bugia che ha detto qualcuno. Questo mondo è un posto pericoloso...) e la brava Gretchen Peters lascia la voce in Blackbirds e The Mississippi Turns Blue, potete uscire di casa anche scalzi. Eh sì, Ben Glover arriva al quarto album solista e ti inchioda all'ascolto con una profondità di scrittura rara ma ben definita, gelida come un'onda che sbatte sugli scogli e calda come un raggio di sole che ti punta mentre contempli le acque ferme del Mississippi. L'animo agrodolce, malinconico e vagabondo di un irlandese del nord incontra Nashville e ne escono undici canzoni atemporali da innamoramento al primo ascolto. Una geografia musicale che non ha confini. Glover vive a Nashville da alcuni anni, ma la terra natia è rimasta profondamente radicata nel cuore (Sing A Song Boys invita al ballo come fossimo in un pub festante al sabato sera) tanto che il disco è stato registrato in presa diretta nel soggiorno della sua casa a Ballytiffin sulla costa del Donegal in Irlanda (le finestre davano sull'oceano), terra che ora si mescola bene anche con le palate di umido terriccio proveniente dal Delta del Mississippi, nei luoghi (e qui aleggia il mistero) dove riposa Robert Johnson e da dove è partita l'idea per questo disco (ben raccontata in Oh Soul), che deve tanto anche ai racconti del sud romanzati da William Faulkner quanto alla forte curiosità da giramondo dell'autore, senza dimenticare la moglie americana. "La musica è una cosa sacra, e devo andare nei posti che hanno un simbolismo sacro per me, è dovere di ogni buon pellegrino!" Racconta a No Depression.
C'è un oceano di mezzo, ma Glover lo attraversa con navigata disinvoltura, senza uso di sofisticati apparecchi, a bracciate alterne, nuotando verso l'amore, schivando la morte e guardando in faccia la redenzione, Prisoner (Oh Mio Signore, Oh Mio Signore perdonami, Oh mio Signore, Io Sono Prigioniero Della Mia Storia): una voce accomodante che canta gli spigoli della vita senza imbattersi mai in spigoli musicali, arriva diritta tra il folk semplice e scheletrico di How Much Longer Can We Bend? e New Years Day, sulle piacevoli deviazioni country (True Love's Breaking My Heart a ritmo di valzer) e sul blues (Take And Pay). Un disco spoglio e di una semplicità disarmante. Basta questo poco per piacere. Come (quasi) sempre.





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