Pagine

martedì 5 agosto 2014

RECENSIONE: BILLY JOE SHAVER (Long In The Tooth)

BILLY JOE SHAVER  Long In The Tooth (Lightning Rod Records, 2014)


Manca solo il fodero con le pistole. Il ritratto fotografico in copertina, creato dal noto fotografo Jim McGuire, è così semplice, e per questo magnifico, che riesce a inquadrare tutta la vita di Billy Joe Shaver. Se non lo conoscete e la foto non vi lascia abbastanza input, potete sempre leggere la bella introduzione di Steve Earle che inizia così: "se un giorno Dio si svegliò e decise di fare di sé un cantautore, fu un mattino del 16 Agosto del 1939..." oppure alcune frasi di Bob Dylan, Kris Kristofferson, Willie Nelson e Tom T. Hall raccolte nel tempo che ne esaltano la carriera musicale, tutte presenti nel booklet come autocelebrativa garanzia di qualità, unite alle dichiarazioni di Shaver che accompagnano l'uscita " ...il miglior album che abbia mai registrato". Oppure recuperare qualche quotidiano texano della primavera del 2007 che ne racconti le gesta di spericolato pistolero intento a sistemare, a modo suo, un diverbio fuori dal Papa Joe's Texas Saloon di Lorena (Texas). Per la cronaca: venne assolto per legittima difesa dopo aver conficcato un proiettile in testa ad uno sventurato avventore che lo aveva provocato. Manca solo il fodero con le pistole. L'ho già detto. La cosa migliore, però, è ascoltare la prima traccia Hard To Be An Outlaw cantata insieme al vecchio amico Willie Nelson, canzone presente anche nel fresco disco Band Of Brothers di quest'ultimo. Metafora che usa il vecchio west per attaccare la nuova industria country americana e rivendicare con orgoglio la paternità di un certo modo di suonare e vivere la country music. Se lo dicono due leggende come loro, crediamoci e sosteniamoli. Billy Joe Shaver ha superato tutti i gradini della scala della vita, non tralasciando nemmeno quelli più insidiosi, scricchiolanti e traballanti; il suo piede è spesso inciampato, sprofondato ma ha trovato sempre il gradino successivo, tanto da arrivare a 75 anni  con lo spirito da combattente ancora vivo e pulsante. Ascoltando The Git To avrete in soli quattro minuti tutta la sua visione del mondo.
La biografia in poche e basilari tappe spiega molto: cresciuto dalla sola madre e dai nonni dopo essere stato abbandonato in fasce dal padre, giovanissimo lavora prima nei campi di cotone degli zii, poi in una segheria e proprio lì ci lascia due dita (lo stampo di quella mano monca che appare sul retro copertina è proprio il suo), dopo il servizio militare in marina si gioca la personale carta musicale trasferendosi a Nashville. Le sue canzoni piacciono così tanto da essere interpretate dai più grandi: Elvis Presley, The Allman Brothers Band, Johnny Cash. Waylon Jennings ci fa addirittura un intero disco, l'epocale Honky Tonk Heroes. Il debutto solista arriva nel 1973 con Old Five And Dimers Like Me, e da allora entrerà in quella ristretta cerchia di eroi del country fuorilegge, con la buona compagnia di Hank Williams, Waylon Jennings, Willie Nelson, Kris Kristofferson, Merle Haggard, Johnny Cash, Guy Clark, Townes Van Zandt, Steve Young, per rimanere ai più noti.
Gli anni settanta saranno caratterizzati dagli spettri di alcol e droghe fino ad una decisa conversione religiosa che gli salverà la vita e influenzerà l'attività musicale a venire che riprende a correre veloce grazie soprattutto all'aiuto del promettente figlio Eddy, fino a subire nuovamente uno stop con  l'inaspettata morte per overdose (suicidio?) di quest' ultimo, avvenuta a soli 38 anni nel capodanno del 2000 e la scomparsa della madre e della moglie nel giro di due anni. Ne sono invece passati sette dall'ultimo disco di inediti Everybody's Brother, ma ne è valsa la pena. Sembra che sia stato Todd Snider, uno dei discepoli più credibili, a spingerlo nuovamente in sala d'incisione in compagnia della Can't Hardly Playboys Session Band, composta da Dan Dugmore, Michael Rhodes, Jedd Hughes e Lynn Williams, e dei produttori Ray Kennedy e Gary Nicholson.
Long In The Tooth è un disco piacevolissimo dall'inizio alla fine, bilanciatissimo. Da una parte l'elettricità combattiva spalmata sul lento incedere di Long In The Tooth con la chitarra  di Tony Joe White e lo straniante scacciapensieri suonato da Mickey Rafael, e poi quei caratteristici honk tonk su cui ha scritto la carriera, e che gli escono come troppe noccioline in una tasca: Sunbeam Special corre sbuffando come un treno, ma indietro con la memoria, Last Call For Alcohol ospita il piano di Leon Russell e il violino di Larry Franklin, Checkers & Chess non indugia troppo per mostrare da che parte sta la sua coscenza "sto giocando a dama mentre loro giocano a scacchi/ l'uomo ricco ruba i soldi/il povero si prende la colpa".
Dall'altro lato, i mansueti segni del tempo: I'll Love You As Much As I Can e I'M In Love sono romantiche ballate d'amore che strizzano l'occhio ai '50, American Me è un border ballad da viaggio, a ritmo di valzer, una cosa alla Tom Russell con la fisarmonica di Joel Guzman ospite, mentre la finale Music City USA è un atto di fede totale verso la musica country, un cammino sicuro e totalizzante. "...tutto è iniziato in questa piccola città giù nel profondo Texas/quando ascoltò il vecchio Johnny Cash che cantava country blues/ogni sera prese la sua chitarra e iniziò a leggere riviste country..."
Disco vero, genuino e schietto come l'autore. Da playlist di fine anno (la mia s'intende). "Scrivere canzoni può essere un'esperienza straziante, ma se si scava verso il basso e si è veri e onesti si trova qualcosa di veramente grande. Credo che ognuno dovrebbe avere la possibilità di scrivere. È lo psichiatra più economico che c'è e Dio lo sa...". Parola di Billy Joe Shaver.






vedi anche RECENSIONE: GUY CLARK-My Favorite Picture Of You (2013)
vedi anche RECENSIONE: JOHNNY CASH-Out Among The Stars (2014)
vedi anche RECENSIONE: TOM PETTY and the HEARTBREAKERS-Hypnotic Eye (2014)

Nessun commento:

Posta un commento