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lunedì 24 marzo 2014

RECENSIONE: JOHNNY CASH (Out Among The Stars)

JOHNNY CASH  Out Among The Stars (Columbia/Legacy, 2014)


L'uomo in nero sbiadito che si presenta agli albori degli anni ottanta è un Johnny Cash che stava precipitando ancora in disgrazia: inciampa nuovamente nelle rovine della bulimica dipendenza da sostanze chimiche, confermando che tra gli inarrivabili alti vi erano ancora i tanti profondi abissi che lo accompagnarono lungo tutta la carriera, tanto che la famiglia lo convinse persino al ricovero presso la clinica di riabilitazione Betty Ford Center a cavallo tra il 1983 e il 1984. Lui ne uscì quasi rinato. Non solo, l'allontanamento di Marshall Grant, da trent'anni fedele compagno musicale come bassista nei Tennessee Three, lascerà tanti strascichi personali ma anche legali. In più: i tanti problemi fisici che il suo corpo deve sopportare-incidenti vari, ricoveri e operazioni sembrano diventare routine quasi giornaliera nella sua vita- e non ultima una scampata rapina nel 1981 dipingono nell'insieme un quadro non propriamente esaltante attorno ad un uomo che dietro gli abiti neri pareva nascondere nefaste striature che solo la sua smisurata fede in Dio riusciva a raddrizzare, mitigare e spiegare.
Nonostante tutto, alcuni dischi dell'epoca come Silver (1979), Rockabilly Blues (1980), e soprattutto Johnny 99 (1983), un primo vero anticipo delle American Recordings che arriveranno dieci anni dopo e costruito frugando tra il bianco e il nero contenuti in Nebraska di Bruce Springsteen, sono piccole perle degne dei tempi migliori, quanto meno il segnale che l'allora cinquantenne artista era ancora vivo e vegeto (gli occhi della morte, in quegli anni, lo avevano puntato più volte). Quello che mancò veramente fu il grande pubblico. Johnny Cash non era più l'eroe di vent'anni prima, la casa discografica sembrava averlo abbondonato al suo destino con poco rispetto, le sue trasmissioni televisive non avevano più i numeri di un tempo, MTV stava prendendo le sembianze di un uragano spazza tutto (pure Cash ci cascò nel terribile ma ironico video di Chicken In Black del 1984), altri personaggi, altri suoni e altra musica catalizzavano l'attenzione, e nemmeno l'unione delle forze fra vecchi "eroi" e "sopravvissuti" riuscì nell'intento di riportare in auge certe sonorità e antichi fuorilegge: prima, nel 1981 con i concerti insieme a Jerry Lee Lewis e Carl Perkins che diventeranno un disco, poi il più riuscito progetto Highwaymen con Willie Nelson, Waylon Jennings e Kris Kristofferson nel 1985, che fu bissato qualche anno dopo e molto probabilmente sarà triplicato prossimamente, stando alle voci (naturalmente senza le insostituibili pedine Cash e Jennings, ma con un Merle Haggard della partita) .
Il ritrovamento di questo "disco perduto" per mano del figlio John Carter Cash, ci dimostra quanto, a undici anni dalla morte, la musica di Jonny Cash riesca ancora a catalizzare l'attenzione, accendere gli animi e far sanguinare i cuori. Sembra l'uscita di un artista ancora in vita. Altro che anni ottanta. Le dodici canzoni furono registrate tra il 1981 (solo due escono dalle session del deludente The Baron negli studi Columbia) e il 1984-la maggioranza con un Cash ripulito e brillante- lavorato insieme al produttore Billy Sherrill, e musicisti quali l'allora giovanissimo Marty Stuart (alla chitarra e al mandolino), Jerry Kennedy (chitarra), Pete Drake (steel guitar), Hargus "Pig" Robbins, Bobby Wood (pianoforte), Kenny Malone (batteria), Terry McMillan (armonica) e Henry Strzelecki (basso), a cui è stata aggiunta una pennellata di moderna post produzione da parte di Steve Berkowitz che ha visto coinvolti in studio lo stesso Marty Stuart, il grande Buddy Miller, Jerry Douglas, Laura Cash, Carlene Carter e molti altri. Canzoni che vanno a tappare un piccolo buco della sua carriera artistica, dimostrando quanto i brani che all'epoca furono messi in stand-by e dimenticati chissà dove dopo la brutta rottura con l'etichetta Columbia avvenuta dopo trent'anni di collaborazione, ora, nell'anno 2014, sono una benedizione dal cielo. Indispensabili per riconnetterci con il personaggio-anche un po' influenzati dall'effetto nostalgico e di deja vu in cui ci fanno cadere, ammettiamolo-e ridare una nuova pennellata di nero ai suoi abiti.
Pur se l'inconfondibile imprinting dato all'epoca dal produttore Billy Sherrill è ancora percettibile, nonostante sia stato anche smussato in post-produzione, in queste dodici canzoni, (tutte riletture tranne due autografe) c'è tutto l'universo di Cash. Il classic country di Out Among The Stars, Tennessee, la sua Call Your Mother, il talkin' che cresce If I Told You Who It Was con un cameo dell'attrice Minnie Pearl; i celeberrimi duetti con l'adorata moglie June Carter nella veloce, rutilante e riuscitissima Baby Ride Easy di Richard Dobsone e in Don't You Think our Time Will Come; c'è il Johnny Cash esistenzialista e solitario vicino alle American Recodings di Rick Rubin in She Used To Love Me A Lot (già incisa dal suo autore David Allan Coe), anche se sembra di averla ascoltata mille volte all'interno della sua sconfinata discografia, la profonda voce arriva diritta al cuore con tutta la forza per diventare un nuovo classico da ricordare, la canzone è pure uscita come singolo in vinile, presentando, nella facciata B, un remix curato da Elvis Costello; c'è l'indomito animo rock della vecchia Memphis in Rock And Roll Shoes, quello polveroso e da strada in I'm Movin On di Hank Snow, canzone che non ha bisogno di troppe presentazioni se non dire che qui è cantata con l'amico Waylon Jennings e che il solo di chitarra sembra tagliato troppo in fretta nel finale; c'è l'amore, l'immancabile fede e la redenzione in After All e l'atuobiografica I Came To Believe. "Sono arrivato a credere ad un potere molto superiore a me".
Quando escono dischi come questo, ci si chiede spesso: ce n'era bisogno? Sì, è la mia risposta, tanto che le stanche rughe che appaiono nel video di Hurt (2002), una delle ultime testimonianze pubbliche in video di Cash prima di morire, sembrano dissolversi lasciando spazio ad un acciaccato ma ancora baldanzoso cinquantenne di nero vestito. Un nero luccicante.




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