ALESSANDRO BATTISTINI Cosmic Sessions (Club De Musique/IRD, 2014)
Un "out on the weekend" lontano dalla sua band madre che negli ultimi tre anni lo ha tenuto impegnato e continua a farlo. Mentre scrivo, i Mojo Filter sono occupati in un piccolo tour in Germania, "il tour è andato molto bene, abbiamo conosciuto gente che apprezza il rock and roll e che non ha paura di fare km su km per sentire un concerto", arrivando a guadagnarsi una vistosa e continua crescita esponenziale nel panorama rock italiano, confermata dall'ultimo, ottimo disco in studio The Roadkill Songs (2013). Cosmic Sessions è un viaggio introspettivo dentro al suo, ma anche un po' nostro, mondo. Una bizzarra nave/mongolfiera (bella la cover art, opera di Zeppelin Studio) che, piuttosto che solcare mari, sembra alzarsi in aria permettendo uno sguardo a 360 gradi sopra alle sue passioni musicali, quelle che confluiscono molto spesso in un'unica direzione temporale: la California a cavallo tra gli anni 60 e i 70, posto ancora carico di suggestioni a distanza di anni e nonostante la tecnologia di mezzo a fare da ostacolo. Stacca spesso l'amplificazione delle chitarre, quelle che graffiano nei Mojo Filter, si spoglia di ogni orpello elettrico, si circonda di buoni e anche prestigiosi amici, scruta l'infinito spazio e mette in moto la fantasia: "Antonio Gramentieri (Sacri Cuori) aveva già collaborato con i Mojo Filter e si è offerto di suonare una parte di chitarra in 'Wise Rabbit' e devo dire che sono felicissimo che l’abbia fatto… è un artista che ammiro molto e che ha grande gusto e talento, ha saputo riconoscere e enfatizzare il lato acido e vintage di 'Wise Rabbit'. John Egenes e Craig Dreyer sono due grandi musicisti con un curriculum infinito e decisamente all’altezza della loro fama: mi è piaciuto molto lavorare con loro, adoro il solo di sax di Craig alla fine di 'Wise Rabbit', sembra che si spalanchino le porte dell’inferno… è l’ira del coniglio saggio!! … John, invece, ha reso speciali 'All Of Those Rainy Days' e 'Nothing More To Say' … molto di più di quello che mi aspettavo"
Alessandro Battistini, chitarra e voce dei comaschi Mojo Filter rilascia il primo disco solista in modo semplice e spontaneo, registrando il tutto come fosse una session tra vecchi amici intorno ad un falò estivo a tarda notte sotto le luci guida di luna e stelle; ma il filo luminoso che lega le dieci canzoni riesce a trasmettere in modo chiaro la scossa che anima la sua devota passione musicale. "Appartengono in effetti più o meno tutte allo stesso periodo… all’incirca Dicembre 2013… all’improvviso ho sentito che era il momento di assecondare una parte di me e della mia creatività a cui non avevo mai dato il giusto peso e, quando mi sono messo a scrivere, le canzoni sono uscite in blocco… chissà forse sono sempre state lì ad attendere…"
Dondolanti barrelhouse songs (Staring At Your Splendor con il pianoforte di Simone Spreafico), corali e ruzzolanti bluegrass con la sarabanda di un banjo in azione (Fill My World), country accomodanti e rassicuranti sotto le pigre note di una pedal steel come succede in All Of Those Rainy Days e dove anche la "povera" semplicità di Home, che suona tanto scarna con la sola presenza di un ukulele, si arricchisce all'infinito grazie alla voce pregna di soul dell'ospite Jono Manson, cantautore (è appena uscito il suo nuovo album Angels On The Other Side-vedi recensione) e produttore americano-di casa in Italia e già collaboratore degli stessi Mojo Filter- che si è portato il lavoro a casa, masterizzando il tutto nei suoi magici studi di Santa Fe nel New Mexico. "In questo disco Jono si è occupato della masterizzazione (impeccabile come sempre), mentre in ‘Mrs.Love Revolution’ aveva fatto anche il mix. Jono poi mi ha regalato un’interpretazione fantastica di 'Home', uno dei pezzi del disco a cui tengo di più".
Ma anche l'antico rhythm & blues di Rufus Thomas in Walking A Dog (unica cover ed episodio più terroso del disco), la soffice e leggera apertura Nothing More To Say che sale fino ad esplodere in un gospel nel finale (i cori sono di Francesca Arrigoni), la spensierata chiusura con il fischiettio di Xmas Time's Outside My Door, i momenti più psichedelici (Wise Rabbit) e rarefatti nella connessione con il paradiso tentata nella splendida The Inner Side e portata avanti da un Rhodes e dalle percussioni incantatrici suonate da Mr.Lobo Jim. Disco corto ma intenso, che va diritto al punto, anche quando l'approccio assolutamente "free" delle canzoni porterebbe a pensare il contrario, e immaginare lunghe parti strumentali e minutaggi elevati :"Cosmic Sessions, come dice lo stesso titolo, si rifà a un certo approccio sixties molto jam che ho sempre adorato, ma è comunque anche un tentativo di rendere quello spirito più attuale e diretto. Nei live, tuttavia, avremo sicuramente modo e voglia (molta) di approfondire quelle parti strumentali…quelle che, se riescono, rendono ogni gig speciale e unica".
vedi anche INTERVISTA MOJO FILTER
vedi anche RECENSIONE: MOJO FILTER-The Roadkill Songs (2013)
vedi anche RECENSIONE: TAG MY TOE-This Fear That Clouds Our Minds (2012)
vedi anche RECENSIONE: THOMAS GUIDUCCI & THE B-FOLK GUYS-The Heart And The Black Spider (2012)
vedi anche RECENSIONE: LUCA MILANI-Lost For Rock'n'Roll (2013)
vedi anche RECENSIONE: LUCA ROVINI-Avanzi e Guai (2013)
vedi anche RECENSIONE: CESARE CARUGI-Pontchartrain (2013)
vedi anche RECENSIONE/INTERVISTA: TEX MEX-Hang Loose, Tex Mex! (2014)
vedi anche RECENSIONE: ANDI ALMQVIST-Warsaw Holiday (2013)
vedi anche RECENSIONE: DAVID CROSBY-Croz (2014)
vedi anche RECENSIONE: BOCEPHUS KING-Amarcord (2014)
vedi anche RECENSIONE: JONO MANSON-Angels On The Other Side (2014)
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giovedì 27 febbraio 2014
martedì 25 febbraio 2014
RECENSIONE: BOCEPHUS KING (Amarcord)
BOCEPHUS KING Amarcord (Appaloosa Records/IRD, 2014)
Un passaporto alla cui scritta "segni particolari" segue un "cittadino del mondo libero". James Perry in arte Bochephus King, nomignolo scelto senza un vero perché dopo essere stato a Nashville, è uno spirito senza dimora che ha inseguito-sta ancora inseguendo-il suo sogno musicale, lo stesso sogno che da bambino lo portava a dire "volevo essere un detective o un predicatore". Oggi che gli anni sono diventati quelli della saggezza, essere un musicista è l'unico modo in cui riesce realisticamente a conciliare gli aspetti più importanti di quei due lavori, almeno nella sua testa, come racconta nello splendido libretto che accompagna il Cd e che l'italiana Appaloosa Records ha preparato per presentare nel migliore dei modi, al pubblico italiano, un cantautore totalmente fuori dagli schemi ma meritevole di tutte le attenzioni possibili. Testi tradotti in italiano, uno scritto di presentazione preparato dall'amico Andrea Parodi e un'autopresentazione scritta di suo pugno ci introducono nel suo personale, strano, istrionico e ricco mondo, ma non bastano a contenerlo tutto fino a quando non partono le note dell'iniziale On The Allelujiah Side, canzone presa dal primo disco Joco Music del 1996, registrato nella casa di famiglia in Canada, con pochi mezzi e tanti sogni in tasca. Da qui in avanti si capisce di più, e fidatevi, dopo il primo ascolto riiniziare da capo viene naturale. Buon viaggio. Un percorso a sedici tappe che attraversa una carriera che sembra aver camminato sempre in quelle zone franche e poco battute nascoste dietro alla curiosità musicale, l'esplorazione, la genuinità: quelle vie che dal nativo Canada portano agli States, alle terre del sud, e poi all'Europa, quelle periferie buie e pericolose ai margini della città, quei paesi costruiti lontano dall'umanità conformista, quelle spiagge libere e abbandonate dove girare nudi non è reato ma solo libertà. Bochepus King riesce a camminare nello stesso lato del marciapiede calpestato dal primo romantico e sognatore Tom Waits, per poi fermarsi in un diner e osservare il calare della sera e i passi delle persone; raccogliere gli umori gipsy di un Willy De Wille sotto il falò di un accampamento nomade; scannerizzare il lato desolante dell'America (Cowboy Neal e Willie Dixon God Damn dal suo ultimo album in studio Willie Dixon God Damn uscito nel 2011) come farebbero solo Townes Van Zandt, John Prine e Steve Earle o i grandi scrittori della beat generation, guidando sopra ud un van e girando in lungo ed in largo i grandi spazi; far brillare le desertiche allucinazioni alla Calexico come succede nella splendida Blues For Buddy Bolden, uno dei suoi tanti picchi artistici; condividere tutto l'amore per il cinema italiano di Fellini e le colonne sonore di Morricone (da qui Amarcord per il titolo dell'antologia) in una Eight And Half che si insinua tra pazzia e libertà, ma anche cercare tra gli anfratti del presente quei modernismi-comunque moderati-presentati in Goodnight Forever Montgomery Clift e Jesus The Bookie estrapolati dall' album All Children Believe In Heaven, che ci mostrano anche il suo lato più soul e gospel.
Bocephus King è tutto questo e molto di più: dentro ai suoi testi carichi di immagini, visioni e quel velo di mistero che sempre affascina e incuriosisce, c'è la vita.
Fino ad arrivare ad una splendida e originale versione di Senor, estrapolata da Street Legal, disco di Dylan che adoro in tutto e per tutto e che lo stesso Bochephus dice di aver risuonato per intero in compagnia di un manipolo di musicisti indiani conosciuti per caso in un locale. Dylan è il suo idolo da sempre e prima o poi farà uscire il suo personale omaggio, come già fa nei suoi comunicativi concerti.
vedi anche RECENSIONE: BAP KENNEDY-Let's Start Again (2014)
vedi anche RECENSIONE: ANDI ALMQVIST-Warsaw Holiday (2014)
Un passaporto alla cui scritta "segni particolari" segue un "cittadino del mondo libero". James Perry in arte Bochephus King, nomignolo scelto senza un vero perché dopo essere stato a Nashville, è uno spirito senza dimora che ha inseguito-sta ancora inseguendo-il suo sogno musicale, lo stesso sogno che da bambino lo portava a dire "volevo essere un detective o un predicatore". Oggi che gli anni sono diventati quelli della saggezza, essere un musicista è l'unico modo in cui riesce realisticamente a conciliare gli aspetti più importanti di quei due lavori, almeno nella sua testa, come racconta nello splendido libretto che accompagna il Cd e che l'italiana Appaloosa Records ha preparato per presentare nel migliore dei modi, al pubblico italiano, un cantautore totalmente fuori dagli schemi ma meritevole di tutte le attenzioni possibili. Testi tradotti in italiano, uno scritto di presentazione preparato dall'amico Andrea Parodi e un'autopresentazione scritta di suo pugno ci introducono nel suo personale, strano, istrionico e ricco mondo, ma non bastano a contenerlo tutto fino a quando non partono le note dell'iniziale On The Allelujiah Side, canzone presa dal primo disco Joco Music del 1996, registrato nella casa di famiglia in Canada, con pochi mezzi e tanti sogni in tasca. Da qui in avanti si capisce di più, e fidatevi, dopo il primo ascolto riiniziare da capo viene naturale. Buon viaggio. Un percorso a sedici tappe che attraversa una carriera che sembra aver camminato sempre in quelle zone franche e poco battute nascoste dietro alla curiosità musicale, l'esplorazione, la genuinità: quelle vie che dal nativo Canada portano agli States, alle terre del sud, e poi all'Europa, quelle periferie buie e pericolose ai margini della città, quei paesi costruiti lontano dall'umanità conformista, quelle spiagge libere e abbandonate dove girare nudi non è reato ma solo libertà. Bochepus King riesce a camminare nello stesso lato del marciapiede calpestato dal primo romantico e sognatore Tom Waits, per poi fermarsi in un diner e osservare il calare della sera e i passi delle persone; raccogliere gli umori gipsy di un Willy De Wille sotto il falò di un accampamento nomade; scannerizzare il lato desolante dell'America (Cowboy Neal e Willie Dixon God Damn dal suo ultimo album in studio Willie Dixon God Damn uscito nel 2011) come farebbero solo Townes Van Zandt, John Prine e Steve Earle o i grandi scrittori della beat generation, guidando sopra ud un van e girando in lungo ed in largo i grandi spazi; far brillare le desertiche allucinazioni alla Calexico come succede nella splendida Blues For Buddy Bolden, uno dei suoi tanti picchi artistici; condividere tutto l'amore per il cinema italiano di Fellini e le colonne sonore di Morricone (da qui Amarcord per il titolo dell'antologia) in una Eight And Half che si insinua tra pazzia e libertà, ma anche cercare tra gli anfratti del presente quei modernismi-comunque moderati-presentati in Goodnight Forever Montgomery Clift e Jesus The Bookie estrapolati dall' album All Children Believe In Heaven, che ci mostrano anche il suo lato più soul e gospel.
Bocephus King è tutto questo e molto di più: dentro ai suoi testi carichi di immagini, visioni e quel velo di mistero che sempre affascina e incuriosisce, c'è la vita.
Fino ad arrivare ad una splendida e originale versione di Senor, estrapolata da Street Legal, disco di Dylan che adoro in tutto e per tutto e che lo stesso Bochephus dice di aver risuonato per intero in compagnia di un manipolo di musicisti indiani conosciuti per caso in un locale. Dylan è il suo idolo da sempre e prima o poi farà uscire il suo personale omaggio, come già fa nei suoi comunicativi concerti.
vedi anche RECENSIONE: BAP KENNEDY-Let's Start Again (2014)
vedi anche RECENSIONE: ANDI ALMQVIST-Warsaw Holiday (2014)
mercoledì 19 febbraio 2014
RECENSIONE: EUGENIO FINARDI (Fibrillante)
EUGENIO FINARDI Fibrillante (Universal Music, 2014)
Nella bellissima autobiografia Spostare L'orizzonte (consigliata) uscita tre anni fa e scritta a quattro mani con Antonio G.D'Errico ci sono molti passi che anticipano almeno la metà dei testi contenuti nei dieci brani del suo nuovo album Fibrillante tanto da farci capire quanto Finardi sia coerente con se stesso, con i suoi inizi, con la sua storia, anche dopo le tante parentesi aperte sul pianeta musica negli ultimi anni: dalla musica sacra alla classica, fino al bellissimo Anima Blues (speravo nella seconda parte, ma ci sarà tempo), uno dei suoi picchi artistici di sempre, da avere assolutamente. Un esilio autoimposto, una fuga dal personaggio che, a suo dire, si era creato con il tempo, tanto da diventare "una condanna, privilegiata, una sorta di arresti domiciliari di me stesso...dovevo uscire..." dice Finardi.
Fibrillante, titolo dell'album-e della canzone-preso in prestito, suo malgrado, dalla fibrillazione atriale a cui è soggetto a causa di un problema di ipertiroidismo, è un ritorno al cantautore che dava battaglia negli anni settanta, uno dei primissimi esempi di cantautorato rock del nostro paese. L'ingenua voglia di cambiare il mondo dettata dalla gioventù si è trasformata in resistenza che solo distrattamente si potrebbe confondere con la rassegnazione di un uomo che ci ha sempre creduto e combatte ancora o cerca di farlo, in altri modi, anche urlando, cercando qualcuno che lo ascolti come canta in Come Savonarola: "so che ti faccio soffrire con le mie facce scure e la mia negatività/Ma devo solo ritrovare un nuovo modo di lottare per la nostra dignità/E una vita che sia umana più libera e più sana di giustizia e verità". Lotta che continua nella dura Cadere Sognare, con la partecipazione di Manuel Agnelli (Afterhours)-che Finardi proclamò suo erede-, un inno di ribellione alla conformità, agli sporchi giochi, una sorta di "non mi avrete mai come volete voi", un inno alla ribellione in questi anni zero (leggasi: zero uguale a vuoto). Una generazione che sembra aver perso, o perlomeno non aver vinto, ma che continua a sperare, aspettando: "ho bisogno di rispetto, di pace e tranquillità del calore di un affetto e di un po' di serenità di avere un ruolo e un posto nella società e sicurezza nel futuro " canta nell'apertura Aspettando, ma c'è anche chi non prende posizione, non rischia mai (Moderato) e rimane immobile, ingessato mentre tutto scorre e corre intorno a lui. "Muoviti, sbattiti, sbrigati, dai, lavora ancora un po'. Io mi ammazzo di fatica , e tu invece no"
Con un piede nei suoni seventies garantiti da ospiti come Patrizio Fariselli (Area) e Vittorio Cosma (ex PFM) ed uno nel presente assicurato dalla collaborazione con i Perturbazione, Manuel Agnelli e Max Casacci dei Subsonica, produttore e tuttofare, Fibrillante è un disco di una onestà disarmante che a tratti diventa fin troppo schietto e puro, calato perfettamente nel mondo odierno, trattando temi d'attualità anche con durezza, senza scorciatoie e giri di parole, preferendo la descrizione della scarna quotidianità creando quadretti di cronaca quotidiana come nella commovente La Storia Di Franco, disavventure di un padre separato senza più un tetto, costretto a vivere come un'ombra invisibile pur di vedere l'unico amore della sua vita, la figlia: "lei pensa che sono in Africa a combattere la povertà, infatti la combatto ma la mia Africa è qua" . Quanti uomini si ritroveranno in Franco?
O raccontando la forza e la superiorità delle donne (Lei S'illumina dedicata alla moglie e alla madre), Le Donne Piangono In Macchina, ballata pianistica che conferma Finardi come uno dei più delicati e attenti cantautori dell'universo femminile.
Non tutto è perfetto e la finale Me Ne Vado costruita su un tappeto quasi improvvisato di free prog guidato magistralmente da Patrizio Fariselli vede Finardi recitare un testo di finanza quasi fossero i titoli di un telegiornale con il rischio di cadere nella retorica più spiccia. Una pretenziosa lezione di economia che pare eccessiva in un disco tanto onesto e diretto. Da ascoltare assolutamente.
vedi anche EUGENIO FINARDI: gli anni '70
vedi anche: FRANCESCO DE GREGORI-Sulla Strada (2012)
vedi anche RECENSIONE: DAVID CROSBY-Croz (2014)
vedi anche RECENSIONE: ANDI ALMQVIST-Warsaw Holiday (2014)
Nella bellissima autobiografia Spostare L'orizzonte (consigliata) uscita tre anni fa e scritta a quattro mani con Antonio G.D'Errico ci sono molti passi che anticipano almeno la metà dei testi contenuti nei dieci brani del suo nuovo album Fibrillante tanto da farci capire quanto Finardi sia coerente con se stesso, con i suoi inizi, con la sua storia, anche dopo le tante parentesi aperte sul pianeta musica negli ultimi anni: dalla musica sacra alla classica, fino al bellissimo Anima Blues (speravo nella seconda parte, ma ci sarà tempo), uno dei suoi picchi artistici di sempre, da avere assolutamente. Un esilio autoimposto, una fuga dal personaggio che, a suo dire, si era creato con il tempo, tanto da diventare "una condanna, privilegiata, una sorta di arresti domiciliari di me stesso...dovevo uscire..." dice Finardi.
Fibrillante, titolo dell'album-e della canzone-preso in prestito, suo malgrado, dalla fibrillazione atriale a cui è soggetto a causa di un problema di ipertiroidismo, è un ritorno al cantautore che dava battaglia negli anni settanta, uno dei primissimi esempi di cantautorato rock del nostro paese. L'ingenua voglia di cambiare il mondo dettata dalla gioventù si è trasformata in resistenza che solo distrattamente si potrebbe confondere con la rassegnazione di un uomo che ci ha sempre creduto e combatte ancora o cerca di farlo, in altri modi, anche urlando, cercando qualcuno che lo ascolti come canta in Come Savonarola: "so che ti faccio soffrire con le mie facce scure e la mia negatività/Ma devo solo ritrovare un nuovo modo di lottare per la nostra dignità/E una vita che sia umana più libera e più sana di giustizia e verità". Lotta che continua nella dura Cadere Sognare, con la partecipazione di Manuel Agnelli (Afterhours)-che Finardi proclamò suo erede-, un inno di ribellione alla conformità, agli sporchi giochi, una sorta di "non mi avrete mai come volete voi", un inno alla ribellione in questi anni zero (leggasi: zero uguale a vuoto). Una generazione che sembra aver perso, o perlomeno non aver vinto, ma che continua a sperare, aspettando: "ho bisogno di rispetto, di pace e tranquillità del calore di un affetto e di un po' di serenità di avere un ruolo e un posto nella società e sicurezza nel futuro " canta nell'apertura Aspettando, ma c'è anche chi non prende posizione, non rischia mai (Moderato) e rimane immobile, ingessato mentre tutto scorre e corre intorno a lui. "Muoviti, sbattiti, sbrigati, dai, lavora ancora un po'. Io mi ammazzo di fatica , e tu invece no"
Con un piede nei suoni seventies garantiti da ospiti come Patrizio Fariselli (Area) e Vittorio Cosma (ex PFM) ed uno nel presente assicurato dalla collaborazione con i Perturbazione, Manuel Agnelli e Max Casacci dei Subsonica, produttore e tuttofare, Fibrillante è un disco di una onestà disarmante che a tratti diventa fin troppo schietto e puro, calato perfettamente nel mondo odierno, trattando temi d'attualità anche con durezza, senza scorciatoie e giri di parole, preferendo la descrizione della scarna quotidianità creando quadretti di cronaca quotidiana come nella commovente La Storia Di Franco, disavventure di un padre separato senza più un tetto, costretto a vivere come un'ombra invisibile pur di vedere l'unico amore della sua vita, la figlia: "lei pensa che sono in Africa a combattere la povertà, infatti la combatto ma la mia Africa è qua" . Quanti uomini si ritroveranno in Franco?
O raccontando la forza e la superiorità delle donne (Lei S'illumina dedicata alla moglie e alla madre), Le Donne Piangono In Macchina, ballata pianistica che conferma Finardi come uno dei più delicati e attenti cantautori dell'universo femminile.
Non tutto è perfetto e la finale Me Ne Vado costruita su un tappeto quasi improvvisato di free prog guidato magistralmente da Patrizio Fariselli vede Finardi recitare un testo di finanza quasi fossero i titoli di un telegiornale con il rischio di cadere nella retorica più spiccia. Una pretenziosa lezione di economia che pare eccessiva in un disco tanto onesto e diretto. Da ascoltare assolutamente.
vedi anche EUGENIO FINARDI: gli anni '70
vedi anche: FRANCESCO DE GREGORI-Sulla Strada (2012)
vedi anche RECENSIONE: DAVID CROSBY-Croz (2014)
vedi anche RECENSIONE: ANDI ALMQVIST-Warsaw Holiday (2014)
lunedì 10 febbraio 2014
RECENSIONE: ANDI ALMQVIST (Warsaw Holiday)
ANDI ALMQVIST Warsaw Holiday (Rootsy/IRD, 2013)
Warsaw Holiday, quarto lavoro in studio del cantautore svedese Andi Almqvist, ha quel raro dono concesso solo a pochi dischi: sa graffiare le ossa fin dal primo ascolto. O lo ami o lo detesti. Non lascia indifferenti. Quasi disturba. Lascia quei brividi che potrebbero essere generati da una lama che scalfisce l'osso. Sveglia gli incubi funesti assiepati tra gli alti (pochi e preziosi) e i bassi (tanti ma forse neppure inutili) della vita . Merito di una voce greve e bellissima, nera e paludosa con l'abissale profondità appartenente a Mark Lanegan, e la forza disperata di un songwriting cupo e darkeggiante che si aggrappa alla vita attraverso sottilissimi e delicati fili, spesso talmente assurdo, cinico, sbeffeggiante da diventare anche umoristico e dissacrante quanto il migliore Nick Cave di inizio carriera, dove vita e morte sembrano danzare sull'ultimo valzer concesso ai bordi del precipizio che porta direttamente alla fine del mondo. Il tutto accompagnato da un folk scarno (No More Songs For You), dal blues minimale ma corale tenuto insieme da un Hammond sullo stile Al Kooper nei dischi di Dylan (No) e da lente e inquietanti ballate pianistiche dal color bianco e nero, intrise di pathos funereo come l'iniziale e ululante Worwood, o la stupenda e cinematografica Pornography così carica di immagini d'effetto, o meglio ancora la malinconica intensità di In The Land Of Slumber con un violoncello a tessere ragnatele sulla lunga profondità. Un disco che incuriosisce fin dalla copertina (no, non è Almqvist quello) che ritrae un personaggio bizzarro e "vissuto" che Almqvist ha conosciuto in una piccola cittadina della Repubblica Ceca. A lui è dedicato il disco e nel libretto troverete solo sue foto ed uno speciale invito a pagargli una birra se mai capiterete dalle sue parti: lui si chiama Vaclav, il paese è Český Krumlov, è lì è un personaggio ben voluto da tutti, soprannominato "el presidente".
Oh La La (con una "o" in meno dei Faces) gira intorno ad un cupo e prepotente giro di blues che esalta l'alienazione tanto da farmi materializzare davanti agli occhi il fantasma di Layne Staley e gli Alice In Chains unplugged arricchiti da uno straniante sax, canzone che viene ripetuta in una versione full band. Unica vera concessione al rock del disco.
Kinski (già presentata in versione live-insieme ad un paio di altri brani-nel suo precedente disco dal vivo The Misadventures Of Andi Almqvist uscito nel 2011) ha l'andatura sbilenca, folle, felliniana e clownesca del Tom Waits di metà carriera, Happy End è una stridente preghiera acustica per sola voce (ecco il paragone con Mark Lanegan che si materializza), chitarra e violino da recitare ai bordi della fossa, quando l'ultimo respiro affannoso uscirà dalle labbra, gli occhi spalancati saranno coperti dalla terra e le orecchie sentiranno solo il rumore della pala di un becchino in azione. Addio. Mentre la title track Warsaw Holiday si dipana sinuosa e sinistra sulle note di un Fender Rhodes suonato da dita decise, Insomnia promette nottate senza chiuder occhio con un inquietante e paranoico coro fanciullesco (un crescente lalalala) ed un carillon a dettare i secondi. Insomma c'è poco da stare allegri con Almqvist in circolazione. Svegliate i vostri incubi e mettete a riposo i bambini.
Anche se uscito nel 2013, Warsaw Holiday è una delle migliori folgorazioni di questo mio inizio anno. Spengo la luce e ascolto il mio gravedigger che sposta la terra.
vedi anche RECENSIONE: CHET O'KEEFE-Because Of You (2013)
vedi anche RECENSIONE: BAP KENNEDY- Le's Start Again (2014)
vedi anche RECENSIONE: DAVID CROSBY-Croz (2014)
vedi anche RECENSIONE: JOHNNY CASH-Out Among The Stars (2014)
Warsaw Holiday, quarto lavoro in studio del cantautore svedese Andi Almqvist, ha quel raro dono concesso solo a pochi dischi: sa graffiare le ossa fin dal primo ascolto. O lo ami o lo detesti. Non lascia indifferenti. Quasi disturba. Lascia quei brividi che potrebbero essere generati da una lama che scalfisce l'osso. Sveglia gli incubi funesti assiepati tra gli alti (pochi e preziosi) e i bassi (tanti ma forse neppure inutili) della vita . Merito di una voce greve e bellissima, nera e paludosa con l'abissale profondità appartenente a Mark Lanegan, e la forza disperata di un songwriting cupo e darkeggiante che si aggrappa alla vita attraverso sottilissimi e delicati fili, spesso talmente assurdo, cinico, sbeffeggiante da diventare anche umoristico e dissacrante quanto il migliore Nick Cave di inizio carriera, dove vita e morte sembrano danzare sull'ultimo valzer concesso ai bordi del precipizio che porta direttamente alla fine del mondo. Il tutto accompagnato da un folk scarno (No More Songs For You), dal blues minimale ma corale tenuto insieme da un Hammond sullo stile Al Kooper nei dischi di Dylan (No) e da lente e inquietanti ballate pianistiche dal color bianco e nero, intrise di pathos funereo come l'iniziale e ululante Worwood, o la stupenda e cinematografica Pornography così carica di immagini d'effetto, o meglio ancora la malinconica intensità di In The Land Of Slumber con un violoncello a tessere ragnatele sulla lunga profondità. Un disco che incuriosisce fin dalla copertina (no, non è Almqvist quello) che ritrae un personaggio bizzarro e "vissuto" che Almqvist ha conosciuto in una piccola cittadina della Repubblica Ceca. A lui è dedicato il disco e nel libretto troverete solo sue foto ed uno speciale invito a pagargli una birra se mai capiterete dalle sue parti: lui si chiama Vaclav, il paese è Český Krumlov, è lì è un personaggio ben voluto da tutti, soprannominato "el presidente".
Oh La La (con una "o" in meno dei Faces) gira intorno ad un cupo e prepotente giro di blues che esalta l'alienazione tanto da farmi materializzare davanti agli occhi il fantasma di Layne Staley e gli Alice In Chains unplugged arricchiti da uno straniante sax, canzone che viene ripetuta in una versione full band. Unica vera concessione al rock del disco.
Kinski (già presentata in versione live-insieme ad un paio di altri brani-nel suo precedente disco dal vivo The Misadventures Of Andi Almqvist uscito nel 2011) ha l'andatura sbilenca, folle, felliniana e clownesca del Tom Waits di metà carriera, Happy End è una stridente preghiera acustica per sola voce (ecco il paragone con Mark Lanegan che si materializza), chitarra e violino da recitare ai bordi della fossa, quando l'ultimo respiro affannoso uscirà dalle labbra, gli occhi spalancati saranno coperti dalla terra e le orecchie sentiranno solo il rumore della pala di un becchino in azione. Addio. Mentre la title track Warsaw Holiday si dipana sinuosa e sinistra sulle note di un Fender Rhodes suonato da dita decise, Insomnia promette nottate senza chiuder occhio con un inquietante e paranoico coro fanciullesco (un crescente lalalala) ed un carillon a dettare i secondi. Insomma c'è poco da stare allegri con Almqvist in circolazione. Svegliate i vostri incubi e mettete a riposo i bambini.
Anche se uscito nel 2013, Warsaw Holiday è una delle migliori folgorazioni di questo mio inizio anno. Spengo la luce e ascolto il mio gravedigger che sposta la terra.
vedi anche RECENSIONE: CHET O'KEEFE-Because Of You (2013)
vedi anche RECENSIONE: BAP KENNEDY- Le's Start Again (2014)
vedi anche RECENSIONE: DAVID CROSBY-Croz (2014)
vedi anche RECENSIONE: JOHNNY CASH-Out Among The Stars (2014)
giovedì 6 febbraio 2014
RECENSIONE: NASHVILLE PUSSY (Up The Dosage)
NASHVILLE PUSSY Up The Dosage (SPV/Steamhammer, 2014)
Tette, pussy e rock'n'roll. Variando l'ordine degli elementi il prodotto non cambia, anche se... Quando necessito di una malata e sboccata dose di becero rock'n'roll senza troppe pretese, i Nashville Pussy, quartetto misto di Atlanta, riescono sempre a portare a casa la partita sopra al piatto del mio stereo, ci riescono ormai dal lontano 1998 quando la copertina sguaiata di Let Them Eat Pussy era cosa da non lasciare in vista ai piccoli nipoti che giravano per casa. Persa per strada la componente più rusticamente sessista, belluina e punk della gioventù, ben rappresentata figurativamente dalla prima bassista Corey Banks, una poco raccomandabile, tatuata e svestita valchiria di razza, quello che non è mai mancato è l'umorismo da squallida bettola di infima categoria e la provocazione a buon mercato basata su sesso e droghe anche quando il suono della band, negli anni, ha preso sempre più la strada polverosa del southern rock, del blues ipervitaminico alla ZZ Top (recentemente hanno anche coronato il sogno di aprire per i loro barbuti idoli, rimettendoci pure molto in dollari) e del country più sporcaccione in rappresentanza di tutti gli stereotipi americani più marcati e con la scritta "vietato ai minori" sempre ben in vista. Iconicamente legati all'immagine dei due coniugi chitarristi, anche ora che i capelli di Blaine Cartwright sono sempre più radi sotto il cappellaccio da cowboy, la sua pancia da trucker diventa sempre più rotonda e la voce simile ad un Alice Cooper passato alla carta vetrata-lo zio americano che tutti vorremmo per uscire a rimorchiare il venerdì sera anche se Milano non è l'America, cantava qualcuno- mentre il seno di sua moglie Ruyter Suys rimane sempre ben in vista e schiacciato sopra alla fiammeggiante chitarra che durante i live diventa l'incontrollabile manico della perversione che tanto la trasforma in un indemoniato Angus Young in reggiseno (provare un loro live per crederci), i Nashville Pussy sono una collaudata macchina da guerra che non vuole smettere di macinare riff su amplificatori tarati al massimo, chilometri su strade secondarie e parolacce di quart'ordine, con il batterista Jeremy Thompson-dalla barba sempre più lunga-pronto a dare la carica e con una continua girandola di bassiste che dopo Corey Banks e Tracy Alzaman, questa volta si ferma sulla nuova e massiccia Bonnie Buitrago dopo la dipartita della precedente Karen Cuda.
Up The Dosage, sesto album in discografia, sembra rappresentare una piccola svolta d'immagine fin dalla copertina, una sorta di black album ("è il nostro Back In Black" dice Blaine), che vuole forse testimoniare un nuovo inizio nella volontà di puntare tutto sulla musica (il mitico Eddie Spaghetti dei Supersuckers collabora come autore su buona parte delle 12 canzoni) e meno sull'immagine provocatoria della band, con il divertimento sempre e comunque al centro dell'attenzione. Nessuno è diventato serio qui, sia chiaro. Il contenuto è un buon calcio sulle palle fin dall'iniziale Everybody's Fault But Mine, dal veloce rifferama dove southern rock e AC/DC stipulano un patto di sangue, e tutto il resto è un buon bilanciamento tra le caratteristiche seminate in tutti gli anni di attività: anthemici e pesanti hard rock boogie con la chitarra solista di Ruyter Suys sempre presente negli assalti "motorheadiani" di Rub It To Death, Pillbilly e Spent, nella cadenzata Till The Meat Falls Off The Bone, nel riff circolare della viziosa Up The Dosage (un colpo che si stampa bene in testa), nel punk anthemico di The South 's Too Fat To Rise Again , nell'honky tonk blues "drogato" di Before The Drugs Wear Off (presente come bonus track in una versione alternativa unitamente all'inedito Begging For A Taste nella digipack edition) con il pianoforte suonato dalla stessa Ruyter e l'assolo di chitarra dell'ospite Earl Crim, nel boogie hard rock'n'roll di Beginning Of The End.
Un inno selvaggio al party nella scheggia di 48 secondi cantata dalla stessa Ruyter Suys (Takin' It Easy, cover della band Dethklok protagonista della serie televisiva Metalocalypse) che si contrappone alla pesantezza '70 di White And Loud dove dai fumi emergono gli spiriti sabbathiani, che a sua volta precede di poco la divertente country song Hooray For Cocaine, Hooray For Tennessee con il dobro di Andy Gibson (nella band di Hank III) e il mandolino della Ruyter. Il loro mondo sta tutto qua.
Si diceva: tette, pussy e rock'n'roll. Variando l'ordine degli elementi il prodotto non cambia, ma questa volta il rock'n'roll sembra averla vinta. Ma poi arriva la finale Pussy's Not A Dirty Word, un numero alla AC/DC che ci ricorda che: pussy non è una parola sporca e fa girare il mondo. Divertitevi finchè potete, per diventare vecchi c'è ancora tempo e Up The Dosage ve lo ricorderà a lungo, senza più il timore di lasciare la copertina del disco sopra al tavolo in cucina. Proprio ora che i nipoti sono cresciuti...
Tette, pussy e rock'n'roll. Variando l'ordine degli elementi il prodotto non cambia, anche se... Quando necessito di una malata e sboccata dose di becero rock'n'roll senza troppe pretese, i Nashville Pussy, quartetto misto di Atlanta, riescono sempre a portare a casa la partita sopra al piatto del mio stereo, ci riescono ormai dal lontano 1998 quando la copertina sguaiata di Let Them Eat Pussy era cosa da non lasciare in vista ai piccoli nipoti che giravano per casa. Persa per strada la componente più rusticamente sessista, belluina e punk della gioventù, ben rappresentata figurativamente dalla prima bassista Corey Banks, una poco raccomandabile, tatuata e svestita valchiria di razza, quello che non è mai mancato è l'umorismo da squallida bettola di infima categoria e la provocazione a buon mercato basata su sesso e droghe anche quando il suono della band, negli anni, ha preso sempre più la strada polverosa del southern rock, del blues ipervitaminico alla ZZ Top (recentemente hanno anche coronato il sogno di aprire per i loro barbuti idoli, rimettendoci pure molto in dollari) e del country più sporcaccione in rappresentanza di tutti gli stereotipi americani più marcati e con la scritta "vietato ai minori" sempre ben in vista. Iconicamente legati all'immagine dei due coniugi chitarristi, anche ora che i capelli di Blaine Cartwright sono sempre più radi sotto il cappellaccio da cowboy, la sua pancia da trucker diventa sempre più rotonda e la voce simile ad un Alice Cooper passato alla carta vetrata-lo zio americano che tutti vorremmo per uscire a rimorchiare il venerdì sera anche se Milano non è l'America, cantava qualcuno- mentre il seno di sua moglie Ruyter Suys rimane sempre ben in vista e schiacciato sopra alla fiammeggiante chitarra che durante i live diventa l'incontrollabile manico della perversione che tanto la trasforma in un indemoniato Angus Young in reggiseno (provare un loro live per crederci), i Nashville Pussy sono una collaudata macchina da guerra che non vuole smettere di macinare riff su amplificatori tarati al massimo, chilometri su strade secondarie e parolacce di quart'ordine, con il batterista Jeremy Thompson-dalla barba sempre più lunga-pronto a dare la carica e con una continua girandola di bassiste che dopo Corey Banks e Tracy Alzaman, questa volta si ferma sulla nuova e massiccia Bonnie Buitrago dopo la dipartita della precedente Karen Cuda.
Up The Dosage, sesto album in discografia, sembra rappresentare una piccola svolta d'immagine fin dalla copertina, una sorta di black album ("è il nostro Back In Black" dice Blaine), che vuole forse testimoniare un nuovo inizio nella volontà di puntare tutto sulla musica (il mitico Eddie Spaghetti dei Supersuckers collabora come autore su buona parte delle 12 canzoni) e meno sull'immagine provocatoria della band, con il divertimento sempre e comunque al centro dell'attenzione. Nessuno è diventato serio qui, sia chiaro. Il contenuto è un buon calcio sulle palle fin dall'iniziale Everybody's Fault But Mine, dal veloce rifferama dove southern rock e AC/DC stipulano un patto di sangue, e tutto il resto è un buon bilanciamento tra le caratteristiche seminate in tutti gli anni di attività: anthemici e pesanti hard rock boogie con la chitarra solista di Ruyter Suys sempre presente negli assalti "motorheadiani" di Rub It To Death, Pillbilly e Spent, nella cadenzata Till The Meat Falls Off The Bone, nel riff circolare della viziosa Up The Dosage (un colpo che si stampa bene in testa), nel punk anthemico di The South 's Too Fat To Rise Again , nell'honky tonk blues "drogato" di Before The Drugs Wear Off (presente come bonus track in una versione alternativa unitamente all'inedito Begging For A Taste nella digipack edition) con il pianoforte suonato dalla stessa Ruyter e l'assolo di chitarra dell'ospite Earl Crim, nel boogie hard rock'n'roll di Beginning Of The End.
Un inno selvaggio al party nella scheggia di 48 secondi cantata dalla stessa Ruyter Suys (Takin' It Easy, cover della band Dethklok protagonista della serie televisiva Metalocalypse) che si contrappone alla pesantezza '70 di White And Loud dove dai fumi emergono gli spiriti sabbathiani, che a sua volta precede di poco la divertente country song Hooray For Cocaine, Hooray For Tennessee con il dobro di Andy Gibson (nella band di Hank III) e il mandolino della Ruyter. Il loro mondo sta tutto qua.
Si diceva: tette, pussy e rock'n'roll. Variando l'ordine degli elementi il prodotto non cambia, ma questa volta il rock'n'roll sembra averla vinta. Ma poi arriva la finale Pussy's Not A Dirty Word, un numero alla AC/DC che ci ricorda che: pussy non è una parola sporca e fa girare il mondo. Divertitevi finchè potete, per diventare vecchi c'è ancora tempo e Up The Dosage ve lo ricorderà a lungo, senza più il timore di lasciare la copertina del disco sopra al tavolo in cucina. Proprio ora che i nipoti sono cresciuti...