BLACK JOE LEWIS Electric Slave ( Vagrant Records, 2013)
Dannato di un Black Joe Lewis! Non ho ancora smesso di saltare davanti all'indemoniato e sudicio groove che usciva dalle casse che sparavano il precedente Scandalous (2011) che è giunto il momento di continuare il vizio ad oltranza nel nuovo terzo album Electric Slave. Tolta la firma dei fidi musicisti Honeybears dal monicker in copertina-ma ancora presenti con le mani allungate sugli strumenti, nonostante alcune defezioni come il cambio di batterista e l'abbandono del vecchio chitarrista che elegge Joe Lewis a unica ascia del gruppo-il suono della band si sposta maggiormente verso il lato garage minimalista della loro musica, inspessendo le chitarre e aggredendo l'ascoltatore piuttosto che ammaliarlo, senza rinunciare all'estrema varietà musicale che li caratterizza fin dall'esordio (Tell'Em What Your Name Is!-2009), anche se ascoltando la doppietta formata da My Blood Ain't Runnin' Right e Guilty esce tutto l'amore, sempre confessato, per la scena rock'n'roll di Detroit dei primi anni settanta: vocalità alla Iggy Pop, chitarre che intrecciano il serpeggiare dei fiati e il proto-punk è servito su un piatto d'argento fumante di tortillas texane appena sfornate.
Dall'alto della collina, vestiti da vecchi fuorilegge dell'antico west con tanto di armi e cinturoni che ricordano sia il solitario "papà" Taj Mahal-moltiplicato per sei- ritratto nella copertina di Giant Step quanto gli Eagles in versione Desperado, quelli che la band di Austin riversa fuori dagli amplificatori, fino ad arrivare giù a valle, sono suoni tosti e crudi: uno, due, tre, pronti, partenza, via e Skulldiggin inizia a schiaffeggiare e graffiare la pelle con la forza di una chitarra fuzz, il piano e l'hammond in sottofondo e la voce piena di feedback di Joe Lewis a salmodiare, quando non assale come avviene nel rock'n'roll disturbato e noise sparato nella viziosa Young Girls, a testimoniare che il nero musicista texano non ha perso né il pelo né il vizio, forte di una personalità e faccia tosta strabordanti che trovano la propria dimensione ideale sopra ai palchi, dove gli ululati che accompagnano Vampire, la canzone più lunga del disco, promettono sfaceli incastrati dentro al lento e lugubre inizio R'n'B che sale via via di velocità prestandosi alla lunga free jam finale.
Se non avevate ancora capito che Black Joe Lewis ha sbagliato nel venire al mondo con almeno più di trent'anni di ritardo, ascoltate cosa dice del titolo scelto per l'album e capirete cosa pensa del comodo vivere moderno: "gli schiavi elettrici sono tutte quelle persone che oggi tengono i loro volti attaccati agli iPhones, il solo modo per tenere una conversazione con loro è farlo attraverso le onde magnetiche. Il prossimo passo sarà quello di collegarli alla loro dannata testa".
Quando però la sua voce passa dall'essere "iguana" a "macchina del sesso"come quella gridata dai migliori interpreti soul alla Solomon Burke, James Brown, anche il set che gli sta intorno si trasforma e durante The Hipster sembra tramutarsi nell'insidioso palco cintato come un pollaio del Bob's Country Bunker con il materializzarsi dei "fratelli del blues" ai controcori, oppure rimanendo alla pellicola di John Landis, diventare il set del Palace Hotel di Chicago per invitarci a partecipare alla festa di Come To My Party dove l'anima nera, R&B, soul con i fiati a fare compagnia, esce prepotente ed invita alle danze sfrenate. E bisogna ancora passare dall'irresistibile groove funk alla Sly Stone/Funkadelic di Golem e Mammas Queen.
Black Joe Lewis taglia il traguardo del terzo disco facendo un occhiolino al popolo del rock, i tanti cambiamenti-dall'etichetta discografica, al produttore (ora è Stuart Sikes, più John Congleton in tre pezzi), al monicker, al suono-oltre a segnare un nuovo inizio, potrebbero far pensare ad un prossimo passo verso il successo su scala mondiale. Fortunatamente, per ora, la "favola alla Black Keys" sembra scongiurata. Joe Lewis sembra ancora troppo armato e pericoloso per compiacere chi lo vorrebbe invischiato dentro a certi giochetti mainstream.
vedi anche RECENSIONE: BLACK JOE LEWIS & THE HONEYBEARS-Scandalous (2011)
vedi anche RECENSIONE: JJ GREY & MOFRO-This River (2013)
vedi anche RECENSIONE: TEDESCHI TRUCKS BAND-Made Up Mind (2013)
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