Non c'è nulla da fare. Ci sono incontri che sono frutto del destino, scritti per durare nel tempo, più forti dei lutti, delle sbandate artistiche, delle enfatuazioni passeggere, della vita stessa. Quello tra Neil Young e i Crazy Horse è uno di questi. Quando nel lontano 1969 i Crazy Horse, che si chiamavano ancora Rockets, incrociarono la vena creativa del giovane Neil Young e uscirono fuori i primi semi che costruirono una parte importante della loro intera carriera (a partire da Cowgirl in the sand, passando da Cinnamon Girl) nessuno poteva immaginare che quarantatré anni dopo, il mondo musicale fosse ancora lì ad aspettare con trepidante attesa una loro nuova collaborazione. I Crazy Horse sono sempre stati lì ad aspettare e Neil Young non ha mai nascosto il suo piacere nell'alzare i volumi per suonare con loro, tanto da lasciare, in passato, lusinghieri attestati di stima, definendoli i "Rolling Stones americani" e facendoli sempre primeggiare quando doveva confrontarli con le altre band della sua carriera, CSN in primis. Terminati gli ispirati anni settanta in bilico tra buchi neri e vena creativa ai massimi livelli, Billy Talbot, Ralph Molina e Frank"Poncho"Sampedro (l'ultimo arrivato in sostituzione dello scomparso Danny Whitten) hanno saputo aspettare gli esperimenti solitari del grande capo: partiti dai primi anni ottanta e passati attraverso il country plastificato e ordinario, l'amore per i synth, il rock'n'roll revival tutto rosa shocking e brillantina, il rhythm and blues, la reiterata voglia di rispolverare a più riprese i tempi andati, quelli gravitanti intorno ad Harvest(1972), e riuscendoci a metà, la voglia di confrontarsi con quei giovani gruppi (Pearl Jam in testa) che proprio da Young e i Crazy Horse si sentivano ispirati; ma i Crazy Horse hanno saputo tornare quando chiamati in causa, in modo convincente come in Ragged Glory(1990), ispirato e riflessivo in Sleep with Angels(1994), squassante in Broken Arrow(1996) e qualche volta anche in modo sommesso, poco convincente e deludente come in Life (1987).
Questo 2012 sarà ricordato, ancora una volta, come "l'anno del cavallo". L'aperitivo Americana, uscito solo pochi mesi fa, era, in verità, uno strambo ma riuscito antipasto. Un modo originale per riscaldare i motori e ricordare le proprie origini musicali perse nella tradizione, dopo diciotto anni di assenza, interrotti solamente dalle due ultime apparizioni live insieme, quella del 2004 e l'ultima nel febbraio di quest'anno, occasione in cui si sono gettate le basi per gli allora futuri impegni ora concretizzatosi e mantenuti: 2 dischi e nuovo tour iniziato ai primi di Ottobre negli States, con la speranza che tocchi anche l'Europa e perchè no, l'Italia.
Psychedelic Pill, con un titolo che sembra rimandare inevitabilmente ai periodi "stonati" di Tonight's The Night(1975), si presenta subito in modo sontuoso ed estremo, incutendo pure un po' di timore reverenziale: 2 CD (o 3 LP) con solamente otto tracce (più una bonus track) tra cui spiccano immediatamente all'occhio i 28 minuti di Driftin'Back e i 16 di Ramada Inn e Walk Like A Giant. Dentro, tutto quello che il connubio ci ha regalato negli anni: lunghe jam chitarristiche, assalti ruvidi, cavalcate, feedback, ma anche folk e nostalgiche melodie '50. Prodotto da John Hanlon e Mark Humphreys e registrato nello studio Audio Casablanca come il precedente Americana.
L'iniziale e lunga Driftin'Back sembra essere la traduzione in musica dell'autobiografia "Waging Heavy Peace"appena uscita in America, musicata su un mid-tempo che da folk si trasforma presto in rock ondivago, e che purtroppo ha l'unico difetto nella eccessiva e strabordante lunghezza. Un ostacolo che si lascia comunque superare anche se messo proprio lì, all'inizio, potrebbe indurre a malsane azioni di skip.
Born In Ontario è l'omaggio alla sua verde terra canadese, dipinto con leggerezza, ironia e armonia, cosa che ai Crazy Horse riesce anche bene. "You might see me down in Alabama/Or Baton Rouge down in Louisiana/I might make it up to Detroit City/Where people work hard and life is gritty/It don't really matter where I am/It's what I do, it's what I can/This old world has been good to me/So I try to give back and I want to be free/I was born in Ontario".
I sedici minuti sui sogni infranti della sua gioventù in Walk like A Giant sono pura carta vetrata corrosiva e pericolosa, ma maneggiata con cura e indirizzata, con tutto l'amore possibile, verso gli anni cinquanta nei cori doo-wop e incanalata verso la strada della spensieratezza con un fischiettio (umano) contagioso che si staglia in mezzo al grattugiare terremotante e i fischi (disumani) delle chitarre. Intanto passeggi e ti ritrovi a cantare:"Voglio camminare come un gigante sulla terra".
Il muro chitarristico di She's Always Dancing potrebbe diventare un nuovo classico se Like A Hurricane non fosse già stata scritta qualche anno prima.
La title track Psychedelic Pill, con i suoi 3:26 minuti è la canzone più corta, straniante e disturbante, piena di effetti che pare uscita dai primi anni ottanta, da Re-Ac-Tor(1981) o da Trans(1982). Ripresa anche a fine disco in una versione Alternate Mix. "You're never gonna see a tear in her eye/Never see her break a frown/She's lookin' for a good time". E scopri che una donna, a volte, può essere meglio di certe sostanze allucinogene, e viceversa.
Twisted Road è pura nostalgia messa in musica che rievoca i primi fremiti rock'n'roll che passavano le radio, la prima conoscenza con il diavolo musicale, la prima volta che la dylaniana Like A Rolling Stone entrò in circolo. Da allora, nulla fu più come prima, e non ci fu più una prima (vera) volta.
Ramada Inn sembra rappresentare fedelmente la quintessenza del suono dei Crazy Horse: crudezza da buona alla prima, assoli e psichedelia chitarristica dilatata che si traducono in un chorus nostalgico-ma appassionato-sui rapporti di coppia che ti si stampa presto in testa "...and every morning comes the sun/ and they both rise into the day/ holding on to what they've done...". Tutto è inconfondibilmente da Neil Young e Crazy Horse. Difficile sbagliarsi. I signori continuano a divertirsi come fosse la prima prova in garage, incuranti se davanti a loro ci siano centinaia di Chevrolet parcheggiate e tirate a lucido o centinaia di rockers rumoreggianti e sfatti. In modo semplice, divertente, rumoroso, senza pensarci troppo come da sempre nella indole di Neil Young e con i testi che indagano nelle pieghe del suo passato e un po' nel suo presente altamente tecnologico ma rispettoso verso la natura.
Infine la dolcezza ipnotica di For The Love Of Man, canzone già conosciuta nei primissimi anni ottanta con il titolo di I Wonder Why, messa nei cassetti dei suoi archivi e qui rispolverata e tirata a lucido. Una delicata e sentita dedica al figlio Ben, nato con gravi disfunzioni cerebrali. "Let The Angels/Ring The Bells/In The Holy Hall/Let Them Hear/The Voice That Calls/For The love Of Man/Who Will Understand/It's Alright/But I Wonder Why" .
"Il Rock'n'Roll non può morire". Neil Young e il suo cavallo pazzo ce lo dissero già, più di trent'anni fa. Psychedelic Pill è qui a ribadirlo in modo epico, coraggioso, testardo, a suo modo ancora nuovo e stimolante, una sfida lanciata a 66 anni, che piaccia o meno. A me piace (ancora una volta).
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