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domenica 18 marzo 2012

RECENSIONE: PONTIAK (Echo Ono)

PONTIAK Echo Ono ( Thrill Jockey, 2012)

Appena passati in tour in Italia (purtroppo me li sono persi e a quanto pare...ho sbagliato), i Pontiak sono uno gruppo da maneggiare con grande cura. Al terzo ascolto, però, se amate il post-stoner psichedelico senza barriere e steccati, sarete già conquistati dal trio , formato da tre fratelli (abbandonate subito l'idea di paragonarli ai fratelli Followill dei Kings Of Leon, qui siamo su altri territori, fortunatamente).
Echo Ono è il loro nono disco in soli sette anni e promette di saggiare la maturità dei fratelli Carney -che leggenda vuole domiciliati con rispettive famiglie sotto lo stesso tetto di una fattoria nelle Blue Ridge Mountains nel cuore della Virginia-, elevandoli a gruppo tra i più interessanti in circolazione, grazie a canzoni più dirette ed immediate rispetto al recente passato ma soprattutto grazie alla grande capacità di riunire sotto lo stesso tetto hard, psichedelia, stoner (poco questa volta) ed una vena folk molto più marcata e sorprendentemente efficace soprattutto nella parte centrale del disco. Le belle armonie vocali di Vain Carney nella straniante Silver Shadow, The EXpanding Sky e Stay Out What a sight sono un saggio di bravura e di coesione che richiama il forte legame sia di sangue che con il territorio e la natura che li circonda, non allontanandosi troppo dalla prima psichedelia pinkfloydiana e la libertà hippy e rurale da west coast, ma prendendo invece le distanze dagli agi della società moderna, guadagnandone in ispirazione, colori e simpatia. Quasi dei Fleet Foxes elettrici.
Prima di arrivare qui, dovrete passare per l'iniziale hard/grunge di Lions Of Least dove il basso pulsante di Jennings non è mai in ombra ma gioca parti importanti quanto i duri riff chitarristici di una canzone tanto breve quanto efficace, puntellata dall'organo e non così lontana da quanto proposto dai Black Mountain, così come in Across The Steppe che richiama i cari ed amati Kyuss. La produzione di tutto l'album è voltumante scarna e live, strumentazione assolutamente vintage con poche concessioni a qualche organo e mellotron di abbellimento. Strumenti analogici e minimalismo allo stato puro per far risaltare il tutto, così su disco e ancor di più live. A beneficiarne sono le improvvise scariche elettriche di The North Coast e i grossi riff di Left with Lights, vero punto d'incontro tra il passato hard/blues dei '70 e l'alt rock '90.
A concludere, quasi a seguire la scaletta di un ipotetico concerto, due canzoni che fanno completamente perdere la cognizione temporale: Royal Colors parte psichedelica e soffusa per concludersi in modo colossale, immediatamente ripresa dalla conclusiva Panoptica, sei minuti strumentali di pura cacofonia psichedelica con la batteria di Lain libera di sfogarsi e feedback chitarristici disturbanti a disegnare l'ultima delle tante sfumature musicali che i Pontiak sono riusciti a dipingere in poco più di mezz'ora in uno dei dischi da playlist di fine anno.

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