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martedì 13 marzo 2012

RECENSIONE: ORANGE GOBLIN ( A Eulogy For The Damned )

ORANGE GOBLIN A Eulogy For The Damned (Candlelight, 2012)

Con l'annunciato ritiro (o presunto tale) dei capostipiti Cathedral, sulle spalle degli Orange Goblin pesa il duro fardello di portare avanti la scena doom/stoner britannica che ha avuto il suo culmine negli anni novanta. Ricordo con piacere il fumoso concerto dei Cathedral al defunto Barrumba di Torino nel 1999. Gli Orange Goblin, vera e propria scoperta di Lee Dorrian, accompagnarono insieme ai Terra Firma la band di Coventry, avendo modo di espandere la propria fama anche al di fuori del Regno Unito, facendo una gran bella figura e proponendosi come una delle più fulgide realtà in grado di unire l'ossianico doom britannico con i deserti stoner d'oltreoceano, il tutto suonato con piglio da punk-bykers inferociti.
Gli Orange Goblin targati 2012, sfornano il disco più eclettico e versatile della loro carriera. Abbandonate le influenze più psichedeliche/cosmiche e pesanti dei primissimi dischi, la creatura del sempre istrionico e temibile cantante Ben Ward, con gli anni, ha saputo rinnovarsi e A Eulogy For The Damned sembra essere la giusta via di mezzo tra i primissimi e fumati album( Frequencies From Planet Ten-1997, Time Travelling Blues-1998) e il discorso iniziato dieci anni fa, con l'uscita di Coupe De Grace (2002) con l'aggiunta di una vena blues/melodica a fare da collante.
Accanto alle radici del passato, comunque sempre presenti ascoltando canzoni come la pesante epicità di Death Of Aquarius, l'iniziale Red Tide Rising, la pesantezza doom che si alterna con i veloci break di The Fog, o la finale, lunga e progressiva suite della titletrack, troviamo un avvicinamento alle radici metal NWOBHM ed una varietà di composizione che pur toccando maggiormente la melodia non snatura le profonde radici della band.
Le chitarre (Joe Hoare) alla Thin Lizzy di Acid Trial, lo spirito del primo metal britannico NWOBHM che aleggia nella veloce cavalcata The Bishops Wolf con l'intrusione di un organo Hammond che riporta ai '70, il viscerale rock'n'roll di The Filthy And The Few danno l'esempio della grande ecletticità raggiunta dalla band londinese.
Una menzione particolare meritano: Save from Myself, un southern rock con ottimi assoli di derivazione blues, dove la voce da poco di buono di Ward, diventa espressiva e melodica, i cori diventano catchy , ricordandomi la dimenticata e sfortunata band The Four Horsemen;
poi c'è la breve e curiosa Return To Mars, un funk travestito da pesante hard rock, saltellante, groovy e psichedelica.
Forse non è il loro migliore album, ma è una chiara dimostrazione di crescita e maturità artistica che arriva a cinque anni dal loro ultimo e pesante disco Healing Through Fire (2007) e come successo con The Hunter dei Mastodon, pur con le dovute differenze, potrebbe farli uscire dal grande club dei gruppi cult.



vedi anche CORROSION OF CONFORMITY

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