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lunedì 16 gennaio 2012

RECENSIONE: CESARE CARUGI (Here's to the Road)

CESARE CARUGI  Here's to the road ( Roots Music Club, 2011)

“Andate da qualche parte di preciso, voi ragazzi, o viaggiate senza meta?"(cit. "Sulla strada", Jack Kerouac)

Andiamo in direzione America. Chi ama il rock americano ha tre buone opportunità per viverlo ogni giorno anche in Italia: ascoltarlo, suonarlo e fare le due cose insieme con grande passione.
Cesare Carugi appartiene alla terza categoria (io, per non fare danni, mi limito alla prima) con un vantaggio che gli consente, con sicurezza, di guardare gli altri dallo specchietto retrovisore della sua auto lanciata in una highway: quello di conoscere l'America e di cantarla, non soltanto seguendo gli stereotipi spesso banali che associamo a certa musica, ma cantarla come un soldato in prima linea, permettendosi di mettere la freccia, uscire dalle strade principali ed avventurarsi, cercando tra le vie secondarie quelle meno battute ma più vere ed appaganti.
Ecco che una malinconica, fredda ed espressiva ballad pianistica come Dakota lights & the Man who Shot John Lennon non la troverete da chi vi vende l'America a buon mercato. Se poi il songwriter di Chicago, Michael McDermott (cercate il suo "Gethsemane"-1993) duetta con lui, il tiro si alza di molto. Questa potrebbe bastare a presentare il toscano di Cecina, Cesare Carugi, che arriva al suo primo full lenght dopo l'ep Open 24 Hours del 2010 ed un bagaglio di viaggio pieno di timbri e una discreta attività live accompagnando tanti buoni nomi del rock americano.
Un disco dove i temi del viaggio e del tempo (il folk di chiusura Cumberland insieme a Massimo Larocca) guidano le cinematografiche liriche, vero punto di forza di un lavoro con pochi difetti, sospese tra velato romanticismo e fughe di libertà.
C'è il lento vagabondaggio di frontiera alla Tom Russell e Joe Ely nella ballad Death and Taxes e nei grandi paesaggi desertici di Blue Dress; ci sono gli accenti southern rock di Every Rain Comes to wash it all clean (con la lap steel dell'ospite Daniele Tenca), e dell'apertura Too late to leave Montgomery in bilico tra Petty e Neil Young.
Gli echi springsteeniani, anticipati a suo tempo da Massimo Priviero e Graziano Romani (altri due personaggi che meriterebbero più visione), di 32 Springs, in compagnia di un altro ospite, il cantautore Riccardo Maffoni, passano veloci come la vita, pur essendo la traccia che mi ha convinto meno.

Non è solo states, il viaggio di Carugi. C'e anche il tempo di saltare in Inghilterra: quella dei Clash "americani" di Goodbye Graceland tra chitarre e polvere di Elvis e c'è il garage rock di London Rain.
Quando poi i chiaro-scuri di Caroline, con il violino protagonista e le vocals di Giulia Millanta, si impossessano della scena, si capisce di aver di fronte uno storyteller di alto livello, dalla pronuncia inglese perfetta ma soprattutto, nel suo genere,uno dei migliori dischi italiani usciti nel 2011. Fuori tempo per la mia classifica di fine anno, ma senza tempo per innamorarsene.


INTERVISTA a CESARE CARUGI



vedi anche RECENSIONE: CESARE CARUGI-Pontchartrain (2013)




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