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lunedì 14 novembre 2011

RECENSIONE: GUY LITTELL (Later)

GUY LITTELL Later (autoproduz., 2011)

L'estate scorsa, durante la pausa forzata dovuta ad una estenuante coda di automobili, mi è capitato di perdere lo sguardo in modo malinconico attraverso le maglie quadrate di una rete metallica che dividevano il ponte di un'autostrada con il vuoto apparente di un paesaggio lontano. Gli occhi accecati dal sole superavano i palazzi, grandi come casermoni, di una sonnolenta Genova mattutina e si tuffavano nel mare che si intravedeva in lontananza. Forse stavano già cercando la lontana Napoli e un suo abitante che però con lo stesso gioco di sguardi , gli occhi li ha puntati ancora più lontano.
Lo sguardo di Guy Littell attraversa mari e oceani e sbarca negli States, scrutando il lato meno solare di un continente che troppo spesso identifichiamo come un'isola del tesoro. Il lato ombroso della west coast californiana dei primi anni settanta incontra l'elettrico deserto alternativo degli anni novanta, dove i Giant Sand di Howe Gelb e i Dream Syndicate di Steve Wynn hanno lasciato impronte indelebili. Proprio per Steve Wynn, Guy Littell ha aperto i concerti poche settimane fa. Un biglietto da visita che può valere rispetto e attenzione.
Later è il primo album del napoletano Gaetano di Sarno(il nome d'arte è preso da un romanzo di James Ellroy), dopo l'ep "The Low Light & The Kitchen" uscito nel 2009.
Due cose colpiscono immediatamente l'ascoltatore dopo solo pochi secondi dell'iniziale Tired Of Tellin'. La voce e i suoni grezzi ma al contempo avvolgenti ed incalzanti, grazie anche alla produzione di Ferdinando Farro.
L'America di Guy Littell è quella di chi cammina dalla parte cattiva della strada e sta cercando se stesso, così intrisa di quella velata e rabbiosa malinconia che gli improvvisi scatti elettrici dietro alle acustiche strutture delle canzoni mettono in risalto. Una solitaria camminata contromano verso la folla incalzante e schiamazzante. La solitudine imposta e la solitudine cercata per uscire da meccanismi stritolanti.
Gli spazi dilatati aperti dalle chitarre elettriche dell'iniziale Tired of Tellin' che si apre in acustico, il fervido incedere di Needed That call, dai suoni elettrici e indie trovano la loro controparte nel folk acustico intriso di amarezza ed intimistica malinconia di Within e dagli incubi notturni di The Nightmare Come.
I conflitti interiori che affiorano in What a war(for my soul) e i fantasmi della dimessa Black Water con i loro beat elettronici incastrati alla perfezione sulle canzoni che riportano alla riuscitissima collaborazione tra i Soulsavers e Mark Lanegan..
Proprio la voce di quest'ultimo sembra il metro di paragone più calzante per descrivere la profondità vocale di Guy Littell. Una voce che sembra nascere dal profondo dell'anima che però sa cambiare registro all'occorrenza come in Kill the Winter con il suo andamento pop con una coda elettrica che ricorda il miglior Ryan Adams, altro artista a cui Guy Littell potrebbe essere accomunato. La sua voglia di destrutturare le canzoni che affiora in Small American Town, un'America nascosta e di provincia squassata da improvvise esplosioni elettriche. Particolari, infine, il mood sixty-psichedelico di A Gifted Summer e l'incedere alla Neil young della conclusiva Best Thing ever con un violino che ci lascia in bellezza.
Dopo il disco dei Verily So, altra sorpresa italiana dell'anno, "Later" di Guy Littell sembra viaggiare nella stessa direzione, verso un' America che sembra essere vissuta come solo chi ci è nato potrebbe fare, lontana dai soliti e banali luoghi comuni. Non oso immaginare cosa potrebbe tirar fuori Guy Littell se la terra promessa riuscisse a calpestarla oltre che vederla dalle grate di una rete.
Un conclusivo grazie a chi mi ha fatto conoscere Guy Littell, testimonianza di come il passaparola funzioni ancora in un mondo musicale sempre più superficiale.

INTERVISTA su ImpattoSonoro.it

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