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lunedì 29 agosto 2011

RECENSIONE: RY COODER (Pull up some dust and sit down)

RY COODER Pull up some dust and sit down (Nonesuch Records, 2011)

Anche se l'iconografia e le foto che accompagnano il lavoro, sembrano appena uscite dagli anni trenta e succedere di poco la grande depressione che colpì gli Stati Uniti nel 1929, Pull Up some dust and sit down è un ricettario della durata di un'ora , in cui Ry Cooder mette in fila i grandi problemi dell'impero USA(estendibili al mondo occidentale in generale), calandosi nella più vera e impietosa attualità e viste le ultimissime notizie provenienti dalle banche americane e Wall Street, anticipando un finale più nero di quanto ci si aspettava.
Da quando Ry Cooder è tornato ad incidere dischi alla vecchia maniera, la trilogia formata da Chàvez Ravine(2005), da il bello My name is Buddy(2007), passando per il meno riuscito I, Flathead(2008) e l'ultimissima collaborazione con i The Chieftains di Paddy Moloney per il riuscito connubio tra Irlanda e Messico, San Patricio(2010), ha inglobato nella sua musica migliore degli anni settanta tutte le infinite esperienze musicali degli anni ottanta e novanta, esperienze che lo hanno portato ad essere uno dei musicisti più completi, ricercati e straordinari del panorama musicale mondiale, senza steccati imposti dai generi.
L'etichetta Nonesuch è stata molto esplicita nel presentare il disco, definendolo come un insieme di strumenti(i testi delle canzoni), utili a noi liberi cittadini per uscire dal quel cerchio pieno di bugie e distrazioni in cui i potenti del mondo vogliono metterci per controllarci, elevando quasi Cooder a livello messianico. Senza eccedere in questo, Cooder, ha scritto un giornale di estrema attualità ma soprattutto di qualità, quei giornali che terminata la lettura quotidiana, non getti nella differenziata ma pieghi con cura, mettendoli da parte e che ti ritrovi a leggere dopo vent'anni, trovandoli ancora di estrema utilità nel loro spirito senza tempo.
Quattordici canzoni di protesta che non possono che rimandare ai grandi precursori come Pete Seeger e Woody Guthrie che si aprono con No Banker Left Behind, ispirata dal giornalista Robert Scheer, il cui titolo non lascia scampo, con i grandi ricchi da una parte e i "poveracci" dall'altra, suonata dal solo Cooder in compagnia del figlio Joachim alla batteria e continuare poi, rispolverando il bandito Jesse James nel walzerone messicano El torrido de Jesse James, con tanto di fiati e la partecipazione di Flaco Jimenez.
Se da una parte tutto ciò può rappresentare, tristemente, l'immobilità dell'essere umano, sempre poco avvezzo ad imparare dagli errori del passato, dall'altra rappresenta un merito ad un Ry Cooder, coraggioso nel'esporre in musica tutti i mali della società americana, mai così lontana dal vecchio e sempre più irrangiungibile American Dream. Quello stesso sogno che vivono ancora i messicani che lasciano la loro terra per intraprendere uno dei più pericolsi viaggi odierni in cerca della vita. Quick Sand è una rock song che parla di quei viaggi insidiosi e di tutti quegli uomini e donne alla ricerca della libertà e condizioni di vita migliori ma anche di chi cerca, con lo spargimento di sangue, di impedirglielo.

Chi non ha mai sperato o voluto che il proprio idolo musicale sedesse alla Casa Bianca? Ry Cooder prova a raccontarcelo in solitaria, in John Lee Hooker for President, un blues narrativo suonato alla Hooker(scomparso giusto dieci anni fa) e cantato come lo avrebbe fatto il bluesman in prima persona. Ancora blues: con forti accenni soul e gospel(forte della riuscita esperienza con Mavis Staples) nella preghiera Lord Tell me Why con la batteria di Jim Keltner e in I want my Crown, corta, ma la più elettrica e cattiva del disco che denuncia la sete di ricchezza con un cantato alla Tom Waits.
Giri la pagina del giornale e ci trovi gli orrori della guerra: giovani che tornano senza arti e con la faccia sfigurata, cervelli persi e rovinati in nome di soldi sperperati. Ma il Natale come ogni anno arriva ugualmente. Christmas Time this year è cinica e dura contro la politica guerrafondaia ma è costruita su ritmi da festa paesana e gioca molto su questo contrasto. Baby joined the Army, canta il trascorrere del tempo e l'attesa in guerra con sola voce e chitarra.

Le chitarre di Cooder come al solito sono protagoniste, sia nei tempi reggaeggianti di Humpty Dumpty World, in cui Cooder ci spiega perchè Dio(ma la compagnia è grande) odia la televisione e in If there's a God, sempre un reggae/rock elettrico che nei tempi più lenti e descrittivi di No Hard Feelings, oppure nelle più folkie ed etniche canzoni come Dreamer dove la fisarmonica di Jimenez disegna suggestive atmosfere d'altri tempi.
Tante cose, in questo disco, Cooder ci include tutto il suo bagaglio e passaporto musicale(partendo dalle roots americane arrivando al Messico, Cuba, gospel, Folk, blues e rock) ma soprattutto una lunga serie di imput e notizie dalla vecchia America poco confortanti, disegnando un quadro attuale poco roseo e felice ma che con la sua musica intorno, sembrano arrivare in modo meno catastrofico e più colorato di quanto potrebbe fare un qualsiasi giornale con i caratteri di stampa in bianco e nero. Un disco da mettere da parte al posto di quei giornali, per ricordarci i nostri punti più bassi ed imparare finalmente dai nostri errori.

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