Pagine

mercoledì 29 settembre 2010

RECENSIONE: NEIL YOUNG (Le Noise)

NEIL YOUNG  Le Noise (Reprise records, 2010)


Le Noise va ascoltato di notte, quando il buio si impossessa della vista e rimaniamo solitari con i nostri dubbi e pensieri. Le luci delle case si spengono una ad una, lasciando alla luna il compito di indicare la via ai solitari vagabondi in strada. Quando le azioni della giornata sono già archiviate nel cassetto del passato e si fanno i conti con le future. Soli, come questo disco che emana un fascino particolare è stato registrato. Questa volta Young ha fatto centro, dopo la delusione di album come l'ultimo Fork in the road uscito solo un anno fa, sì istintivi, come nel suo classico modo di operare ma in qualche modo poveri se confrontati con il passato del canadese. Ci voleva la mano di un produttore di grido come Daniel Lanois per dare, ancora una volta, una sterzata alla carriera di Young. Questo sarà un disco che verrà ricordato alla pari dei suoi migliori lavori. Young e Lanois sono riusciti nel costruire qualcosa che il grande canadese non aveva mai fatto uscire durante i suoi quarant'anni di carriera. Una simbiosi che ha funzionato.
Di esperimenti Young ne ha sempre fatti, mettendo in discussione ogni volta la sua carriera ma seguendo sempre il proprio istinto, dischi registrati e mai pubblicati negli anni settanta, i criticati e bizzarri dischi dei primi anni ottanta come Re-ac-tor e Trans a dischi di pura sperimentazione e noise come Arc o la colonna sonora di Dead man.
Neil Young da solo e la sua chitarra, acustica ed elettrica. Tutti qua gli ingredienti su cui Lanois ha lavorato.
Registrato nella casa del produttore, questo è un disco chitarristico al cento per cento, tutto ciò che si sente è stato prodotto dalla chitarra di Young: riverberi, note basse, rumori ed effetti che costruiscono canzoni su cui si stagliano i testi di Young. Canzoni per buona parte nate acustiche e trasformate in elettriche, un esperimento che ha dato buoni frutti. L'amore e la consapevolezza di non poter invecchiare senza la persona amata, dopo una vita in cui molti amici non ci sono più in Walk with me. E' un disco in cui Young mette a nudo la sua vita, l'amore verso la compagna Pegi, da trent'anni al suo fianco, il rifuggire alla vecchiaia (argomento che si porta dietro fin dalla gioventù) e lo spettro della morte che come avvenuto in passato, gli ha tolto molti amici, non ultimo il fedele compagno di band Ben Keith, la rabbia verso il mondo in It's an angry world dove la chitarra è tagliente e si staglia chiara e forte in mezzo al nulla, così come in Sign of Love e Someone's going to rescue you.
Notte e brividi, ascoltando Peaceful Valley Boulevard, quasi una preghiera affinchè qualcuno si accorga di cosa sta succedendo in terra o l'acustica Love and war, dove Young si accorge di aver passato una vita a cantare di amore e guerra quando le persone continuano in modo perpetuo a pregare volontariamente o meno per amore e guerra.
Poi Young tira fuori dai cassetti una piccola autobiografia in musica che si ferma nel 1975, anno in cui fu composta The Hitchhicker. Chitarra elettrica , voce effettata ed echi, piccolo capolavoro tra confessioni di paranoia e droga. Il tutto si conclude con Rumblin', toccanti parole metaforiche tra terremoti terrestri e amore.
Le otto canzoni di Le noise saranno accompagnate da altrettanti video , in bianco e nero e suggestivi , girati dal regista Adam Vollick e che sembrano rappresentare alla meglio le canzoni in immagini. Ancora una volta Young sembra indicare una strada, ottenendo il massimo con uno stile minimale e una concezione artistica ed ispirazione che lo porta ogni volta a mettere in musica le sue idee, andando spesso incontro a critiche che questa volta ne sono sicuro non arriveranno. Prendere o lasciare.








sabato 25 settembre 2010

RECENSIONE: NO GURU (Milano Original Soundtrack)


NO GURU Milano Original Soundtrack (Bagana Records, distrib. Fnac,2010)

Ci eravamo lasciati undici anni fa alle Bahamas, con l'oceano che a volte dorme e con la paura della nuova società del duemila e ci ritroviamo qui in mezzo ad una tangenziale congestionata dal traffico a festeggiare questa prima decade del nuovo secolo in mezzo a luci, ombre e rumori molesti, irreali silenzi mattutini e illusorie e tentatrici luci al neon accese al primo buio serale. E' valsa la pena aspettare perchè questo disco si riprende in mano, in un solo colpo, la migliore scena rock musicale che negli anni novanta ha infestato lo stivale. Come diversamente aspettarsi da quattro membri dei Ritmo Tribale (Scaglia, voce e chitarra, Briegel al basso, Marcheschi alla batteria e Talia alle tastiere) più Xabier Iriondo, chitarra dei primi e inarrivabili Afterhours e con la presenza del sax impazzito e disturbante di Bruno Romani ex componente dei friulani Detonazione . Un ponte ideale tra la vecchia guardia, con un occhio puntato alla New York di fine anni settanta e alla new wave dei primi ottanta e i nuovi italiani che avanzano, mi vengono in mente Zu e Il Teatro degli Orrori.
Ci vuole coraggio a reinventarsi e rimettersi in gioco con nuove idee, nuovi suoni e nuovo nome, NO GURU, quando il tuo passato è marchiato sotto un monicker indelebile come Ritmo Tribale. Ci avevano già provato con il loro ultimo disco Bahamas del 1999, a cambiare coordinate, ma se allora i suoni erano liquidi e fluidi con forte venature di elettronica e accenti progressive, questa volta ci si trova schiavi e inglobati dentro ad un vortice sonoro fatto di chitarre taglienti con i "germi" del professor Xabier Iriondo sparsi lungo tutte le tracce, semi industriali, sax noise che vagano creando quel caos allucinante da coda delle ore sei in tangenziale ovest a Milano.
Milano Original Soundtrack nasce in una città che fa da base per ogni singolo brano, la bellezza del viverci che può diventare stress, paranoia, soffocamento, con la musica come grande e unica via di fuga.Alienazione che nasce nel guardare al passato, agli sbagli fatti senza sapere il domani che ci attende in Ieri è un altro giorno , traccia post punk messa in apertura tanto per inquadrare il discorso.
Vivere oggi, vuol dire anche provare a fare i conti con un sentimento come l'amore, Amore mutuo, bilanciare la frenesia del vivere quotidiano con un sentimento che per quanto nominato e tirato in causa continuamente, rimane ancora troppo sconosciuto, rischiando molto spesso di perdere occasioni (...Quanto devo e quanto do...Amore mutuo...La tua punizione ..C'è un buco nel mio polmone ...ma non si placa...) e finendo ancora più spesso per pagare scotto.
Ossessione, tensione e urgenza è palpabile in Non si passa (Malattia mentale la sento che cresce e non lo faccio vedere temo la comunità della vita matrimoniale) e nei ganci indirizzati alla new wave più oscura degli anni ottanta. La quasi industriale Cammino con le mani, sicuramente un successo nei prossimi live e canzone simbolo del progetto No Guru, la splendida cover di Complications dei Killing Joke, per l'occasione riscritta da Scaglia che diventa Complicato e la citazione dei Joy Division in Mare Divano, sax, chitarre e ricordi da uccidere, non sono certamente casuali. Angosce, cercate e subite. Il primo singolo Fuoco ai pescecani, accompagnato da un originale video è un buon lasciapassare che ti penetra piano piano la mente e il cuore.
Lo sballo "bianco" preferito della metropoli Milano nel quasi funk di Neve(...una spirale bianca è entrata dentro la mia testa e mescola tutto in un'unica enorme minestra...), il divertissement strumentale di Perle ai porci che ci proietta in atmosfere care a certi b-movies italiani anni settanta che tanto piacerebbero ai Calibro 35.
E se Il deserto degli dei (...ho una bomba nel cuore e i piedi sul ghiaccio...), mi riporta in mente gli ultimi Ritmo Tribale senza Edda, la finale Bassa fedeltà è un bell'esperimento che può candidarsi ad essere una canzone beat degli anni duemila.
Un disco che non ama catalogazioni, che fugge in tutte le direzioni ma che arriva là dove si è prefissato di arrivare, non facile, non commerciale ma che alla fine arriva anche con la difficoltà dei suoi cambi di tempo dispari, le sue divagazioni quasi jazzistiche, le sue citazioni, i suoi rimandi e i suoi testi per nulla scontati e banali.
Dopo Edda l'anno scorso e i No guru di quest'anno, la famiglia tribale si è riunita e ha dimostrato la forza che la vecchia guardia può ancora sprigionare. Il leone, a fine disco, può continuare a ruggire, fiero.






vedi anche RECENSIONE: RITMO TRIBALE-Bahamas (1999)




vedi anche RECENSIONE: EDDA-Odio i vivi (2012)



domenica 19 settembre 2010

EELS: recensione concerto Alcatraz, Milano 15 Settembre 2010



C'era attesa per questo tour che doveva presentare sul palco la trilogia di dischi usciti nel corso dell'ultimo anno che hanno dimostrato l'assoluta prolificità e libertà di movimento della one man/band, incurante di critiche e leggi del mercato.
L'uomo lupo è tornato, con i suoi quattro lupacchiotti al seguito. Dopo aver raccontato al mondo le sue eterne disgrazie attraverso dischi, libri e film ed essere stato tacciato di perenne depressione tramutata in tristezza cosmica, con l'ultimo disco voleva dimostrare al mondo che anche l' hombre lobo, Mark Oliver Everett , alias Mr.E sa godere delle bellezze della vita. Allontanare i tempi dove paranoie, violenze e inni ai farmaci come cure disintossicanti dai problemi della psiche e sostituirli con odi di vita raccontando di canarini e ragazze spettacolari. Per chi lo aspettava al varco ecco la dimostrazione sopra ad un palco.
Palco, che in un Alcatraz ancora semivuoto, ospita l'improbabile esibizione di un ventriloquo e il concerto della giovane, bionda, bella e anche brava Alice Gold, inglese a cui spetta il diffile compito di traghettare un pubblico sempre più numeroso verso l'agognata meta. Alice sta attraversando l'Europa con il suo camper per promuovere il disco in uscita e lo fa presentandosi sola sul palco in compagnia della sua chitarra elettrica. Finita la sua esibizione c'è ancora il tempo per sorbirsi quasi mezz'ora di canti tricolori, alla faccia della lega, che escono dalle casse. Da O sole mio ad una bamba italianizzata in Lasagna dal folle Weird Al Yankovic. Forse uno scherzo di mister E?
Eccolo, sale sul palco, da solo, vestito di tuta da lavoro rigorosamente bianca, bandana calata su occhiali scuri, barba da fare invidia agli ZZ top ed una pletora di chitarre che cambierà in modo quasi maniacale durante ogni pezzo.
Sembra il solito Mr.E per le prime tre canzoni solitarie e intimiste come Grace Kelly blues e Little bird, poi con l'entrata del gruppo, quattro elementi agghindati come gangsters americani degli anni venti e anche loro con barbe annesse, il concerto decolla e sarà una tirata unica fino alla fine.
Chi pensava di trovarsi gli Eels, musicalmente scarni ed elettronici dell'ultimo album si trova di fronte un gruppo affiatato che spara rock-blues con punte di veemenza che sfiorano il garage punk come nella riproposizione della stoniana She said yeah o nei pesantissimi blues presi in gran parte da Hombre Lobo, come Prizefighter, Tremendous Dynamite o Fresh blood dove gli ululati riecheggiano tra la folla o ancora Dog faced boy e Souljacker. Dopo aver stemperato la tensione iniziale, sfogandosi con una pedata alle transenne ed un'incazzatura per via di una scaletta che evidentemente non corrispondeva con le altre, Mr.E prende in mano la situazione e da vero sciamano, conduce il concerto con salti e balli che non fanno che testimoniarne il suo momento positivo che evidentemente riesce a comunicare solamente sparando in faccia al pubblico tre chitarre elettriche e una sezione ritmica martellante, a dir poco eccezionale il bassista.
Ma i momenti intimi non mancano grazie a In my younger days, In my dreams, That look you give that guy,, con tanto di steel guitar, spezzati da momenti di puro funk e latin rock con una Mr.E's beautiful blues mascherata da La Bamba o la cover irriconoscibile di Summer in the city dei The Lovin' Spoonful. Prima dei tre bis c'è il tempo di un quantomeno inaspettato lancio di ghiaccioli verso il pubblico e chiudere con Oh so lovely dall'ultimo album "Tomorrow morning".
Un concerto che dimostra ancora una volta l'assoluta imprevedibilità di Mr.E e che certamente non ha lasciato andare a casa nessuno scontento, anche chi si aspettava pessimismo e malinconia, si è rassegnato al trionfo della positività.

SETLIST
grace kelly blues
little bird
end times
prizefighter
she said yeah (rolling stones cover)
gone man
summer in the city (Lovin' spoonful cover)
tremendous dynamite
in my dreams
in my younger days
paradise blues
jungle telegraph
my beloved monster
spectacular girl
fresh blood
dog faced boy
that look you give that guy
souljacker part I
talkin 'bout knuckles
mr. E's beautiful blues
i like birds
summertime (george gershwin cover)
looking up

i'm gonna stop pretending that i didn't break your heart
oh so lovely







domenica 12 settembre 2010

RECENSIONE: TOM JONES (Praise & Blame)


TOM JONES Praise & blame (Island, 2010)


A volte fidarsi del proprio istinto musicale può metterti di fronte a piacevoli sorprese che la ragione non mette nemmeno in discussione. Chi l'avrebbe mai detto che un disco di Tom Jones potesse essere una rivelazione. Le prime indiscrezioni su questo disco erano le colorite frasi dei dirigenti della Island records, etichetta di Jones, che pensarono subito ad uno scherzo dopo che il gallese dalla voce d'oro presentò loro le nuove canzoni. Gli echi di quella Sex Bomb che tanto lo rilanciarono nel mercato discografico aleggiavano ancora nell'aria intorno ai dirigenti Island come al sottoscritto, per finire immediatamente schiacciati e azzerati appena parte la prima traccia di questo disco.
Che con quella voce Jones potesse permettersi di cantare ciò che vuole è fuori di dubbio, che la sua frequentazione di Elvis dai metà anni sessanta con le paillettes e le luci di Las Vegas incluse e il primo tentativo fallito di avvicinarsi al country negli anni ottanta, non sono credenziali valide a giustificare un disco perfetto come questo.
Jones si cala tra la polvere delle highways e l'odore del legno tarlato di vecchie chiese abbandonate, proprio come quella di copertina, fa un giro a New Orleans e ne esce vincitore con un album "americano" che tanto sarebbe piaciuto a Johnny Cash.
Jones è un animale camaleontico, ancora piacente a settantanni ma che finalmente ha deciso di mostrare i piccoli e veri segni del tempo che hanno attecchito anche sul suo corpo lasciando però intatta quel dono di Dio che è la sua voce.
Proprio a Dio, alla ricerca di redenzione, sembra improntarsi tutto il lavoro e la scelta delle canzoni. Sacro gospel, blues, rock'n'roll, Rockabilly e country sono gli ingredienti di questo disco.
Prodotto da Ethan Johns, uno dei produttori più richiesti degli ultimi anni, già al lavoro con Ryan Adams, Ray Lamontagne, Kings of leon e Paolo Nutini tra i tanti e suonato da grandi musicisti tra cui spicca lo stesso produttore alle chitarre e Booker T. Jones al piano.
Il disco si apre con una canzone di Dylan ripescata da quel grande disco che fu Oh Mercy(1989),What good am i?, forse messa lì in apertura a dare un significato profondo a questo lavoro, ponendosi e facendo sua la domanda che si pose Dylan(Come posso dirmi buono se dico cose sciocche?/E rido in faccia a ciò che il dolore crea?). Che Jones abbia voglia di voltare pagina veramente? O si tratta solamente di un piacevole e divertente presa in giro?
Le canzoni che seguono sono una buona risposta , a chi ascolta cercare la bontà della proposta. Io ne sono stato conquistato.
Le canzoni più rock che vanno dall'invocazione al Signore del gospel-blues di Lord Help scritta da Jesse May Hemphill, con chitarre in crescendo e bene in evidenza che diventano sferraglianti in Burning Hell, un blues di John Lee Hooker che Jones canta come se avesse sempre avuto il diavolo dalla sua parte e che non ti saresti mai aspettato. E che dire se Strange things è trasformata in un Rockabilly con tanto di cori femminili così come Don't knock e Didn't it rain che avrebbero reso felice il vecchio amico Elvis. A controbilanciare il testoterone rock'n'roll di queste tracce, Jones piazza alcune chicche di dark country ballads come la preghiera If i give my soul di quell'autentico outsider cristiano che è Billy Joe Shaver, Did trouble me o Nobody's fault but mine dove la voce di jones si esalta in una interpretazione da applauso. A chiudere il disco, forse un ringranziamento e omaggio a chi da questi tipi di dischi ha saputo riinventarsi la carriera cantando forse con più cognizione di causa, questo bisogna ammetterlo, la sofferenza e la fede nel signore. Ain't no grave e Run on (la God's gonna cut you down del man in black, qui diventa un blues) hanno più di un collegamento all'ultimo Johhny Cash delle American recordings. Dischi che sembrano aver indicato la strada da seguire per artisti in rilancio di carriera vedi le ultime prove di Neil Diamond, Kris Kristofferson, Robert Plant e da oggi mister Jones. Alla prossima mossa per capire dove colllocare questo disco che comunque merita più di un ascolto.




mercoledì 8 settembre 2010

RECENSIONE:EDDA : IN ORBITA (Niegazowana, 2010)



Edda come vorrei...Edda come vorrei...cantavano gli Afterhours in Come vorrei da "Hai paura del buio?"(1997)
Un anno esatto. A settembre di un anno fa uscì Semper Biot(http://www.debaser.it/recensionidb/ID_28979/Edda_Semper_Biot.htm), quello che senza mezzi termini è stato l'album italiano che più mi ha accompagnato durante il mio continuo ascolto di musica giornaliero. Dall'autoradio, dalle cuffiette dell'i pod o dall'impianto stereo casalingo, la voce di Edda è uscita e invaso l'aria, trasmettendo positività e voglia di vivere a scadenze regolari. Se lo spiazzamento iniziale fu tanto e paradossalmente equivalente alla voglia di riascoltare il cantante della band italiana che più di altre mi ha accompagnato durante gli anni che mi hanno condotto verso la maggiore età, la consapevolezza di avere davanti agli occhi un oggetto di rara bellezza non è tardata ad arrivare.


I primi video casalinghi apparsi su Youtube, le indiscrezioni rubate a chi lo conosce di persona che mi parlava di un Edda "patentato" alla guida di un furgone per le vie di Milano (grazie Zymbah), hanno spazzato in un solo colpo tutte quelle "voci" che aleggiavano intorno all'uomo Stefano Rampoldi. Dalla sua fuoriuscita dal gruppo si è detto di tutto e il contrario di tutto mettendo intorno alla figura di quel cantante così carismatico nella sua sgraziata postura sul palco, un velo di leggenda appartenente solamente ai grandi illustri cantanti dimorati nel paradiso degli artisti. Apparizioni, sparizioni, avvistamenti, smentite, viaggi e terre promesse e la verità mai così vicina a noi comuni mortali sempre attratti dalle pruriginose fantasticherie piuttosto che affrontare la cruda realtà.

L'omaggio che questo piccolo disco formato da cinque canzoni vuole essere verso il suo interprete è quello di spronare l'artista Edda a continuare su questa strada, lui sempre così dubbioso sulla riuscita di questa rinascita artistica e sul suo futuro musicale. L'omaggio nasce da un breve set acustico in compagnia degli amici Andrea Rabuffetti e Sebastiano De Gennaro , tenuto nel mese di Marzo per RadioCapodistria, all'interno della trasmissione In Orbita condotta da Elisa e Ricky Russo.

Un anno trascorso tra le coccole dei vecchi fans, che non hanno mai smesso di pensare al giorno del suo ritorno, tra comparsate nella tv nazional popolare, con telespettatori che facevano la sua conoscenza per la prima volta e ignari di quello che Edda rappresentò per il rock italiano con i Ritmo Tribale nei primi anni novanta. Vecchi amici come Manuel Agnelli che non hanno esitato nel ridare all'uomo Stefano Rampoldi la ribalta che merita, invitandolo ad aprire alcuni concerti dei suoi Afterhours e poi ancora concerti su concerti, grandi festival e piccoli luoghi. Ribalta che Edda, da anni impegnato come operaio in una ditta che piazza ponteggi, non si sarebbe più sognato di avere. Mantenendo sempre il basso profilo e la modestia che lo contraddistingue e che esce anche da queste cinque performances tra cui la riproposizione di Suprema di Moltheni, artista apprezzato da Edda e tra i pochi cantautori di questa generazione che lo abbiano colpito, lui ancorato alla musica dei suoi primi trent'anni, come spesso ama ripetere. Le altre quattro canzoni( Io e te, L'innamorato, Fango di Dio e Snigdelina) sono prese dal suo debutto solista e scritte a quattro mani con Walter Somà. Il disco pur nella sua brevità, riesce a cogliere quello che Edda riesce a trasmettere durante i suoi set acustici, fatti di improvvisazioni, di taglia ed incolla con altre canzoni di altri artisti, di cambi di frasi e parole, di scatti repentini e fulminei, di pause che la sua voce, senz'altro unica e originale in Italia, riesce ad accompagnare e seguire.


Statene certi, se il giorno in cui è stato registrato il mini concerto, Edda durante l'esecuzione di Fango di Dio ci ha visto bene inserire delle strofe di Mogol/Battisti e durante L'innamorato ha omaggiato Ferretti e i suoi CSI, in un altro concerto vi saprà stupire con altre citazioni lasciando andare la sua fantasia musicale, seguendo il solo canovaccio che i grandi artisti sanno seguire, quello dell'improvvisazione.
Ora non resta altro che dare a Stefano il segnale che siamo ancora in tanti a ricordarci di lui, cercando questo piccolo disco, che però come le più belle cose andrà conquistato andando ai suoi concerti o cercandolo sul sito della sua etichetta.






martedì 7 settembre 2010

DISCHI IN ASCOLTO E NUOVE USCITE...in rigoroso ordine casuale...

EELS Tomorrow morning (Eworks Records, 2010)
Con Tomorrow Morning, Mister E conclude la trilogia partita con il garage-rock-blues di Hombre Lobo e continuata con l' ancora fresco e acustico End Times. Far uscire tre dischi nel giro di poco più di un anno è impresa di altri tempi, ma soprattutto mette davanti un artista ad eventuali critiche sulla bontà data dalla velocità delle opere pubblicate. A Mark Everett , tutto questo non interessa e conclude questo prolifico periodo di ispirazione, dettato dalle sue sventure di vita, dando alle stampe un disco che finalmente sembra dare un pò di luce positiva alle sue composizioni. Baby loves me e Spectacular girl sono lì a dimostrarlo. Cauta elettronica ed orchestrazioni si sovrappongono al classico pop rock , anche se in alcune occasioni sembra cavalcare l'autoplagio, rimane ancora quanto di meglio si possa ascoltare nel suo genere, soprattutto da un artista che non ha paura di mettere la sua vita in musica.

BLACK MOUNTAIN Wilderness Heart (Jagjaguwar, 2010)
Terzo album dei canadesi, dopo il buon successo del precedente In the future. Pur rimanendo fedeli al loro trademark atto nel pescare le sonorità del passato, che sia l'hard rock sabbathiano o purpleiano, la psichedelia o il folk ed unirli insieme in canzoni ipnotiche e dal sapore vintage, sfruttando le due voci maschile-femminile. In questo nuovo lavoro si nota una certa snellezza nelle composizioni, il singolo Old fangs ne è una prova, riff hard e tastiere devote al miglior Jon Lord. Le canzoni che prime erano un meltin' pot delle varie influenze ora seguono tutte una linea diretta e omogenea, quelle più propriamente legate al rock( con influenze che vanno dal hard rock '70 allo stoner) sembrano poste a inizio album, quelle più legate a certo prog-folk ( la finale Sadie) nella seconda metà del lavoro.
Certo i puristi del vecchio rock, non vi troveranno nulla di nuovo, ma quello che c'è è fatto molto molto bene.


IRON MAIDEN The final frontier (EMI, 2010)

Per quanto la loro carriera sia ormai più che trentennale, ai Maiden, bisogna dare atto di aver a loro modo continuato a sperimentare qualcosa di nuovo in ogni disco. Ricevendo spesso critiche che con gli anni hanno dato ragione a loro, vi ricorda nulla Seventh son of a seventh son? Se i capolavori sono già stati scritti e digeriti e l'ispirazione non li porterà più a scrivere gli inni metallici degli anni ottanta, dopo il ritorno di Dickinson alla voce e il buon Brave new World, un pesante calo di ispirazione sembrava abbattersi nei due dischi successivi. Ora a grande sorpresa ritornano con un album ambizioso, sicuramente la cosa migliore fatta uscire dai tempi di X Factor dell'era Blaze Bayley. La durata media dei brani continua ad essere lunga ma le canzoni sembrano reggere alla grande. L'apertura quasi tribale di Satellite 15...The final frontier, le atmosfere folkeggianti presenti in alcuni brani, la melodia di Coming home e la riproposizione di alcune cavalcate che li hanno resi quel che sono oggi( The Alchemist) fanno di questo album, un viaggio completo nel loro universo sonoro che si conclude con una When the wild wind blows da antologia. Un disco, sicuramente, non immediato ma da scoprire con calma ad ogni ascolto.

CYPRESS HILL Rise up (EMI, 2010)

Dopo la sbandata latina del precedente e lontano Till death do us part, i Cypress Hill cercano di rimettersi in careggiata. Sempre difficile per un gruppo che ha fatto la storia di un un certo Hip Hop con album epocali quali furono Temples of Boom e Black Sunday , rimanere a galla dopo tanti anni. I Cypress Hill possono sempre contare sul mestiere e l'aiuto di amici provenienti dal mondo rock per far sì che i loro dischi superino la sufficienza. Così se alcune canzone scivolano via abbastanza stancamente, risultando "vecchie", altre grazie all'innesto della chitarra pazza di Tom Morello(presente in Rise up e Shut 'em down) o all'aiuto di Daron Malakian dei System of a Down in Trouble Seeker sembrano riportare ai tempi del buon crossover di album come Skull & Bones e Stoned Raiders. Certamente non tra le loro migliori uscite ma sicuramente superiore alla media dei dischi del genere.

THE REVEREND PEYTON'S BIG DAMN BAND The Wages (Side One Dummy, 2010)

Reverend Peyton è uno dei più bizzarri e genuini personaggi che popolano la roots music americana. Armato di chitarra ed accompagnato solamente dalle dita della moglie Breezy impegnata alla Washboard e Aron Persinger alla batteria, il corpulento e barbuto reverendo ci stramazza con il suo country-blues da festa campestre. Immaginate di essere nella più classica delle case nella prateria tra fieno, galline starnazzanti e maiali intimoriti dalla sarabanda sonora messa in scena da questo trio di pazzi. Slide, armoniche, cori avvinazzati e tanto blues scorrono in Clap your hands,Everything's raising e nelle restanti canzoni di questo gruppo dell'Indiana. Un disco che potrebbe mettere ancora il buon umore nell'autunno alle porte.

BLACK COUNTRY COMMUNION Black Country (Mascot, 2010)
Se il 2009 è stato l'anno del supergruppo Chickenfoot, il 2010 sarà sicuramente l'anno dei Black Country Communion, nome sotto cui si celano "the voice of rock" Glenn Hughes alla voce e basso, il blues guitar-hero Joe Bonamassa, il figliol prodigo Jason Bohman alla batteria e Derek Sherinian, già tastierista dei Dream Theater. Dopo le convincenti ultime prove soliste, Hughes aveva voglia di tornare a suonare in un vero e proprio gruppo e se si esclude la parentesi nei Black Sabbath in coppia con Iommi negli anni ottanta, era dai tempi dei Deep Purple mark III che il bassista e cantante non si cimentava al servizio di altre persone. Non è difficile, visto i personaggi coinvolti, capire dove va a parare il gruppo, Hard blues settantiano, tanto melodico quanto carico e vibrante con un Bonamassa che spesso prende in mano le redini del gioco , permettendosi di duettare con mister Hughes. Disco che potrebbe rivaleggiare benissimo con l'altro supergruppo citato. Li aspettiamo alla prova del nove in sede live ma viste le premesse ci sarà di che divertirsi.

EDDA In Orbita (Niegazowana, 2010)
Ad un anno esatto dalla pubblicazione di quella splendida perla a titolo Semper biot, che sanciva il ritorno al disco di Edda, ex cantante dei Ritmo Tribale, l'undici settembre uscirà In orbita, ep contenente cinque pezzi registrati live durante la trasmissione In Orbita, trasmessa da Radio Capodistria e condotta da Elisa e Ricky Russo. Edda, in questo anno trascorso, ha visto il suo nome ritornare alla ribalta come ai bei tempi, forse anche di più, apparendo in televisione sulle reti pubbliche, chiamato ad aprire i concerti dei sempre amici Afterhours e ottenendo un successo che forse nemmeno lui, da anni impegnato a lavorare in una ditta che piazza ponteggi, si sarebbe mai immaginato. Mantenendo sempre il basso profilo e la modestia che lo contraddistingue e che esce anche da queste cinque performances tra cui la riproposizione di Suprema di Moltheni, artista apprezzato da Edda. Le altre quattro canzoni( Io e te, L'innamorato, Fango di Dio e Snigdelina) sono prese dal suo debutto solista e scritte a quattro mani con Walter Somà. Il disco pur nella sua brevità, riesce a cogliere quello che Edda riesce a trasmettere durante i suoi set acustici, fatti di improvvisazioni, di taglia ed incolla con altre canzoni di altri artisti, di scatti repentini e fulminei, di pause che la sua voce, senz'altro unica e originale in Italia, riesce ad accompagnare e seguire. Il disco si potrà trovare solamente ai suoi concerti o presso il sito dell'etichetta Niegazowama.

DEATH ANGEL Relentless Retribution (Nuclear Blast, 2010)
A volte anche quelle che sembrano delle grandi famiglie indivisibili, si rompono, vedi Sepultura. I Death Angel, fenomenale band ispano-filippina della seconda ondata thrash americana di metà anni ottanta, ritornano più feroci che mai dopo la perdita di bassista e batterista storici, facendo uscire quello che si può considerare senza ombra di dubbio il miglior disco dopo la reunion. Assalti alla vecchia maniera come Truce, Where day lay, River of rapture non si sentivano da tempo come originale è l'ospitata dei menestrelli Rodrigo & Gabriela, un duo di chitarristi acustici che non rinnega mai il loro passato metallico. Un disco urgente e spontaneo che grida vendetta per una delle band più originali uscite dalla Bay area californiana.