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martedì 19 novembre 2024
RECENSIONE: WARREN HAYNES (Million Voices Whisper)
domenica 10 novembre 2024
RECENSIONE: CHUCK PROPHET with ¿QIENSAVE? (Wake The Dead)
CHUCK PROPHET with ¿QIENSAVE? Wake The Dead (Yep Roc Records, 2024)
che Cumbia!
Gli artisti non puoi certo imbrigliarli dentro a qualche schema, non puoi pretendere che ti diano quel che vuoi tu. Viaggiano, si muovono, cambiano, vivono, a volte molto più velocemente dei loro fan, fermi a un palo, legati da un'apertura mentale miope, tarata spesso sul "bel" passato.
Se poi l'artista in questione si chiama Chuck Prophet, uno che in carriera si è sempre comportato come una palla da flipper esploratrice ed indagatrice, devi accettare tutto quel che gli passa per la testa. E molto spesso sono cose fighissime.
"Ogni due anni, in un modo o nell'altro, mi imbatto in qualcosa che mi entusiasma e mi porta da qualche parte, dove sento di non essere mai stato prima. Tutti i miei dischi sono una specie di reazione a quello che è venuto prima, e poi una svolta a sinistra".
Wake The Dead si candida a diventare uno dei dischi più divertenti e trascinanti del mio anno musicale. E pensare che ha preso forma in uno dei periodi più critici e neri per Prophet: nel 2022 esattamente a cavallo tra la fine della pandemia e la diagnosi di una brutto linfoma al quarto stadio fortunatamente poi guarito, anche per merito di questa musica.
"Dopo che hanno scoperto che avevo una massa nell'intestino, sono stato in una specie di terra di nessuno per circa 14 giorni" ha raccontato.
In attesa di buone notizie per il futuro fu rapito da una band che sentì suonare per caso, si chiamano ¿Qiensave?, un gruppo di fratelli che non arrivano ai trent'anni di casa a Salinas, comunità agricola sulla costa centrale della California. I fratelli Gomez hanno una casa studio di registrazione in mezzo al bosco e dopo la conoscenza con l'ex Green On Red, incuriosito, è diventata la base di partenza di questo suo sedicesimo disco.
Ma cosa suoneranno mai questi ¿Qiensave? per aver ipnotizzato così tanto il buon Prophet? Risposta: la Cumbia, genere tradizionale della costa caraibica colombiana, una miscela musicale di culture indigene, africane ed europee fatta di congas, farfisa, kalimba, banjo, guiro a cui Prophet e i suoi musicisti (i Mission Express) hanno aggiunto la classica strumentazione del country, del rock'n'roll e del surf.
"È la musica dei weekend della classe operaia e del Miller Time. La cumbia è romanticismo, cibo, famiglia, musica, ballo, da soli nell'ombra o con il partner. La musica può farti piangere, ma sono tutte lacrime di gioia, ed è meravigliosa" ha raccontato Prophet. Ecco così undici travolgenti canzoni dove tutta l'esperienza di Prophet viene filtatrata dai ritmi latini, quasi in stile Los Lobos ('Wake The Dead', 'Betty's Song' invitano a muoversi) anche il trotto country di 'Give Boy A Kiss' , la ballata con arrangiamenti d'archi e voci femminili 'Red Sky Night' che richiama fortemente Van Morrison, il rock di 'First Came The Thunder', le influenze sixties di 'Sugar Into Water', il blues a ritmo di valzer 'One Lie For Me, One For You' che vede la partecipazione di Charlie Sexton alla chitarra (i due sono stati in tour insieme recentemente) flirtano con quei ritmi mantenendo il trade mark di Prophet.
Non mancano due incursioni nell'attualità: 'In The Shadows (For Elon)' si imbarca nei viaggi spaziali che si è inventato Elon Musk e poi c'è quella 'Sally Was A Cop', viaggio più terreno nella disperazione senza date di scadenza che scrisse con Alejandro Escovedo, disperata e con le chitarre in primo piano.
Quando tocchi con mano le prime lettere della parola "fine" capita di assaporare con più gusto quelle piccole cose quotidiane per cui vale la pena vivere e lo canta bene nella ballata finale 'It's Good Day To Be Alive' con la moglie Stephanie Finch che partecipa ai cori.
Prophet celebra la vita mettendo sul piatto della bilancia la consueta arguzia di scrittura, le speranze e le paure e ci mette sul piatto un disco piacevolissimo (che invoglia ad alzare il volume) e a suo modo originale ma che soprattutto guarda avanti con musica sempre stimolante e mai banale.
venerdì 8 novembre 2024
RECENSIONE: CROSBY, STILLS, NASH & YOUNG (Live At Fillmore East 1969)
CROSBY, STILLS, NASH & YOUNG - Live At Fillmore East 1969 (Rhino, 2024)
magia eterna
Quando escono questi dischi mi sorge sempre la stessa domanda: fino a dove possono spingersi in profondità i pozzi da cui poter attingere vecchia musica registrata in passato? Un giorno si sarà ascoltato tutto il possibile, ma soprattutto arriverà prima questo giorno o arriverà prima l'epoca abitata da generazioni alle quali di tutte queste canzoni con una certa età sul groppone non interesserà più nulla, tanto da rendere vane e inutili (che brutta parola in questo contesto) queste uscite? Forse solo allora tutto si fermerà. Dispiace per chi non ci arriverà mai ma egoisticamente mi godo ancora queste purissime vette.
Quindi godiamoci questo ennesimo scavo nel passato che porta alla luce uno dei concerti al Fillmore East di New York (quello del 20 Settembre 1969 tra i quattro eseguiti in due giorni), che seguirono il loro debutto live come quartetto in quel di Chicago e la epocale apparizione a Woodstock dove un Neil Young quasi fantasma non volle nemmeno farsi riprendere dalle telecamere.
E l'entrata di Neil Young nel trio che aveva già pubblicato un disco di debutto, inizialmente fu proprio vista quasi come un lusso, "noi possiamo anche dar forma all'album ma sarà Neil a darci quel tocco in più di cui c'è sempre bisogno" disse Stephen Stills poco prima che la band entrasse in studio per registrare il seguito Deja Vu. Quella spinta fu data e questo live anche se forse non riuscirà a rubare i cuori di chi si avvicinò a certa musica con il doppio live Four Way Street (eccomi! ma siamo in tanti lo so) in qualche modo può dirsi pure migliore di quel disco. Difficile dire chi eccelle su chi perché la combinazione tra David Crosby, Stephen Stills, Graham Nash e Neil Young, quattro artisti diversi ma incastrati alla meraviglia, era capace di emanare pura magia che andava gustata in blocco. L'ho sempre vista così.
Basti l'ascolto di 'Helplessly Hoping' con quegli impasti vocali che spesso scivolano in risate e divertimento, una 'Guinnevere' che lascia gli stessi brividi della prima volta, la cristallina classe di Stills in 'Go Back Home', le voci ariose di 'You Don't Have To Cry' o una 'Our House' che Nash dedica a Joni Mitchell presente in sala nel set acustico o il blues di 'Long Time Gone', l'acidità elettrica di 'Wooden Ships' presa per mano da Crosby, l'espressività soul blues di Stills in 'Bluebird Revisited', quella chilometrica 'Down By The River' di Young dal set elettrico con l'aggiunta dei fedeli Dallas Taylor alla batteria e Greg Reeves al basso.
"Grandi momenti che non dimenticherò mai" dice Neil Young ricordando quelle serate. A chi lo dici...
mercoledì 6 novembre 2024
BLACK PUMAS live@Fabrique, Milano, 4 Novembre 2024
L'arma di pace in possesso dei texani Black Pumas ha un nome, un cognome e una presenza di tutto rispetto: Eric Burton. La sinergia che il cantante è riuscito a creare con il pubblico sin dal suo primo passo sopra al palco è stata incredibile ed è andata avanti senza sosta fino alla fine dell'ora e quaranta di concerto. Burton ha carisma nell'incarnare in un solo corpo l'immediatezza della rockstar, la comunicatività della popstar e il calore confidenziale del soul singer. Canta divinamente (toni bassi e acuti: la hit 'Colors' è servita su un piatto tutto da gustare, il contagioso pop di 'Ice Cream (Pay Phone)' fa ballare e cantare) intrattiene il pubblico, scende dal palco per camminare e cantare nel mezzo del parterre di un Fabrique pieno, stringe mani e abbraccia corpi, si concede ai selfie alla faccia di chi sequestra cellulari, danza, imbraccia una chitarra e canta 'Fast Car' di Tracy Chapman in solitaria come primo bis. Fa emozionare con l'esecuzione di 'Angel'.
Alla sua sinistra il compagno, mente del gruppo, Adrian Quesada, chitarrista, produttore (e attivista) guarda compiaciuto e compassato mentre con la sua chitarra e i suoi effetti dirige una band formata dalle due brave coriste Angela Miller e Lauren Cervantes; il tastierista JaRon Marshall; il bassista Brendan Bond, il batterista Stephen Bidwell e un percussionista, che sanno il fatto loro per classe e buon gusto esecutivo.
Se a inizio concerto sembrano gigioneggiare intorno al pianeta pop, quando ingranano la marcia con brani che indagano con più sostanza nella
Motown degli anni 60, 70, il folk, il rock, il funky e il soul, trasportandoli abilmente ai giorni nostri e trovando sublimazione nella jam finale di 'Rock And Roll', ultima traccia del loro secondo album Chronicles Of Diamonds, diventano irresistibili, dimostrando quanto possano allargarsi e spingersi ancora in futuro. Ecco, l'unico difetto: avrei voluto un po' di "sporcizia" in più.
La questione è proprio questa: i Black Pumas sembrano in pista da una vita ma lo sono solo da sette anni e due soli album e quando Burton e Quesada si incontrarono per puro caso con il primo che aveva una buona quantità di canzoni già pronte che trovarono finalmente la voce giusta ( che cercava fortuna negli angoli delle strade di Austin) per diventare reali e concrete, nessuno pensava a questo grande successo a livello mondiale. E invece: tanto divertimento e tanti giovani tra il pubblico che se uniti a quelli che negli stessi momenti stavano riempiendo l'Alcatraz per il concerto dei Fontaines DC rendendo un semplice lunedì sera a Milano in una serata ad altra gradazione rock, non può che far ben sperare per il futuro della musica e di un mondo continuamente sotto assedio, a partire dalla lunga nottata americana che ci aspetta. Viva la musica. Sempre.
Ps. Ad aprire il concerto il bravo Son Little che con voce, chitarra e simpatia riesce a conquistare il pubblico con il suo folk blues piacevole e diretto.
Foto: Enzo Curelli |