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giovedì 10 ottobre 2024

RECENSIONE: D-A-D (Speed Of Darkness)

D-A-D  Speed Of Darkness (AFM Records, 2024) 







danish breeze 

Quanti gruppi indossano così bene i propri quarant'anni (di carriera) come sanno fare i D-A-D? Pochissimi. Tanti compagni di strada si sono persi tra le vie sbiadite del rock nel nuovo secolo, altri arrancano bolsi senza meta e futuro, statici di fronte alla gloria passata, taluni sono impegnati da anni in reunion posticce e poco credibili. I danesi invece non mi deludono mai, ogni loro uscita discografica sprigiona freschezza, autoironia, goliardia senza mai sfiorare la banalità, anche se a volte fa capolino l'autocitazione ma c'è poco da preoccuparsi è solo il consolidato trade mark che ci parla. Sarà forse l'aria frizzante della Danimarca che ce li conserva ancora così bene? 
La formazione è la stessa di sempre (a parte il batterista Laust Sonne in formazione da venticinque anni ormai): gli incredibili bassi di tutte le forme e numero di corde di Stig Pedersen, l'inconfondibile voce di Jesper Binzer (anche chitarra) capace di graffiare e di morbide carezze melodiche, la chitarra indispensabile del fratello e mago Jacob A. Binzer. Campioni indiscussi nell'unire melodie malinconiche e dark con lo street rock’n’roll e quelle inconfondibili chitarre dal suono così americano che conservano ancora un po' di vecchia polvere country western degli edordi, questo tredicesimo disco è pieno zeppo di belle melodie. Circola voce che avessero qualcosa come quaranta canzoni pronte da cui attingere: ne hanno scelte quattordici per costruire un album che supera i cinquanta minuti. Forse non sono più i tempi di 'Sleeping My Day Away' o 'Grow Or Pay' in cima alle classifiche (in Danimarca rimangono un'istituzione da prima serata nella Tv nazionale) ma canzoni come 'The Ghost', 'Speed Of Darkness', 'Head Over Heels' e 'Crazy Wings', la ballata finale 'I'm Still Here' continuano ad emanare quell'antica magia, contenendo tutte quelle caratteristiche che all'ascolto ti fanno sobbalzare dalla sedia e dire questi sono i D-A-D nessun dubbio. È sempre il trade mark di prima. 
In mezzo a tanta melodia (uno dei loro migliori dischi sotto questo aspetto) sanno ancora grattare la superficie del rock'n'roll magari con meno esuberanza, ma certamente con più mestiere e controllo: dall'accoppiata iniziale 'God Prays To Man' (se solo la suonassero gli Ac Dc una canzone così oggi) e '1st 2nd & 3rd' cariche di groove, ai rock'n'roll 'Live By Fire' e 'Everything Is Gone Now', i rimasugli punk che innescano 'Waiting Is The Way', il singolo che inchioda 'Keep That Mother Down', il blues 'In My Hands', fino ai momenti più heavy come 'Strange Terrain' e la più "modernista"'Automatic Survival', hard al punto giusto tanto per non dimenticare quanto siano ancora capaci a far rumore. 
Per chi avesse voglia di festeggiare con loro i quarant'anni di attività (a inizio anno era pure uscita una raccolta) l'appuntamento è fissato per il 25 Novembre al Legend di Milano. Immancabili. Sono usciti vivi dagli anni ottanta, hanno superato brillantemente il ciclone grunge dei novanta, sono entrati nei 2000 con il vento in poppa come se nulla fosse. Cosa volete che siano quarant'anni da festeggiare?




sabato 5 ottobre 2024

RECENSIONE: THE CROWSROADS (Spaceship)

THE CROWSROADS
Spaceship (Slang Records, 2024) 





il futuro è adesso


Ricordo benissimo il mio primo incontro con i Crowsroads tra le strade di Brescia durante la festa della musica: chitarra, armonica, cajon e le loro armonie vocali che sposavano blues e west coast music. Giovanissimi e affamati di musica allora come oggi. Era il 2015, feci un post con una loro foto e scrissi "segnatevi questo nome". Quell'anno uscì anche il loro primo album Reels che metteva in fila i loro ascolti giovanili (come se fossero vecchi!) attraverso tante cover. 
Negli anni li ho incrociati ancora svariate volte tra concerti (il "mitico" 4/quarti, in apertura a Steve Forbert ) e dischi (On The Ropes uscito nel 2019, primo disco che conteneva brani autografi) ed ogni volta si poteva notare il miglioramento, constatare quanto quelle cover suonate sul ciglio di un marciapiede siano state assimilate per trovare una propria strada musicale che oggi si intravede molto più nitidamente anche se, ne sono sicuro, porterà ancora più lontano. 
I fratelli bresciani Matteo (voce e chitarra) e Andrea Corvaglia (armonica e voci) con Spaceship fanno non uno ma due passi in avanti in un solo colpo aiutati da Poncio Belleri (basso), Sebastiano Danelli (batteria) e Nicola Ragni (tastiere e ingegnere del suono): si percepisce la maturità acquisita, la voglia di crescere, di sorprendere e sorprenderci con la musica. Di quel folk blues scarno e quasi primordiale è rimasto lo spirito che serpeggia vivo e vivace le loro anime, musicalmente invece volano alto con un songwriting mai banale, pieno e ricco di vissuto e dettagli dove chitarre hard blues più toste del solito ('If It Wasn't', 'Hot Blood/Weak Knees') sposano ballate come 'Spaceship' e la finale, evocativa e sorprendente 'Showdown', le armonie vocali di 'More Than Everywhere', e dove un certo blue collar rock tutto americano fa spesso capolino nel crescendo di 'Last Glimpse Of You' e 'Isolate'. Insomma: il blues si fa maturo, si contamina e non ha paura di incontrare le belle melodie pop di una canzone vincente come   'Theseus & The Moon'. 
 E poi questa copertina che colpisce ingannando: potrebbe portare verso lo space rock ma come spiegano bene loro nelle note che accompagnano il disco:"questo album ha poco a che fare con la fantascienza. Parla delle cose più 'terrestri' che vi possano venirvi in mente...". E allora a me piace accomunarla alla copertina dove i Canned Heat vestiti da astronauti piantavano la bandiera americana sulla luna. Il disco si intitolava Future Blues. Il futuro è arrivato, la bandiera è italiana e Spaceship è un bell'esempio di Blues contemporaneo che guarda già al prossimo futuro. Intanto noi aspettiamo le prossime mosse comodamente seduti nel divano (ecco un altro divano in copertina!).






venerdì 4 ottobre 2024

BLACKBERRY SMOKE live@Alcatraz, Milano, 2 Ottobre 2024

foto: Curelli Enzo

Non sono mai uscito deluso da un concerto dei Blackberry Smoke. Perché? Perché ti danno esattamente quello che ti aspetti: giusto, pulito, con mestiere, facce allegre e molta onestà. Sempre confortanti. Va da sé che confermano i tanti pregi e alcuni difetti di sempre. Da una parte: gusto melodico, la capacità di unire chitarre (tre come piace al vecchio southern rock, ecco allora il sempre sorridente Paul Jackson e il sempre compassato Benji Shanks unirsi a Charlie Starr) con quella ariosa melodia country cara a gruppi come Outlaws e Eagles che fa spesso capolino. La concretezza di voce, chitarre, basso, batteria e tastiere e poche seghe strumentali (le chitarre fanno il loro lavoro senza eccessi da prima donna) e scenografiche, il fondale con la farfalla che campeggia nella copertina dell'ultimo disco Be Right Here e le giuste luci. Dall'altra manca sempre quel briciolo di spregiudicatezza,  pur nelle loro capacità, che li faccia osare di più spingendosi in  divagazioni strumentali più coraggiose che il vecchio southern rock, sempre lui il metro di paragone, ha tramandato. Charlie Starr si conferma un signor frontman e songwriter (non so perché ma mi immagino sempre una sua carriera solista parallela alla band): carisma, voce e chitarra guidano il gruppo, ecco l'unica mancanza è non avere nella band almeno un altro elemento con lo stesso carisma che possa rivaleggiare ad armi pari e portare quella "sana" rivalità che il rock conosce bene. A volte pretende. O porta distruzione o meraviglie, il rischio è dietro l'angolo. Forse i Blackberry Smoke amano poco i rischi. Forse questa è la loro natura e piacciono per questo: belle canzoni, suoni nitidi e puliti, perfino canticchiabili da tutti. L'ultimo album e The Whippoorwill i dischi più saccheggiati con quest'ultimo, forse il loro migliore, che regala canzoni diventate dei piccoli classici come la title track e One Horse Town. 


Un Alcatraz pieno di fan ormai fidelizzati vorranno pur dire qualcosa. Negli anni abbiamo visto gruppi con una storia ben più importante suonare nel locale dimezzato.

Anni fa quando scrissi del loro disco The Whippoorwill (2012) su una rivista mai avrei pensato potessero raggiungere questa notorietà qui in Italia. Lo sapete che a Biella esiste l'unica (credo) tribute band italiana a loro dedicata?

Ieri sera a Milano la band di Atlanta, Georgia, ha festeggiano la fine del tour europeo e ricordato pure chi non c'è più: con un accenno di Don't Come Around Here No More di Tom Petty, anche se l'avevano fatta anche due anni fa ma oggi è una data significativa, il 2 Ottobre di sette anni fa ci lasciava, ma soprattutto hanno tributato il loro storico batterista Brit Turner scomparso il 3 Marzo di quest'anno a soli 57 anni. E a rinsaldare l'amore con il pubblico italiano, a fine concerto mostrano uno stendardo a lui dedicato donato da alcuni fan. Vera commozione sui loro volti. Rock’n’roll, boogie rock (Waiting For The Thunder, Rock'n'roll Again) e ariose ballate country si alternano, accennano pure Willin dei Little Feat anche se pochi sembrano accorgersene, si divertono e ci si diverte nel finale. Portarsi a casa una serata di sano rock’n’roll americano (ad aprire il tosto rock blues di Bones Owens da Nashville) con poco più di 30 euro è impresa sempre più rara, meglio approfittarne sempre a patto di non spendere i soldi risparmiati in birra: 10 euro per una media di birra Ipa è un'esagerazione da non provare. L'ho lasciata lì. I soldi serviranno per il prossimo concerto.