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giovedì 31 ottobre 2024

THE WHITE BUFFALO live@Magazzini Generali, Milano, 29 Ottobre 2024

La prima volta che vidi White Buffalo rimasi un po' deluso (Brescia, anno 2016), per lo stesso motivo per il quale ieri sera mi sono invece divertito. L'approccio in your face dei loro concerti è molto diverso da quanto prodotto in studio di registrazione. La prima volta mi sorprese in negativo, questa volta, preparato alla serata mi sono goduto ogni passo, salto e smorfia di Jake Smith con i suoi due inseparabili sodali: il sempre simpatico e sorridente Christopher Hoffee alla chitarra elettrica e tastiere e il martellatore Matt Lynott dietro a una batteria che fa miracoli per non distruggersi sotto i suoi colpi (un pezzo infatti partirà via durante la serata. Miracolo non riuscito!).

La copertina del recente disco live A Freight Train Through The Night sembra simboleggiare bene cosa ci si trova davanti durante un loro concerto: gli abbellimenti da studio di registrazione (Jake è un perfezionista quando vuole) vengono lasciati in un angolo a favore di una visceralità quasi cowpunk dove tutto è permesso e che viaggia e sbuffa come un vecchio treno in corsa, senza paura di sbavature e imprevisti che invece ci sono e rendono tutto più "umano e più vero".


Le sue storie di vita dove si cerca di fare luce attraverso oscurità e difficoltà, la voce profonda e calda (innalzata al massimo quando rimane solo con l'acustica), la sua America musicale, incrocio tra country, folk (la sua prima chitarra la prese in mano a vent'anni folgorato da John Prine e Bob Dylan) e rock'n'roll suonato con foga, sono riuscite a riempire il lungo e stretto locale dei Magazzini Generali (mi lascia sempre un po' interdetto la planimetria del posto) di persone variegate che vanno da un perfetto suo sosia in prima fila ("hey Jake ma cosa fai ancora lì non sali sul palco? Ah no!") a tanti giovani e giovanissimi (tante donne), da chi l'ha conosciuto attraverso la serie Sons Of Anarchy (ecco una sempre splendida versione di House Of The Rising Sun e Come Join The Murder) e chi attraverso  l'ancora per me insuperato album Once Upon A Time  In The West (The Pilot, Stunt Driver, BB Guns And Dirt Bikes).

Spezzare la settimana con un concerto così fa bene all'umore tanto che il viaggio di ritorno, pur ostacolato da mille imprevisti tra lavori sulla tangenziale e uscite autostradali imposte, traffico in tilt per un concerto al Forum di Assago (Ghali?) e onnipresente partita di calcio a San Siro, sembra una tranquilla gita fuori porta con tanto di paesaggio da osservare (operai autostradali ovunque). Mi addormento alle due con le intense note del concerto che mi rimbombano ancora in testa. Alle 5 sono già sveglio. Maledetto cambio d'ora!




martedì 22 ottobre 2024

MARCUS KING BAND live@Fabrique, Milano, 20 Ottobre 2024

Foto: Curelli Enzo

Di cose belle ne capitano anche sotto il palco. Per esempio quando si aspetta il bis: mi sento stringere un braccio da due mani, un signore già con una certa età, con voce quasi rotta dall' emozione mi sussurra " che bravi, che bravi, sa che non li conoscevo". "Ah sì?" rispondo io. "Merito suo" mi dice, indicando quello che potrebbe essere suo figlio. Ecco: mi ha fatto una grande tenerezza e subito sul momento ho pensato che per conoscere nuova musica si abbia sempre tempo davanti a noi. Non si finisce mai di imparare.

Già, proprio bravo Marcus King from South Carolina, uno uscito con il cordone ombelicale con la musica che già gli scorreva dentro, quando poi il padre Marvin gli mise pure in mano la prima chitarra  a tre anni, il gioco fu fatto. Star is born. Che sia un fuoriclasse lo si capisce dalla estrema naturalezza con quale lega insieme decenni di american music (southern rock, hard blues, soul, R&b, ricami jazz e country) con la stessa naturalezza di un veterano dalle mille vite ma di anni Marcus King ne ha solo ventotto. La stessa naturalezza con la quale, oltre a suonare la chitarra divinamente, canta. Una voce soul che se ce l'hai ce l'hai, se non ce l'hai cambia mestiere. Voce che esce in tutta la sua limpidezza quando imbraccia una chitarra acustica e rimane solo sul palco.


Poi che sia pure un'ottima penna lo si capisce anche solo dagli ultimi album dove si è messo completamente a nudo, svelando le tante debolezze che lo hanno circondato negli ultimi anni e da cui è uscito vincente. Anche qui la musica ha avuto la sua importanza.

Basterebbe poi confrontare la diversità dei suoi ultimi due dischi per capire come sappia muoversi con naturalezza tra i generi: da una parte l'hard rock fumante seventies di Young Blood, dall'altra la morbidezza dell'ultimo album Mood Swings con canzoni che si portano a spasso un carezzevole soul e che hanno fatto storcere il naso a molti ma che in verità se prese una per volta sono tutt'altro che brutte ('Save Me', 'Bipolar Love', 'Mood Swings', 'This Far Gone', 'Fuck My Life Up Again' tra quelle suonate) e live, allungate con code strumentali e jam virano anche in altri campi poco arati.

Ad aiutarlo la seconda chitarra di Drew Smithers con il quale duella spesso e volentieri, il tastierista  Mike Runyon che ha lo sguardo rivolto sempre al cielo, il batterista Jack Ryan che detta bene i tempi  e il solido bassista di cui non so il nome.

Tra i paletti delle nuove canzoni inserisce qualche vecchio brano, l'immancabile 'Goodbye Carolina' e una serie di cover. Sì  perché è ancora così appassionato di musica che dopo cinque album continua a infarcire i suoi concerti di cover, passando da una ruspante  'Are You Ready For The Country' di Neil Young a una nuova 'Honky Tonk Hell' di Gabe Lee che uscirà nel suo prossimo disco (almeno così ho capito), da 'Good Time Charlie's Got the Blues' di Danny O'Keefe fino alla finale 'Ramblin Man' della Allman Brothers Band  eseguita con mestiere e devozione, saluto e omaggio a Dickey Betts che ci ha lasciato lo scorso Aprile. 

Io saluto il signore di prima ancora emozionato. Al ritorno in macchina  mi ascolto Wild God di Nick Cave che stasera a Milano, in contemporanea, nella sua personale chiesa ha fatto il pienone (il Fabrique è pieno ma a mezzo servizio). Chissà se il signore, non quello divino, ma quello emozionato lo conosce?



domenica 20 ottobre 2024

RECENSIONE: GILLIAN WELCH * DAVID RAWLINGS (Woodland)

GILLIAN WELCH * DAVID RAWLINGS  Woodland (2024)




in due è meglio

Gillian Welch e David Rawlings sembrano posare con orgoglio ma facce stanche sotto la scritta Woodland Studios, studi di registrazione a Nashville di loro proprietà che solo per un miracolo sono ancora in piedi dopo il terribile tornado che nel 2020, in piena pandemia, si è abbattuto sulla città. Lo studio è rimasto scoperchiato, tutto ciò che vi era all'interno è stato salvato con abnegazione e fatica, anni e anni di registrazioni e vita sotto la clemenza delle intemperie. Quattro anni dopo, ben tredici dall'ultimo disco di inediti insieme (The Harrow & the Harvest del 2011, in mezzo un album di cover All The Good Times) ritornano con dieci canzoni che per la prima volta vedono in copertina i loro nomi uniti, uno di fianco all'altro (anche se non ci sono), e per la prima volta decidono di colorare le liriche con nuove e tenui sfumature strumentali (una band dietro, lap steel, archi, violino, banjo) mantenendo però intonsa quella comunione d'intenti e spirituale che li accompagna da sempre. Compagni di musica e di vita, sono oggi tra i pochi a portare avanti con continuità, nonostante uscite discografiche ponderate, valori musicali che certi grandi songwriter americani si sono portati dietro nell'aldilà. Le loro canzoni viaggiano tra motel e parcheggi, lungo antiche ferrovie, sbirciano dentro le vite. Viaggiano in una continuità quasi senza tempo.

"Questo disco più di ogni altro nostro disco è un prodotto dei tempi in cui è stato creato" ha raccontato la Welch.

Guardano a un futuro quasi apocalittico con occhio critico e un po' satirico in The Day the Mississippi Died, stanno nel presente con le liriche della ipnotica Hashtag ma con il cuore aperto verso il compianto Guy Clark, Lawman entra nel blues di un omicidio, il fingerpicking costruisce e addolcisce The Bells And The Birds cantata con leggerezza impalpabile, in Turf The Gambler si insinua un'armonica, Empty Trainload of Sky scruta un panorama tutto americano dal finestrino di un treno, cantano della loro salda unione in What We Had (con l'ombra di Neil Young a fare ombra) e duettano nella finale Howdy Howdy, tutta la classicità del folk americano marchiato a fuoco in Here Stands A Woman tra Woody Guthrie e Bob Dylan racconta di passato, presente e futuro. È un per sempre.

Dieci canzoni di pura Americana tra folk e country a due voci, registrate in un studio di registrazione superstite e sopravvissuto e che sanno tanto di nuovo inizio.

Uno "splendido" nuovo inizio costruito, con quella pura limpidezza concessa a pochi, sopra alle macerie, un po' come quando vedi il tuo fiore preferito crescere forte e florido nel luogo più ameno e impensabile. C'è qualcosa di magico ma è tutto così estremamente naturale.

Nel suo universo uno dei dischi dell'anno.





giovedì 10 ottobre 2024

RECENSIONE: D-A-D (Speed Of Darkness)

D-A-D  Speed Of Darkness (AFM Records, 2024) 







danish breeze 

Quanti gruppi indossano così bene i propri quarant'anni (di carriera) come sanno fare i D-A-D? Pochissimi. Tanti compagni di strada si sono persi tra le vie sbiadite del rock nel nuovo secolo, altri arrancano bolsi senza meta e futuro, statici di fronte alla gloria passata, taluni sono impegnati da anni in reunion posticce e poco credibili. I danesi invece non mi deludono mai, ogni loro uscita discografica sprigiona freschezza, autoironia, goliardia senza mai sfiorare la banalità, anche se a volte fa capolino l'autocitazione ma c'è poco da preoccuparsi è solo il consolidato trade mark che ci parla. Sarà forse l'aria frizzante della Danimarca che ce li conserva ancora così bene? 
La formazione è la stessa di sempre (a parte il batterista Laust Sonne in formazione da venticinque anni ormai): gli incredibili bassi di tutte le forme e numero di corde di Stig Pedersen, l'inconfondibile voce di Jesper Binzer (anche chitarra) capace di graffiare e di morbide carezze melodiche, la chitarra indispensabile del fratello e mago Jacob A. Binzer. Campioni indiscussi nell'unire melodie malinconiche e dark con lo street rock’n’roll e quelle inconfondibili chitarre dal suono così americano che conservano ancora un po' di vecchia polvere country western degli edordi, questo tredicesimo disco è pieno zeppo di belle melodie. Circola voce che avessero qualcosa come quaranta canzoni pronte da cui attingere: ne hanno scelte quattordici per costruire un album che supera i cinquanta minuti. Forse non sono più i tempi di 'Sleeping My Day Away' o 'Grow Or Pay' in cima alle classifiche (in Danimarca rimangono un'istituzione da prima serata nella Tv nazionale) ma canzoni come 'The Ghost', 'Speed Of Darkness', 'Head Over Heels' e 'Crazy Wings', la ballata finale 'I'm Still Here' continuano ad emanare quell'antica magia, contenendo tutte quelle caratteristiche che all'ascolto ti fanno sobbalzare dalla sedia e dire questi sono i D-A-D nessun dubbio. È sempre il trade mark di prima. 
In mezzo a tanta melodia (uno dei loro migliori dischi sotto questo aspetto) sanno ancora grattare la superficie del rock'n'roll magari con meno esuberanza, ma certamente con più mestiere e controllo: dall'accoppiata iniziale 'God Prays To Man' (se solo la suonassero gli Ac Dc una canzone così oggi) e '1st 2nd & 3rd' cariche di groove, ai rock'n'roll 'Live By Fire' e 'Everything Is Gone Now', i rimasugli punk che innescano 'Waiting Is The Way', il singolo che inchioda 'Keep That Mother Down', il blues 'In My Hands', fino ai momenti più heavy come 'Strange Terrain' e la più "modernista"'Automatic Survival', hard al punto giusto tanto per non dimenticare quanto siano ancora capaci a far rumore. 
Per chi avesse voglia di festeggiare con loro i quarant'anni di attività (a inizio anno era pure uscita una raccolta) l'appuntamento è fissato per il 25 Novembre al Legend di Milano. Immancabili. Sono usciti vivi dagli anni ottanta, hanno superato brillantemente il ciclone grunge dei novanta, sono entrati nei 2000 con il vento in poppa come se nulla fosse. Cosa volete che siano quarant'anni da festeggiare?




sabato 5 ottobre 2024

RECENSIONE: THE CROWSROADS (Spaceship)

THE CROWSROADS
Spaceship (Slang Records, 2024) 





il futuro è adesso


Ricordo benissimo il mio primo incontro con i Crowsroads tra le strade di Brescia durante la festa della musica: chitarra, armonica, cajon e le loro armonie vocali che sposavano blues e west coast music. Giovanissimi e affamati di musica allora come oggi. Era il 2015, feci un post con una loro foto e scrissi "segnatevi questo nome". Quell'anno uscì anche il loro primo album Reels che metteva in fila i loro ascolti giovanili (come se fossero vecchi!) attraverso tante cover. 
Negli anni li ho incrociati ancora svariate volte tra concerti (il "mitico" 4/quarti, in apertura a Steve Forbert ) e dischi (On The Ropes uscito nel 2019, primo disco che conteneva brani autografi) ed ogni volta si poteva notare il miglioramento, constatare quanto quelle cover suonate sul ciglio di un marciapiede siano state assimilate per trovare una propria strada musicale che oggi si intravede molto più nitidamente anche se, ne sono sicuro, porterà ancora più lontano. 
I fratelli bresciani Matteo (voce e chitarra) e Andrea Corvaglia (armonica e voci) con Spaceship fanno non uno ma due passi in avanti in un solo colpo aiutati da Poncio Belleri (basso), Sebastiano Danelli (batteria) e Nicola Ragni (tastiere e ingegnere del suono): si percepisce la maturità acquisita, la voglia di crescere, di sorprendere e sorprenderci con la musica. Di quel folk blues scarno e quasi primordiale è rimasto lo spirito che serpeggia vivo e vivace le loro anime, musicalmente invece volano alto con un songwriting mai banale, pieno e ricco di vissuto e dettagli dove chitarre hard blues più toste del solito ('If It Wasn't', 'Hot Blood/Weak Knees') sposano ballate come 'Spaceship' e la finale, evocativa e sorprendente 'Showdown', le armonie vocali di 'More Than Everywhere', e dove un certo blue collar rock tutto americano fa spesso capolino nel crescendo di 'Last Glimpse Of You' e 'Isolate'. Insomma: il blues si fa maturo, si contamina e non ha paura di incontrare le belle melodie pop di una canzone vincente come   'Theseus & The Moon'. 
 E poi questa copertina che colpisce ingannando: potrebbe portare verso lo space rock ma come spiegano bene loro nelle note che accompagnano il disco:"questo album ha poco a che fare con la fantascienza. Parla delle cose più 'terrestri' che vi possano venirvi in mente...". E allora a me piace accomunarla alla copertina dove i Canned Heat vestiti da astronauti piantavano la bandiera americana sulla luna. Il disco si intitolava Future Blues. Il futuro è arrivato, la bandiera è italiana e Spaceship è un bell'esempio di Blues contemporaneo che guarda già al prossimo futuro. Intanto noi aspettiamo le prossime mosse comodamente seduti nel divano (ecco un altro divano in copertina!).






venerdì 4 ottobre 2024

BLACKBERRY SMOKE live@Alcatraz, Milano, 2 Ottobre 2024

foto: Curelli Enzo

Non sono mai uscito deluso da un concerto dei Blackberry Smoke. Perché? Perché ti danno esattamente quello che ti aspetti: giusto, pulito, con mestiere, facce allegre e molta onestà. Sempre confortanti. Va da sé che confermano i tanti pregi e alcuni difetti di sempre. Da una parte: gusto melodico, la capacità di unire chitarre (tre come piace al vecchio southern rock, ecco allora il sempre sorridente Paul Jackson e il sempre compassato Benji Shanks unirsi a Charlie Starr) con quella ariosa melodia country cara a gruppi come Outlaws e Eagles che fa spesso capolino. La concretezza di voce, chitarre, basso, batteria e tastiere e poche seghe strumentali (le chitarre fanno il loro lavoro senza eccessi da prima donna) e scenografiche, il fondale con la farfalla che campeggia nella copertina dell'ultimo disco Be Right Here e le giuste luci. Dall'altra manca sempre quel briciolo di spregiudicatezza,  pur nelle loro capacità, che li faccia osare di più spingendosi in  divagazioni strumentali più coraggiose che il vecchio southern rock, sempre lui il metro di paragone, ha tramandato. Charlie Starr si conferma un signor frontman e songwriter (non so perché ma mi immagino sempre una sua carriera solista parallela alla band): carisma, voce e chitarra guidano il gruppo, ecco l'unica mancanza è non avere nella band almeno un altro elemento con lo stesso carisma che possa rivaleggiare ad armi pari e portare quella "sana" rivalità che il rock conosce bene. A volte pretende. O porta distruzione o meraviglie, il rischio è dietro l'angolo. Forse i Blackberry Smoke amano poco i rischi. Forse questa è la loro natura e piacciono per questo: belle canzoni, suoni nitidi e puliti, perfino canticchiabili da tutti. L'ultimo album e The Whippoorwill i dischi più saccheggiati con quest'ultimo, forse il loro migliore, che regala canzoni diventate dei piccoli classici come la title track e One Horse Town. 


Un Alcatraz pieno di fan ormai fidelizzati vorranno pur dire qualcosa. Negli anni abbiamo visto gruppi con una storia ben più importante suonare nel locale dimezzato.

Anni fa quando scrissi del loro disco The Whippoorwill (2012) su una rivista mai avrei pensato potessero raggiungere questa notorietà qui in Italia. Lo sapete che a Biella esiste l'unica (credo) tribute band italiana a loro dedicata?

Ieri sera a Milano la band di Atlanta, Georgia, ha festeggiano la fine del tour europeo e ricordato pure chi non c'è più: con un accenno di Don't Come Around Here No More di Tom Petty, anche se l'avevano fatta anche due anni fa ma oggi è una data significativa, il 2 Ottobre di sette anni fa ci lasciava, ma soprattutto hanno tributato il loro storico batterista Brit Turner scomparso il 3 Marzo di quest'anno a soli 57 anni. E a rinsaldare l'amore con il pubblico italiano, a fine concerto mostrano uno stendardo a lui dedicato donato da alcuni fan. Vera commozione sui loro volti. Rock’n’roll, boogie rock (Waiting For The Thunder, Rock'n'roll Again) e ariose ballate country si alternano, accennano pure Willin dei Little Feat anche se pochi sembrano accorgersene, si divertono e ci si diverte nel finale. Portarsi a casa una serata di sano rock’n’roll americano (ad aprire il tosto rock blues di Bones Owens da Nashville) con poco più di 30 euro è impresa sempre più rara, meglio approfittarne sempre a patto di non spendere i soldi risparmiati in birra: 10 euro per una media di birra Ipa è un'esagerazione da non provare. L'ho lasciata lì. I soldi serviranno per il prossimo concerto.