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domenica 29 settembre 2024

RECENSIONE: JACK WHITE (No Name)

 

JACK WHITE  No Name (Third Man, 2024)






assalto rock

Detroit, Nashville e Londra. Sono le tre città, le uniche tre al mondo ad ospitare negozi della Third Man Records, da cui si è iniziato a spargere il nuovo verbo che poi è un ritorno a una vecchia lingua lasciata decantare un po' di tempo a favore di altri strani e bizzarri svolazzi sul pianeta musica. 

Capita che un giorno d'estate,  esattamente il 19 Luglio del 2024,  in contemporanea, i clienti che fecero un acquisto nei negozi della Third Man ricevessero un regalo in cassa, un vinile anonimo intitolato No Name  con due sole scritte, una per lato: "heaven and hell" e "black and blue". Ogni riferimento è puramente "non casuale". Me li vedo una volta  arrivati a casa, dimenticare i loro nuovi acquisti sul tavolo della cucina e incuriositi mettere subito sul piatto quel vinile misterioso. Non ci sono nemmeno i titoli ma appena appoggiata la puntina una scarica hard blues ha vibrato lungo la spina dorsale : è l'opener 'Old Scatch Bkues'. Perché  i titoli poi, sono arrivati con calma. E se ti sei recato alla Third Man Records e fai 1+1 capisci che quella voce, quella chitarra selvaggia, che macina riff e assoli acidi  sono di Jack White che ha deciso di promuovere così il suo nuovo disco in uscita. Il giorno dopo la notizia si è già propagata in tutto il mondo, l'invito a scaricarlo fa il suo "sporco" lavoro ma visto che Jack White è uno alla vecchia maniera, dopo un paio di mesi ecco anche la versione fisica per tutti. Ora si può dire: No Name è il nuovo disco di Jack White.  Un'operazione di marketing che aleggia tra passato e presente, romanticismo e spavalderia, cose da sempre comuni al suo autore. 

Che stia vivendo un periodo di grande ispirazione lo si era capito dall'ultima uscita Entering Heaven Alive (2002) che viaggiava in coppia con il più sperimentale Fear Of The Dawn. Ma se lì abbracciava l'intero universo musicale americano (spaziando tra rock e folk) su No Name a stagliarsi sopra tutto è l'urgenza elettrica di un hard blues ('Missionary')  sporcato di garage punk (l'assalto di 'Bombing Out') e qualche seme crossover anni novanta ('Bless Yourself' potrebbe uscire da un disco dei Rage Against The Machine, 'Number One With A Bullet' batte ritmi funk metal). La fascinazione per i Led Zeppelin è la torcia accesa che tiene vivo il suono delle tredici canzoni: 'It's Rough On Rats (If You're Asking)', 'Tonight (Was A Long Time Ago)' e 'Underground' camminano sul terreno delle brughiere britanniche calpestato da Plant e Page. Pure il passato a strisce ritorna prepotente in tracce come 'What's The Rumpus'. 

Un assalto sonoro (placato in parte nella finale 'Terminal Archenemy Endling') che mette in guardia tutti gli aspiranti rocker di questa terra. Una visione romantica di come si può lasciare ancora un segno nero e blu dopo averlo lasciato bianco e rosso. Se il rock vuole libertà e anarchia Jack White le indossa ancora con disinvoltura alle soglie dei cinquant'anni e in un mercato discografico che vivacchia grazie a uscite nostalgiche che guardano al passato (vecchi concerti come se piovesse), un'uscita del genere non può fare che bene. Una rinfrescata strabordante e sopra le righe. Che amiate o meno White: così è.






sabato 21 settembre 2024

RECENSIONE: BLUES PILLS (Birthday)

 

BLUES PILLS  Birthday (BMG, 2024)




nuovi nati

Molto probabilmente nell'imminete tour dei Blues Pills che toccherà l'Italia l'8 Dicembre (al Magnolia di Milano), la cantante Elin Larson viaggerà di città in citta, di palco in palco, in compagnia del piccolo pargolo nato da poco. La gravidanza l'ha accompagnata durante la registrazione del loro quarto disco Birthday appena uscito e la copertina e le foto interne che  ritraggono il pancione della Larson in bella evidenza  non cercano di nascondere nulla, anzi testimoniano la nuova vita, anche musicale e perché no cercano di lanciare un messaggio chiaro a una società che vede nelle gravidanze un ostacolo alla produttività. Ecco una buona risposta. 

Il chitarrista, ex bassista,  Zack Anderson in una recente intervista: "la musica rock è dominata da band composte esclusivamente da uomini, quindi sembra una cosa fantastica avere una cantante solista super incinta in copertina".

Un disco importante per la loro carriera: per come è nato e si è sviluppato, per la libertà di scrittura che hanno adottato, per verificare se i vecchi fan accetteranno queste novità.

L'impianto blues (che da sempre sposa l'hard blues targato seventies con Janis Joplin) è lo stesso di sempre, anche se con l'uscita di Dorian Sorriaux, visto recentemente live con gli americani El Perro ha portato via la componente più heavy, eterea e psichedelica. Il calore soul della voce della Larson si è mantenuto intatto, le chitarre graffiano ancora anche se meno sovente rispetto al passato (l'apertura 'Birthday' è comunque d'impatto) ma in questa raccolta di undici canzoni si percepisce la voglia di sintetizzare al massimo la forma canzone, di arrivare prima al punto anche cavalcando nuovi suoni che a qualcuno potranno far storcere il naso: 'Piggyback Ride', che loro dicono ispirata addirittura dai Gorillaz, è la più moderna con un riff di chitarra in bella evidenza, sezione ritmica funky e chorus che straborda con tutto il suo peso nel pop, 'Holding Me Back' è rock ma di quello che le radio più commerciali da pomeriggi settimanali non disdegrerebbero, 'Don't You Love It' tocca invece quei  territori boogie quasi danzerecci cari agli ultimi Black Keys.

Passate queste novità più spiazzanti i Blues Pills immergono le loro canzoni nel vecchio classico rock che include l'urgenza funky di 'Bad Choices', il blues in crescendo di 'Somebody Better' e quello acustico che va giù di slide ('Shadows')  più due ballate  ('Top Of The Sky' e  'What Has This Life Done To You') che sembrano spingersi indietro fino agli anni cinquanta. C'è pure una cover ('I Don't Wanna Get Back On That Horse') di un misconosciuto gruppo svedese, i Grande Roses,  con interventi di pianoforte e dai forti richiami gospel.

Gli svedesi con questo disco si giocano la carta della notorietà su scala mondiale. Hanno perso le spigolosità hard, gli allunghi psichedelici, fumosi e jammati, hanno guadagnato le canzoni, tutte belle secondo me. Il disco è piacevole ma per chi ha amato i primi due dischi potrebbe essere veramente troppo. Aspetteremo il prossimo nato (disco naturalmente) per vedere quale sarà la loro strada futura.






sabato 14 settembre 2024

MUDHONEY live@Santeria, Milano, 13 Settembre 2024


Forse il segreto sta tutto lì, in quella linea tentatrice che dal culto si espone al mainstream. I Mudhoney continuano a cavalcarla con lo stesso impeto, la stessa sregolatezza e lo stesso impulso primordiale degli esordi guardandosi bene nell'oltrepassarla. 

Nella sua autobiografia Steve Turner ha scritto: "Eddie Vedder non poteva andare al supermercato, ma io sì". Tutto detto.

Furono tra i primi a dare visibilità a una generazione (i Green River subito ma immancabile è Touch Me I'm Sick dietro) e possiamo dirlo: sono tra gli ultimi rimasti in piedi, fedeli a sé stessi. Quasi due ore di concerto pregne di calci sugli stinchi ben assestati e pure ben simboleggiati dalle due pedate che Mark Arm rifila ai due malcapitati (forse era pure lo stesso, recidivo) che hanno surfato per raggiungere il palco per un stage diving prontamente neutralizzato sul nascere. Una sala sold out  tenuta in pugno da tre ex ragazzi in buonissima forma (Mark Arm, Steve Turner, e Dan Peters) più l'ultimo entrato, comunque venticinque anni fa (il bassista Guy Maddison) che di posare le armi non hanno assolutamente voglia, tuttalpiù Arm posa la chitarra per impugnare il microfono e diventare il "crooner" del loro lato più punk e anarchico. 


Non si tira mai il fiato in mezzo alla loro commistione di garage rock, blues rumoroso e psichedelia acida, l'unica pausa la regala il basso di Maddison che richiede cinque minuti di manutenzione, Arm ne approfitta per per presentarci il suo bicchiere di Vermentino.

Presente, ben rappresentato dagli ultimi album  Digital Garbage e Plastic Eternity (saccheggiati a dovere) e passato (Superfuzz Bigmuff e Mudhoney usciti poco prima di entrare nei novanta) sono dati in pasto (quasi una trentina i brani in scaletta) con l'antica veemenza che negli anni ha guadagnato in esperienza e il rispetto che si deve a una band che stasera, ma lo farà fino alla fine dei suoi giorni, ha impartito una lezione di coerenza rock'n'roll che pochi possono vantare ed esibire con tale esuberanza dopo quarant'anni di carriera e che noi presenti ricorderemo certamente a lungo.




giovedì 5 settembre 2024

RECENSIONE: RED SHAHAN (Loose Funky Texas Junky)

 

RED SHAHAN  Loose Funky Texas Junky (Lemon Pepper Records, 2024)



la buona tradizione


Forse per molti basterà sapere che Marc Ford è il produttore del quarto disco del songwriter texano Red Shahan per avvicinarsi incuriositi. O forse basterebbe questa copertina che mi ha catturato ricordandomi il primo Little Feat, dove là c'era un muro qui c'è un vecchio vagone merci abbandonato.E sorpresa: ascoltando le canzoni lo spirito di Lowell George sembra avvolgerne molte, anche la voce di Shaham a volte ricorda George.

Se cresci nella desolazione del West Texas e in qualche modo ne esci fuori con le tue forze, qualche qualità dovrai pur averla. Red Shehan, che prima di scegliere la musica ha cercato la sua strada nel baseball, nei rodeo e perfino nel corpo dei pompieri, con Loose Funky Texas Junky cala tutte le sue carte vincenti confezionando un album profondamente americano giù fino alle viscere che potrebbe piacere a molti. La sbandata funky, promessa dal titolo, rispetto ai precedenti dischi (l'album è stato registrato nei leggendari Fame Studio, Muscle Shoals) è netta e preponderante fin dall'apertura Evangeline, dove serpeggia un po' dello spirito di Dr. John nell'uso di tastiere e piano, continua in canzoni come Wish Me Well e Ain't A Shame e nella più soul Desperate Company.

Uno stacco dal classico country texano che comunque continua là dove dominano chitarre e lap steel: Supernova è un country rock che ha l'incedere del Tom Petty dei tempi andati, Midnight Tiger un vivace honky tonk da consumare in strada, Room Full Of Desirée una ballata con il piano a dettare la falcata, Big Wide Open puro cantautorato texano.

Shehan canta di bar poco raccomandabili ma è anche molto introspettivo quando ci racconta le difficoltà famigliari post covid nel country folk di Clues.

Un album certamente piacevole che punta ad arrivare a più persone possibili senza svendersi. La firma di Marc Ford in produzione è la garanzia di qualità e la coda d'estate invita a salire su un'auto e viaggiare con queste canzoni a fare compagnia.