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mercoledì 17 gennaio 2024

Accadde oggi. 17 Gennaio 1974: BOB DYLAN- Planet Waves

BOB DYLAN - Planet Waves (Asylum, 1974)



riparto da qui

Recentemente, ascoltando Southern Blood, disco epitaffio di Gregg Allman,  mi sono imbattuto ancora una volta in ‘Going Going Gone’, stupenda, oscura e sempre sottovalutata canzone di un album dalla copertina enigmatica quasi alla Picasso, dominata da tre misteriose figure in bianco e nero, due simboli ben chiari e quelle due scritte a margine “Moonglow” e “Cast-iron songs & torch ballads” che creano confusione sulla vera identità del titolo e che vorrebbero fare da introduzione a un disco che indicò, ancora timidamente ma più marcatamente rispetto al precedente NEW MORNING, la strada musicale del nuovo decennio.

 PLANET WAVES è il disco delle prime volte e dei grandi ritorni: il primo e unico disco ufficiale lavorato e registrato interamente insieme a The Band in studio di registrazione, il primo e unico disco che non uscì per la Columbia (l’etichetta si vendicò stampando gli scarti del periodo), il primo disco di Dylan a finire al primo posto in classifica dove rimase per quattro settimane trainato anche dalla pubblicità della nuova etichetta Asylum di David Geffen, anche se alla fine tutto durò poco e non in modo così entusiasmante come sperato in partenza. Fu anche il primo disco registrato in un luogo che non fu New York né Nashville (a parte la soundtrack di Pat Garrett & Billy The Kid) fu il disco che riportò Dylan in tour, il tour che Geffen vendette come “il più grande evento nella storia dello show business” (40 date in 25 città) cosa che non succedeva dal lontano 1966 e il tutto verrà impresso nell’album live BEFORE THE FLOOD. Il primo album live ufficiale di Dylan. Un tour che, conti alla mano, fece più successo del disco in promozione, che ironia della sorte finì pure per uscire a tour già iniziato. Robbie Robertson: “Quando suonavamo dal vivo, la musica diventava dinamica, violenta ed esplosiva. Quando suonavamo in studio invece…

Fu il disco che per molti sancì il vero ritorno di Dylan. Registrato in poco più di una settimana e in tre sedute di registrazione nel Novembre del 1973, PLANET WEAVES prese forma a Los Angeles anche se molte canzoni vennero scritte a New York. L’idea originale racconta di un primo abbozzo di album che sarebbe dovuto uscire con il titolo Ceremonies Of The Horsemen.

Era impressionante produrre qualcosa di così potente in così poco tempo” disse il co produttore e ingegnere del suono Rob Fraboni.

Nato dalla scintilla che scaturì tra Robbie Robertson e Bob Dylan che si ritrovarono quasi per caso a oziare a Malibu (ci fu lo zampino del furbo Geffen), a risentirne o beneficiarne (punti di vista) è l’umore generale che veleggia sulle canzoni: un senso di rilassatezza che fa convivere la semplice quotidianità che caratterizzò il periodo post incidente a Nashville (l’apertura ‘On A Night Like This’) con l’oscurità e il presagio di qualcosa che non stava andando per il verso giusto; ecco l’amore vissuto in modo contrastante  (il folk di ‘Weeding Song’ dedicata indubbiamente a Sara scritta da Dylan in un batter d’occhio e che andò a sostituire la già pronta 'Nobody 'Cept You' poi comparsa sulle Bootleg series) con l’autobiografica, amara e dura analisi di se stesso: ‘Dirge’, voce e pianoforte è forse il capolavoro nascosto, una canzone dura, cruda e cinica come solo può essere una canzone che attacca con la frase “mi odio perché ti ho amato e per la debolezza dimostrata” e “sono felice che il sipario sia calato”, “ma sopravvivrò ” è il finale. E non sai mai quando inizia l’amore e quando il rimpianto: in ‘Something There Is About You’ si parla di amore, di morte e della sua vecchia Duluth. Non tutto è ancora bene a fuoco e la travagliata vita di un brano come  ‘Forever Young’, il più famoso del disco che diventerà un classico del suo repertorio, quasi inno (suo malgrado), canzone che Dylan scrisse a Tucson e che dedicò a uno dei suoi figli (Jakob?), è l’esempio più significativo: gli girava in testa da cinque anni e dopo aver addirittura pensato di escluderla una volta scritta, sotto l’insistenza del co produttore Rob Fraboni ne inserirà addirittura due versioni, una per lato. Una annulla l’altra o inspessiamo il concetto? Una terza, in solitaria, si materializzerà su Biograph. Un disco nato in fretta che rincorre il poco tempo. Per questo rimane sempre affascinante, e nonostante sia stato registrato in California, nella mia testa è sempre stato avvolto in una strana foschia novembrina che galleggia intorno a foglie secche, fuochi accesi e il rassicurante, caldo suono della Band che accompagna lì dietro. Se non è autunno questo? Fra poco sarà nuovamente primavera!





domenica 14 gennaio 2024

WINO live@Circolo Kontiki, Torino, 13 Gennaio 2024



Ci sono presunti eroi che si atteggiano a rockstar e poi c'è Scott WINO Weinrich, un vero eroe in musica e nella vita, che per la seconda volta nel giro di pochi mesi atterra a Torino città. A Giugno arrivò con la sua creatura Obsessed (un nuovo disco è in uscita in questo 2024), questa sera è qui per presentare il film documentario sulla sua folle vita da outsider, loser, gigante, faro, ispirazione, tutto può andar bene ma forse non basta per spiegare uno degli ultimi eroi di una scena musicale. Un monumento del doom, biker e girovago del Maryland, che attraverso Obsessed, Saint Vitus, Spirit Caravan, The Hidden Hand, Shrinebuilder, Probot ha attraversato gli ultimi quarant'anni di palchi, asfalto e qualunque altro ostacolo abbia trovato sul cammino, vite riacciuffate incluse.

A raccontarsi attraverso filmati live d'epoca,  backstage, viaggi on the road, lui stesso, e una pletora di amici e artisti: dagli illustri Henry Rollins (Black Flag) e Ian MacKaye (Fugazi)  al folle Bobby Liebling (Pentagram), da un fan sfegatato come Dave Grohl (Nirvana, Foo Fighters) a Pepper Keenan (C.O.C.) fino a sua madre novantenne.

A fine proiezione un set di quasi un'ora di folk blues acustico, intimo, autobiografico e nero con alcune sue canzoni tratte dal repertorio solista (il suo album Forever Gone del 2020, una pure nuova) più Isolation dei Joy Division e Iron Horse dei Motorhead del suo mentore Lemmy.

Naturalmente alla fine non si è sottratto a firma copie (al banchetto i due dischi degli Spirit Caravan recentemente ristampati) e foto di rito. Certo, fa specie vedere un personaggio come Wino in un piccolo Arci imboscato tra le vie della Vanchiglietta di Torino come fosse l'ultimo degli artisti di quartiere. Ma anche questo è rock’n’roll, pardon: Doom. E a noi piace.





domenica 7 gennaio 2024

RECENSIONE: UNCLE LUCIUS (Like It's The Last One Left)

 

UNCLE LUCIUS  Like It's The Last One Left (Boo Clap Records/Thirty Tigers, 2023)



l'ambizione che porta lontano


Non ci sono limiti questa volta, stiamo esplorando diverse aree della musica roots americana, e lo stiamo facendo a modo nostro. C'è una nuova prospettiva che deriva dall'allontanarsi da qualcosa per un po' e poi ritornarci. Puoi vederlo con occhi nuovi." Così Kevin Galloway, chitarra e voce,  racconta il ritorno degli Uncle Lucius.


Nati oltre vent'anni fa in Texas, con quattro dischi in carriera, cinque anni fa gli Uncle Lucius annunciarono lo scioglimento. Ma si sa, le cose buone sono difficili da distruggere, capita così che la loro carriera venga riportata in superficie e rilanciata da una serie TV come Yellowstone che usa una loro canzone nella colonna sonora e al giorno d'oggi le serie tv dettano legge anche nel mercato discografico. Il risultato sta tutto qui, in questo splendido disco del ritorno che vede la band alle prese con delle canzoni di rinnovata speranza e un suono mai così compatto ma allo stesso tempo vario. Nel frattempo il vecchio bassista Hal Vorpahl si chiama fuori pur essendo ben presente come produttore, musicista e in fase di scrittura, mentre la band viene rimpolpata con un nuovo bassista e un nuovo chitarrista.

Kevin Galloway che nel frattempo ha fatto uscire lavori solisti, guida la band con la sua voce greve e soul tra  territori americani amici (le antiche lezioni di CCR, The Band e Little Feat non sono disimparate) e oggi come oggi poche band posseggono la capacità di passare con disinvtura dal soul stile Muscle Shoals dell'apertura 'Keep Singing Along' alle esplosioni chitarristiche del southern rock di 'Trace My Soul' o all' hard rock’n’roll di squadra con inflessioni gospel di 'Holy Roller' con percussioni (Josh Greco), Hammond (Jon Grossman) e la chitarra di Mike Carpenter in primo piano.

Se 'Civilized Anxiety' batte territori bayou cari a quel genio di John Fogerty, 'I'm Happy' è una border song che avanza sorniona a ritmo di valzer e 'All The Angelenos' una festosa disamina sull'invasione dei californiani nel loro Texas con il violino ospite di Cody Braun dei Reckless Kelly, a stupire è il suono ampio e maestoso di canzoni come 'Heart Over Mind' e 'Tuscaloosa Rain' che con i loro arrangiamenti d'archi costruiscono un suono non distante da quanto insegnato da maestri di architettura sonora quali Burt Bacharach e Glen Campbell.

Il disco certamente più ambizioso della loro carriera che però  continua a mantenere le vecchie radici degli esordi senza disdegnare nuove interessanti strade per il futuro.