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sabato 28 gennaio 2023

RECENSIONE: URIAH HEEP (Chaos & Colour)

URIAH HEEP   Chaos & Colour (Silver Lining, 2023)



inossidabili

Guidati dall'inossidabile Mick Box, compositore e chitarrista mai troppo lodato, gli Uriah Heep ritornano a riprendersi la "vecchia" scena hard rock dopo gli anni di pandemia che hanno visto crescere e germogliare questo Chaos & Colour che ne vuole raccontare luci, ombre, incubi e speranze. 

"Quando il blocco ha iniziato ad allentarsi nel Regno Unito, siamo stati in grado di andare in studio (Chapel Studios, Lincolnshire) e registrare il nuovo album con il produttore Jay Ruston che era arrivato dall'America. Jay aveva anche registrato il nostro precedente album Living The Dream e siamo rimasti molto contenti del risultato. Quindi volevamo lavorare di nuovo con Jay su questo progetto" racconta il batterista Russell Gilbrook in una recente intervista.

Un album che prosegue in qualche modo il trend del precedente Living The Dream (2018) e se possibile migliorandone ancor di più ispirazione, freschezza e tiro. Con più di cinquant'anni di carriera, arrivati al venticinquesimo album, chiunque potrebbe sedersi sugli allori e godersi i fasti del passato, anche se bisogna dirla tutta, gli Uriah Heep hanno sempre dovuto lottare per farsi largo tra critica, cangianti mode musicali e cambi di formazioni.

Eppure, quando parte 'Save Me Tonight' scritta insieme a Jeff Scott Soto, capisci subito che non sarà così, ancora una volta. L'essere ancora qui, presenti e scalcianti nel 2023 è la loro miglior risposta e vittoria. La straordinaria voce di Bernie Shaw e le tastiere di Phil Lanzon, entrambi in formazione dell'ormai lontano 1986 sono diventate un nuovo marchio di fabbrica degli ultimi trent'anni di carriera ma in perfetta continuità con la storia della band. La freschezza della sezione ritmica formata dal batterista Russell Gilbrook e dal bassista Davey Rimmer donano invece dinamicità a un suono che cerca di legare la tradizione del passato con i nostri tempi. In mezzo alla già citata apertura e alla finale 'Close To Your Dreams', che sembra iniziare là dove finiva la vecchia 'Easy Livin', c'è tutto il loro universo fatto di massiccio hard rock ('Hurricane', 'Fly Like An Eagle'), di incalzante groove melodico ('Silver Sunlight'), break psichedelici ('Hail The Sunrise' con il suo Hammond imperante sembra uscita dai 70, la cangiante e fantasy 'You'll Never Be Alone'), fughe progressive (gli otto minuti di 'Freedom To Be Free', 'Golden Light', 'Age Of Changes') e ballate (il pianoforte e la voce si Shaw sono protagoniste di 'One Nation, One Sun').

Un album compatto che cerca di unire tanti anni di carriera e tutte le sfumature musicali che hanno da sempre caratterizzato il loro suono. L'inconfondibile miscela di chitarre e tastiere, le fughe strumentali, l'intersecarsi perfetto tra potenza e melodia, le armonie vocali e le atmosfere epiche  sono quelle di sempre. Riconoscibili.

Potrebbe essere impresa difficile dopo tanti anni, e invece il miracolo continua a compiersi con rigenerante vivacità.




giovedì 26 gennaio 2023

DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA # 86: DAVID CROSBY (Croz)

DAVID CROSBY  Croz (Blue Castle Records, 2014)


un ricordo

Quando lo vedi sopra al palco catalizza l'attenzione con il solo carisma senza spostarsi di un centimetro, tanto da mettere in ombra i suoi fidi compagni di sempre: il lunatico e bizzoso Stephen Stills e l'etereo e più ginnico Graham Nash. I pochi ma sempre lunghi e candidi capelli bianchi al vento, i baffoni come li portava già nel 1969-gli manca solamente la giacca di renna scamosciata con le frange, la stessa indossata poi da Dennis Hopper in Easy Rider-la voce inconfondibilmente pura che fluttua nell'aria, il fisico segnato dalla vita- ma poi nemmeno troppo diverso rispetto a noi comuni mortali-David Crosby ha sempre incarnato lo spirito del suo tempo "migliore", quello sognante, quello ancora lontano da una tentata autodistruzione culminata negli anni ottanta e costruita su abusi, armi da fuoco illegali, galere e dalle inevitabili conseguenze prodotte da un trapianto di fegato avvenuto nel 1994 e da ripetuti attacchi al suo debole ma roccioso cuore. Nonostante tutto sembra ancora lo specchio di quel periodo, epoca che apriva e chiudeva il sogno americano con la conseguente rassegnazione di chi si è bruciato tutto, troppo in fretta, per troppi ideali disattesi e troppe utopie. Una generazione che ci ha provato: "un grande uomo disse 'ho un sogno'. Un altro arriva e gli spara in testa" canta in Time I Have. La fortuna di guardarsi indietro e spiare in avanti fa spesso capolino tra i testi (Slice Of Time, Holding On To Nothing). La  fortuna di un sopravvissuto. Crosby ringrazia. Di tutte queste cadute con relative rinascite canta nella personale Set That Baggage Down, uno dei picchi confessionali e musicali del disco con una chitarra elettrica che fa il suo, un groove che sale ed un'esortazione ad alzarsi sempre e comunque davanti ad ogni sciagura: "Rise Up, Rise Up" canta nel finale.

Dopo un capolavoro epocale e tanto "malato" da non fargli nemmeno ricordare il proprio nome (If I Could Only Remember My Name del 1971), disco che lo consacrò guida spirituale dell'intero movimento della West Coast Californiana e tra i manifesti più puri e lisergici dell'epoca, dopo la risposta a quella domanda avvenuta a quasi vent'anni di distanza, anni di rinascita soprattutto fisica (Oh,Yes I Can del 1989), dopo le tante strade percorse, anche sbagliate, del poco significativo disco di cover Thousand Roads del 1993: ad altri vent'anni dal quest'ultimo disco, ci rivela il nome, la sua identità. Chiamatemi tutti Croz sembra voler dire, sbattendo un significativo primo piano del suo faccione in copertina senza nessuna remora nel mostrare rughe e segni di vecchiaia (il CD è avvolto in un digipack veramente ben rifinito). Con l'unico rimpianto-suo e nostro-di essere arrivato al solo quarto disco solista in cinquant'anni di carriera, trascorsi come si farebbe sopra ad una montagna russa senza fine, dai fasti inarrivabili di Byrds e CSN & Y ai buchi degli anni ottanta pur con qualche sporadica e buona perla da cercare nei dischi targati CSN (Delta, Compass, Dream From Him).



Un disco che non lascia sorprese epocali, non si avvicina minimamente al capolavoro della vita anche se ha in comune quella impalpabile flessuosità che lo accompagna da sempre, ma  è una foto fedele del suo autore negli ultimi anni, uno sguardo attento alla sua anima interiore e a quello che lo circonda, perché lontano dalle scene e dalla vita, nell'ultimo ventennio, non ci è mai stato veramente. In pista sia con i compagni di una vita girando il mondo in tour, con il solo fraterno Nash (bello e spesso dimenticato è il loro disco del 2004), e con il gruppo CPR messo in piedi con il figlio ritrovato James Raymond (qui arrangia, produce e suona molto). Proprio da qui si riparte. Scritto interamente con il figlio, Croz è un album  dal passo lento, armonico, dal feeling jazzato che non ha fretta di arrivare, che non cerca i facili consensi: "l'ho scritto per me stesso" dice Crosby.

Un album contemplativo fin dall'iniziale What's Broken con la chitarra carezzevole di Mark Knopfler, brano piacevole anche se i due non si sono mai incontrati veramente-hanno collaborato a distanza-un qualcosa che ai tempi d'oro non sarebbe mai successo. A pensarci si perde un po' di quella antica magia che invece sembra avvolgere tutto il lavoro. Se ne prende atto e si va avanti tra stoccate alla moderna politica militare USA (la fumosa Morning Falling); acuti quadretti sulla prostituzione giovanile condotti con sola voce e chitarra arpeggiata (If She Called) e dipinti con la saggezza paterna dopo aver visto delle giovani ragazze al lavoro in un marciapiede fuori da un hotel dove soggiornava in Belgio; le immancabili armonie vocali che escono da Radio; i raffinati velluti jazzistici sia in Holding On To Nothing offerti dalla tromba di Wynton Marsalis che si mescola ad una chitarra acustica e nella finale Find A Heart vetrina musicale per i virtuosi ospiti Steve Taglione (sax) e Leland Sklar (basso); ma anche la sorprendente esplosione elettrica nella seconda metà di The Clearing, tra le più rock delle undici tracce -insieme a Set That Baggage Down- con il synth del figlio James Raymond e le chitarre di Marcus Eaton e di Shane Fontayne (che qualcuno ricorderà alla corte di Bruce Springsteen nel tour del 1993) a  dar battaglia. Però non tutto gira bene e Dangerous Night cade nello scalino di un AOR stanco e poco incisivo.

Eterno rispetto per un uomo (superstite) che ci fa visita solo quando ha qualcosa da dire. Un disco che avrà scritto solamente per se stesso, come dice, ma con la classe appartenente a pochi e la capacità di arrivare ancora a molti.




giovedì 12 gennaio 2023

LUCINDA WILLIAMS live@Teatro Lirico Giorgio Gaber, Milano, 10 Gennaio 2023

 


Quando parte 'Blessed', la prima canzone ma dopo poche parole Lucinda si ferma confusa in preda a chissà quali fantasmi, si capisce che sarà un concerto tutto in salita. Fortunatamente il caos mentale (oltre alla deambulazione sofferente lascito dell'ictus che l'ha colpita un paio di anni fa) dura circa un quarto d'ora  infarcito da colpi di tosse, soffiate di naso, strofe e attacchi  di canzoni sbagliate e così anche l'esecuzione della mia tanto attesa 'Drunken Angel' va a farsi "benedire". I suoi bravi musicisti con Doug Pettibone in prima fila cercano di metterci una pezza. A questo punto o va tutto in vacca, ciao e arrivederci, o ci si aggrappa a un miracolo. E qualcosa avviene veramente. Come quelle partite di calcio che si mettono subito male dopo il fischio d'inizio: dopo pochi minuti perdi due a zero e giochi pure in dieci perché un giocatore viene espulso. Ma con il cuore e la caparbietà a fine partita porti a casa un pareggio che vale come una vittoria. Lucinda Williams da metà concerto e soprattutto nel finale rinasce e pareggia ciò che ha fatto, o non  ha fatto all'inizio. La sua voce, a tratti straordinaria, e l'esecuzione di 'Essence', 'Copenhagen', 'Honey Bee' e 'Joy' pareggiano il conto. Dalla truffa al trionfo il passo è stato breve ma sudato. Un po' cone nella vita e stasera Lucinda ce l'ha messa tutta davanti agli occhi la sua vita, le sue debolezze, il suo fisico, il suo cervello e il suo cuore. 

Ecco, io il finale non lo avrei regalato a Neil Young, ma sono particolari e Rockin' In The Free World sembra messa lì come atto simbolico e Lucinda Williams con la mano in alto e le dita a "v" di vittoria con il teatro in piedi è il fotogramma che mi porto a casa di una serata sofferente che verrà ricordata, non come una delle migliori ma una delle più umane certamente.

Setlist

Blessed

Protection

Right in Time

Stolen Moments

Drunken Angel

Lake Charles

Big Black Train

Born to Be Loved

Copenhagen

All I Want

Essence

Pray the Devil Back to Hell

Honey Bee

Joy

Righteously

Rockin' in the Free World



domenica 8 gennaio 2023

THE LU SILVER STRING BAND live@Blah Blah, Torino, 5 Gennaio 2023



Primo concerto del 2023 all'insegna del puro rock’n’roll. Un battesimo ben'augurante, speriamo, con una delle migliori band italiane del settore.

Lu Silver (Luca Donini), una carriera trentennale alla spalle, divisa tra gli Small Jackets che lasciò nel 2010 per intraprendere una carriera solista che a sua volta si divide in due facciate "ma della stessa medaglia" come dice lui. E ieri sera le ha presentate entrambe in un concerto diviso in due set.

La prima faccia, quella "soft rock" del suo album solista Luneliness, frutto del lockdown, è più intimista e legata al folk, al country e a un certo west coast sound anni settanta. Ad accompagnarlo i fidi El Xicano, flemmatico, al basso, il tarantolato Ale Tedesco alla chitarra e Riccardo Bufalini alla batteria. Una maniera diesel per scaldare il pubblico in attesa della seconda faccia rockista ed elettrica. Veloce cambio di batteria ed ecco arrivare la furia di Danny Savanas direttamente dagli Small Jackets.


Un set incendiario quello dei romagnoli che ripercorre l'ultimo album intitolato citando e rubando  dal canzoniere di Neil Young: Rock'N'Roll Is Here To Stay, uscito nel 2020 per la GoDown Records, è il loro secondo disco.

Lu Silver è carismatico e il boogie rock'n'roll che esce instancabile è un treno in corsa che ha poche soste, quando lo fa, si ferma nelle più calde stazioni rock popolate da Faces, Status Quo, Stones, Quireboys, Grand Funk e il caldo southern rock americano. Un set viscerale e vibrante con un pubblico partecipe e pure il sipario per una sorpresa "indigena" sul palco. Torino, "la Detroit d'Italia" come Lu Silver apostrafa la città, ha risposto alla grande.

In scaletta anche 'Hard Road' dell'australiano Stevie Wright "papà non accreditato" degli AcDc e una elettrica e sempre terremotante Ramblin' Rose degli MC 5 posta in chiusura.

Buon 2023!


venerdì 6 gennaio 2023

RECENSIONE: IGGY POP (Every Loser)

IGGY POP   Every Loser (Atlantic Records/Gold Tooth Records, 2023)


il primo disco del 2023

Parlando del suo ultimo album Free uscito nel 2019 Iggy Pop disse: "questo album in qualche modo mi è capitato e ho lasciato che accadesse". Ne venne fuori un disco amaro, contemplativo, meditativo, dal carattere musicale vicino al jazz.

Ora non so se si potrà dire la stessa cosa di queste nuove undici canzoni (ma due sono brevi interludi parlati) visto il dispiegamento di forze che c'è dietro. In regia c'è il produttore e musicista Andrew Watt, il novello Rick Rubin che non si fa problemi a passare dal pop di Justin Bieber e Ed Sheran a leggende del rock. Facendo incetta di premi. Sue sono le flebo che hanno tenuto in piedi gli ultimi due dischi di Ozzy Osbourne. E visto che dietro si è creato un bel impero, ecco la sua etichetta e alcuni musicisti come Chad Smith e Duff McKagan che porta sempre con sé (c'erano anche sull'ultimo Patient Number 9 di Ozzy). In più per non farsi mancare nulla  una parata di stelle del rock che comprendono Travis Barker dei Blink 182 , Stone Gossard dei Pearl Jam, l'ex chitarrista dei Red Hot Chili Peppers Josh Klinghoffer, Dave Navarro ed Eric Avery dei Jane's Addiction e Taylor Hawkins dei Foo Fighters forse in una delle sue ultime performance in studio di registrazione.

"Persone che conosco fin da quando erano bambini e la musica vi farà impazzire" ha lasciato detto un raggiante Iggy Pop.

Quando attacca 'Frenzy' però capisci che Iggy Pop si è lasciato alle spalle lo sguardo contemplativo sul trascorrere del tempo, quasi una dichiarazione di sopraggiunta vecchiaia che permeavano gli ultimi dischi (toccando il top con Post Pop Depression, il progetto insieme a Josh Homme) per riprendersi, fosse anche solo per l'ultima volta, la paternità di certi suoni. Dentro ha ancora qualcosa da sputare fuori e si fa aiutare volentieri da Watt, la sua chitarra e la sua nutrita squadra.

 Every Loser saccheggia qua e là nella sua carriera con gli Stogees e solista. Non lo sentivamo così dentro a certi suoni dai tempi di Skull Ring, un disco che abbracciava il punk ma che poi non fu così memorabile. Meglio tornare indietro ai tempi di Naughty Little Doggie (1996) e del sempre bistrattato Beat Em Up (2001).

Le prime parole che si sentono quando attacca 'Frenzy', un rock contagioso e ululante ma abbastanza scontato con cori da arena rock, è "got a dick and two balls"!  Come tutti noi uomini ma lui è Iggy Pop. Naturalmente a dispetto dei suoi 75 anni sembra funzionare ancora tutto bene.

Tra assalti rock'n'roll in stile Detroit sound come 'Modern Day Rip Off', che ricorda da vicino Alice Cooper, il punk tout court di 'Neo Punk', i suoni eighties con reminiscenze New wave di 'Strung Out Johnny' e 'Comments' (una riflessione sui social media), a colpire nel segno sono però le canzoni dove la sua vecchia voce da crooner si piazza davanti a tutto e la musica dietro si quieta: 'New Atlantis' (un'ode a Miami), la ballata acustica 'New Morning', tra i picchi melodici e malinconici del disco e la finale 'Regency', la più lunga e sfaccettata che parte lenta per poi aprirsi ad una invettiva contro un certo potere imperante.

Non farà compagnia ai suoi grandi dischi ma Every Loser suona comunque fresco e battagliero per essere uscito da un settantacinquenne che in vita ne ha viste di tutti i colori e con le ultime uscite sembrava godersi la meritata pensione dei rocker crogiolandosi su territori e colline più dolci e meno aspre.

Un disco spassoso e divertente per aprire un nuovo anno di musica.





lunedì 2 gennaio 2023

RECENSIONE: MESSA (Close)

MESSA  Close (Svart Records, 2022)


davanti a una scelta: ecco il mio disco del 2022

Ecco il disco che smentisce tante persone: chi con troppa facilità ripete "non escono più dischi rock con qualcosa da dire", chi "in Italia non si fa rock", chi "ascolto solo cose vecchie che tanto...", chi "il rock italiano non sfonda all'estero", chi "i giovani non suonano più rock". 

In giorni dove i confini sono teatro di sanguinose atrocità nel nome della supremazia è bello rifugiarsi in dischi come questo. Sì, i Messa sono italiani e qualcuno dall'alto del loro stupendo terzo album Close li ha innalzati a suprema eccellenza tutta italiana. Certo, fa piacere. Però c'è veramente di più. Lo si capisce osservando la danza tribale Nakh delle donne nordafricane nella bella foto di copertina (e libretto compreso): agitano i capelli, muovono il collo, sono in movimento. Ecco: "movimento senza confini" sono parole che ben si adattano a questo disco e alla filosofia "aperta" della band. I Messa hanno fatto un lavoro straordinario: partendo dalla base heavy doom non hanno posto limiti (come la voce della brava Sara Bianchin) alla loro visione musicale che serpeggia senza guardare l'orologio tra il blues americano e il folk africano e mediorientale, il prog anglosassone, la psichedelia e il jazz (qui sale in cattedra il chitarrista Alberto Piccolo) in un vortice emozionale che non respinge ma ingloba. Dove luce e oscurità, occulto e sensualità, mistico e terreno, drammaticità e nostalgia flirtano in continuazione senza dare riferimenti, senza prevaricazioni. Dai territori carsici del loro Veneto ai deserti sahariani e poi ancora in qualunque parte voi vogliate.

I loro live poi, sono un'esperienza da vivere fino in fondo: catartici, ispirati, coinvolgenti anche per orecchie non avvezze a certi suoni. Se entri in sintonia con il loro vortice è fatta. Ne esci solo a concerto finito. Forse. È lì che vincono e convincono. La capacità innata di assorbire cinquant'anni di rock  sprigionandoli fuori in modo originale è virtù rara concessa a pochi. Sara tocca vette vocali con disarmante facilità, Alberto con la chitarra spadroneggia passando dal doom al jazz con tutto quello che c'è in mezzo (sua maestà il blues), il basso distorto e psichedelico di  Marco e la batteria di Rocco disegnano lo scenario intorno.

Si insomma, se l'Italia avesse la cultura rock di altri paesi europei, i MESSA sarebbero  venerati come si deve. Un patrimonio da difendere con passione ma con ancora tutta una carriera davanti.

Coraggiosi, interessanti, sorprendenti.





domenica 1 gennaio 2023

32 DISCHI per ricordare il mio 2022




LEE FIELDS - Sentimental Fool

KEVIN MORBY - This Is A Photograph

BUDDY GUY - The Blues Don't Lie

THE HELLACOPTERS - Eyes Of Oblivion

MEGADETH - The Sick, The Dying And The Dead!

JONATHAN JEREMIAH - Horsepower For The Streets

JOHN MELLENCAMP - Strictly A One- Eyed Jack

JACK WHITE - Entering Heaven Alive

THE AFGHAN WHIGS - How Do You Burn?

MADRUGADA - Chimes At Midnight

THE BLACK ANGELS - Wilderness Of Mirrors

THE HANGING STARS - Hollow Heart

SCORPIONS - Rock Believer

MICHAEL MONROE - I Live Too Fast To Die Young!

FANTASTIC NEGRITO - White Jesus Black Problems

JOHN DOE - Fables In A Foreign Land

KING'S X - Three Sides Of One

BEN HARPER - Bloodline Maintenance

MESSA - Close

EDDA - Illusion

NEBULA - Transmission From Mothership Earth

PAOLO NUTINI - Last Night In The Bittersweet

TEARS FOR FEARS - The Tipping Point

MANUEL AGNELLI - Ama Il Prossimo Tuo Come Te Stesso

THE CULT - Under The Midnight Sun

KREATOR - Hate Uber Alles

OZZY OSBOURNE - Patent Number 9

MICAH P.HINSON - I Lie To 

TOM PETTY And The HEARTBREAKERS - Live At The Fillmore 1997

JOHN NORUM - Gone To Stay

OLD CROW MEDICINE SHOW - Paint This Town

ZZ TOP - Raw