Un contrasto vincente! Non lasciatevi ingannare troppo dalla copertina che li ritrae seduti, elegantemente vestiti, su due poltrone Chesterfield. E non dovrete farvi ingannare nemmeno da come si presentano in concerto: esattamente così. A cambiare sono solo le poltrone vintage, sostituite da due poveri sgabelli. Dal lato blu notte esce la figura di Enrico Sauda, seduto alle prese con le sue chitarre (cigar box artigianali comprese), dal lato rosso carminio Beppe Facchetti, seduto dietro a cassa e rullante. Il minimo indispensabile. Il contrasto qual è allora? La musica. Perché proprio di sottrazione vivono le loro canzoni. I due esperti musicisti bresciani sono in giro da circa due anni sotto il nome Superdownhome, ma solo ora sembrano aver trovato la strada vincente, e ce la mostrano con questo primo ep prodotto da Marco Franzoni e Ronnie Amighetti (preludio a qualcosa di più sostanzioso, si spera) composto da cinque brani: quattro autografi e la cover di ‘Shake Your Money Maker’ di Elmore James. Sauda e Facchetti hanno trovato nel rock blues viscerale, terroso, innaffiato da buone dosi di alcol, e molto vicino a personaggi come Seasick Steve e Scott H. Biram (giustamente omaggiati durante i live), ma anche i Black Keys, il loro punto in comune. Basterebbe l’ascolto della riuscitissima ‘Can’t Sweep Away’ a fugare ogni dubbio, con il bellissimo video compreso. Enrico Sauda è un dotatissimo chitarrista dall’animo rock blues, con un alcuni dischi solisti alle spalle, attualmente in vista con la band The Scotch, ammirata recentemente in apertura a Alejandro Escovedo a Chiari; Beppe Facchetti ha un curriculum vitae lunghissimo (che potrete cercarvi nel web) per cui mi limito a citare il suo prezioso lavoro con The Union Freego e Slick Steve And The Gangsters. Two men band, a volte è meglio di one.
JOHN MELLENCAMP (featuring CARLENE CARTER) Sad Clowns & Hillbillies (2017)
Prime luci dell’alba in autostrada, questa mattina 26 Aprile 2017, tra code, incidenti e diluvii-dicono che in questi tre giorni scenderà tutta l’acqua che di solito cade in un mese- ma con il nuovo salvifico SAD CLOWNS & HILLBILLIES a girare senza interruzioni nell’autoradio. Per tre volte consecutive. Un disco che impiega poco a scaldare e asciugare quello che trova intorno: cuore e asfalto su tutto. E posso dire di più: da alcuni anni JOHN MELLENCAMP non sbaglia un colpo, e fa piazza pulita intorno a sè. Quando scava così a fondo nelle radici americane ha veramente pochi rivali tra i colleghi coetanei. Sad Clowns & Hillbillies continua il discorso iniziato dal disco di cover TROUBLE NO MORE (2003) che toccò il culmine con NO BETTER THAN THIS (2010), ma va anche a riprendere i fili lasciati in dischi cardine della sua carriera come THE LONESOME JUBILEE (1987) e BIG DADDY (1989), soprattutto grazie alla presenza del violino di Miriam Strum che fa quello che faceva Lisa Germano. Ascoltare ‘All Night Talk Radio’ e ‘Indigo Sunset’.
Prima di questa nuova avventura musicale nata sui palchi del tour del penultimo, splendido disco PLAIN SPOKEN, Mellencamp, democratico di lungo corso, ha sentito il forte bisogno di dire la sua sulle condizioni in cui versa il suo paese “una riflessione sullo stato del nostro paese” dice a proposito della canzone ‘Easy Target’, piazzata qui a fine scaletta, ma che anticipò invece il disco e le elezioni americane in autunno. Fu un istant single, uscito un giorno prima dell’ l’insediamento di Donald Trump alla casa bianca. Mellencap canta di sucker town, di bersagli facili, delle minoranze più esposte al pericolo, di armi facili, povertà e razzismo, crea un quadro poco invitante che la mano di Trump potrebbe rovinare ancora di più con altre pennellate fuori fuoco. Sull’avvento di Donald Trump, Mellencamp raccontò: “non so davvero che cosa ha intenzione di fare o il perché dice una cosa e poi ne fa un'altra. Trump dice : ‘non abbiamo intenzione di coinvolgere Wall Street,' e tutto il suo gabinetto è Wall Street. Mi sto solo mettendo comodo per vedere le cose strane che arriveranno ".
Buona visione, aggiungo io. I risultati disastrosi sono già sotto i nostri occhi.
"So Black Lives Matter, who we tryin’ to kid / Here’s an easy target / Don’t matter, never did / Crosses burnin’, such a long time ago / 400 years, and we still don’t let it go / Well, let the poor be damned and the easy targets, too / All are created equally, beneath you and me.” Canta Mellencamp.
E tutte le restanti canzoni del disco sono legate dallo stesso filo conduttore: la lotta. Contro noi stessi e contro quello che ci circonda.
Sebbene il nome di CARLENE CARTER compaia in copertina (l'intesa artistica nacque dopo il musical Ghost Brothers of Darkland County, scritto da Mellencamp con Stephen King), la figlia di June Carter e Carl Smith (figlioccia di Johnny Cash) duetta solamente in cinque canzoni su tredici, e tra queste c’è ‘My Soul Got A Wings’, con un testo di Woody Guthrie che Mellencamp ha musicato in salsa country gospel, perché il disco nacque per essere una raccolta di canzoni dal marcato sapore spiritual cantate in duetto. Con il tempo l’idea è stata abortita e da quelle registrazioni si sono salvati solo alcuni brani tra cui una buona ‘Damascus Road', infarcita di riferimenti biblici.
Un disco molto più vario musicalmente rispetto alle ultime uscite: accanto a numeri folk come ‘What Kind Of Man Am I’, troviamo quel heartland rock alla vecchia maniera con le chitarre elettriche più marcate di ‘ Early Bird Cafe’ (brano di Lane Tietgen conosciuto nella versione di Jerryy Hahn) o di ‘Grandview’ in duetto con Martina McBride stavolta e la presenza di due ospiti come l’ex Guns N’ Roses Izzy Stradlin alla chitarra e Stan Lynch, l’ex Heartbreaker di Tom Petty, alla batteria; una ‘Sugar Hill Mountain’ che sbuffa come se fosse suonata da una big band e che non avrebbe sfigurato tra le Seeger Session di Bruce Springsteen e una magnifica ‘Sad Clowns’ che potrebbe essere uscita dall’ugola consumata dalla nicotina di un Tom Waits qualsiasi datato 1973-1978. Oltre ai già citati, ad accompagnare Mellencamp tra i tanti anche: i fidi Andy York, Troye Kinnett, Mike Wanchic e il vecchio amico Kenny Aronoff come ospite.
Chiamatelo ancora cougar, chiamatelo bastardo, additatelo come un tipo poco avvicinabile e burbero, ma quando ci si mette…
Nota a margine di un disco senza sbavature: il packaging del CD è inesistente. Una misera bustina di cartone con pochissime note (titoli e nomi dei musicisti) illeggibili sul retro e...stop. In tempi in cui si dovrebbe puntare almeno sulla qualità del supporto fisico, questo è un grande passo falso. Imperdonabile. Pollice verso. Consiglio di puntare sull'edizione in vinile.
RONNIE LANE'S SLIM CHANCE One For The Road (Island Records, 1976)
“Pronto? Ciao Ronnie, te la fai una birra giù al pub stasera?”
“Certo Enzo, solita ora lì?”
“Ok, a dopo.”
Semplice, no? Se potessi scegliere una bevuta al pub insieme ad una rockstar sceglierei Ronnie Lane. Ma, un attimo: ho usato una parola che non va bene. Non è birra, non è pub, ovviamente. Ronnie Lane ha un passato radioso con gli Small Faces e con i Faces poi, ma di rockstar non ne voleva proprio sentir parlare. È sempre fuggito da quel mondo, e lo dimostra bene la sua carriera solista, durata veramente poco, il giro di un poker di album nei settanta, ma intensa. Come poteva amare hotel, piscine e mega tour uno che mise in piedi una sorta di carovana da circo itinerante denominata Passing Show, la si può vedere nel retro copertina, per poter portare la sua musica (una sorta di country folk rustico americano ma in salsa britannica) in giro nei posti più inconsueti e sperduti delle campagne inglesi in totale libertà? Naturalmente non fu mai un successo. Ma poco importa. Uno che si inventò uno studio di registrazione mobile che ben presto divenne ricercatissimo proprio dalle rockstar: il Ronnie Lane’s Mobile Studio. Lì, dentro a quel camper attrezzatissimo, ci registrarono Quadrophenia gli Who e Phisical Graffiti i Led Zeppelin. Ma anche Rory Gallagher e Eric Clapton. Proprio davanti alla roulotte/studio posa insieme ai suoi Slim Chance per la copertina del terzo disco On The Road.
Chiarissimo esempio della sua musica povera e rudimentale.
Folk dylaniano fortemente legato alle radici, rock'n'roll sbilenchi spesso alticci, impreziositi da violini, fisarmoniche e mandolini; ma anche del suo modo di affrontare la vita: un forte legame con la natura (viveva quasi come un contadino nelle campagne del suo amato Galles) e le cose più semplici ed appaganti che ispireranno i testi, l' alcol o la sbandata religiosa verso il guru indiano Mether Baba sempre in testa. Ronnie Lane era un’anima pura e il destino si sa va spesso a cercare dove non dovrebbe. Lane morì a soli cinquantuno anni nel 1997 dopo anni di dura lotta contro quello che il destino aveva preparato per portarselo via: la sclerosi multipla. Cheers Ronnie, a stasera, solito posto.
CHUCK PROPHETBobby Fuller Died For Your Sins (2017)
‘Bad Year for Rock and Roll’ (lo è stato o no il 2016? Viene pure citato Bowie), ‘Killing Machine’, ’Jesus Was a Social Drinker’, ‘If I Was Connie Britton’, ‘Post-War Cinematic Dead Man Blues’. Con dei titoli di canzoni così, il quattordicesimo album dell’ex Green On Red, parte già vincente. Il nuovo disco del folle CHUCK PROPHET, dedicato a Bobby Fuller (‘Bobby Fuller Died for Your Sins’), l’indimenticato interprete che portò al successo 'I Fought The Law', la cui prematura morte è ancora avvolta in un mistero, sta girando da settimane senza sosta, e credo che lo farà ancora per molto. Se amate il rock’n’roll, in ogni sua forma, è impossibile resistere al sound, alle numerose citazioni, alla curiosità espressiva e all’ironia nera di alcuni pezzi. C'è pure un omaggio ad Alan Vega e ai Suicide (il ritmo danzereccio e marziale di ‘In The Mausoleum’), e si conclude con ‘Alex Nieto’, per non dimenticare il giovane di San Francisco ucciso, senza apparente ragione dai 14 spari della polizia nel 2014. Quanta vitalità in un disco che chiama spesso in causa la morte. Un ‘California Noir’ come lo ha definito lo stesso Prophet: la tensione tra finzione romanzata e realta' che si cela sotto. Le tante contraddizioni della sua California. Un disco camaleontico, che schizza incontrollato in tutte le direzioni, dalla delicatezza pop di ‘Open Up Your Heart’ alla perfetta parodia byrdsiana di ‘Rider Or The Train’ alle dissonanze garage di ‘Alex Nieto’. Il tutto suonato insieme ai fedeli Mission Express. Disco con una marcia in più, con la giusta dose di esuberanza-e ironia- per distinguersi dalle tante (troppe?) uscite discografiche di questi nostri giorni.
Dalle alte vette alle tragedie nel giro di pochi anni. Sponsorizzati dai Beatles e ingaggiati dalla Apple nel 1968 quando ancora si facevano chiamare Iveys, i Badfinger vivono almeno quattro anni ai massimi splendori pop: dal 1970 fino al 1975 ereditarono le migliori melodie e armonie vocali dai quattro di Liverpool proprio quando l’avventura dei Beatles era giunta al capolinea. Il duo formato da Pete Ham (comunque il maggior compositore del gruppo) e Tom Evans nel loro piccolo sono i nuovi Lennon-McCartney, nella buona e nella cattiva sorte come vedremo. Anche se pure il chitarrista Joey Holland ha avuto la sua buona importanza. Coincidenze che sembravano spianare la strada verso una discesa mirabolante. Scioltisi i Beatles, il nome della band gallese continua a girare ugualmente intorno a tutti e quattro i Fab Four: Paul McCartney scrive per loro ‘Come And Get It’, compongono la colonna sonora del film con Ringo Starr MAGIC CHRISTIAN MUSIC (il loro primo disco), partecipano alle registrazioni di ALL THINGS MUST PASS e al CONCERT FOR THE BANGLADESH di George Harrison, i loro credits compaiono su IMAGINE di John Lennon. Cosa potrebbe pretendere di più una band pop rock in quegli anni? NO DICE è il secondo album e proprio quella miscela tra accattivante pop trainato da azzeccate melodie vocali (‘Without You’, ‘I Don’t Mind’) e rock’n’roll (‘I Can’T Take It’, ‘Better Days’, ‘Watford John’) è il loro punto di forza. Sempre in bilico tra l’emulazione e la genialità (questa verrà a galla solamente anni dopo, troppo tardi?), i Badfinger si vedono soffiare sotto il naso la loro ‘Without You’ da Harry Nilsson che ne farà un successo mondiale nel 1972, ma non sarà il solo. Fino a quel momento era una semplice canzone incastonata dentro un disco.
Nel 1971 uscirà STRAIGHT UP, altro grande disco, come lo furono i successivi. Ma qualcosa non va soprattutto a livello finanziario: la band paga a caro prezzo alcune scelte sbagliate a livello di management e marketing. Il manager Stan Polley è sul banco dei maggiori imputati. Si vedono pochi soldi in entrata e qualcosa puzza. Sarà proprio questo il motivo che spingerà Pete Ham a togliersi la vita impiccandosi nel garage di casa il 24 Aprile del 1975. Aveva ventotto anni. Sua moglie era all’ottavo mese di gravidanza ma lui il futuro per sua figlia non ce lo vedeva proprio. No future. I restanti Badfinger andranno avanti ma non sarà più la stessa cosa. Anzi sì: Tom Evans emula l’amico e si toglie la vita nello stesso modo dopo una furente litigata con il chitarrista e cantante Joey Molland. Era il 19 Novembre del 1983 quando il suo corpo venne trovato impiccato nel giardino di casa. Ego e soldi ne hanno combinata un’altra. Anche se molti sostennero che Evans non si fu mai ripreso dalla morte dell’amico Ham, tanto da dichiarare spesso e volentieri che prima o poi l’avrebbe raggiunto in quel bel posto. E beffardo, nell’aria si sente volare il testo del loro più grande successo in coppia: “I can’t live if living is without you, I can’t live, I can’t give any more”. Mai più divisi.
Nativo della terra del Mississippi, vita vissuta tra Memphis e Nashville, marito e padre, figlio di un batterista, inizio carriera in una metal band e folgorazione cantautorale ascoltando John Prine, fa il suo ritorno a tre anni dal precedente THE NO-HIT WONDER (2014). “Sono cresciuto nel North Mississippi, ho imparato la musica dalla Chiesa e dal blues della zona. Ma sono anche un figlio di MTV”.
Quarto disco (poche uscite se consideriamo che è in giro dal 2002), che ha mantenuto inalterato il carattere della sua scrittura: disincantata, sbeffeggiante e cinica, una visione della vita con in primo piano i sentimenti che spesso si ritrovano il cuore infilzato se non spezzato, malesseri e storie intriganti, tanto che i Lucero ne rimasero folgorati, citandolo in una loro vecchia canzone ‘Tears don't Matter Much’ contenuta in That Much Further West (2003). Questa volta s’inventa la sua morte e ci gioca su: ci saluta con un addio. Anche se io di questi tempi scherzerei poco con chi impugna la falce, lui lo fa alleggerendo il tema pesante. “Ad un certo punto delle registrazioni, ho realizzato che avevo almeno sette o otto canzoni che parlavano di morte. Ecco, avevo un tema”.
Cory Branan è un songwriter dal passo lento, apparentemente distaccato dalla vorace velocità dell'odierno music business, capace di tenere un piede nel pericoloso outlaw country dei seventies, uno appoggiato sull' acceleratore del presente che schiaccia a suo piacimento senza compiacere nessuno, ma riuscendo a stare ben in equilibrio sulla linea della migliore tradizione rock americana, risultando persino sfuggente ad ogni etichetta musicale si voglia appiccicargli addosso. Potrete trovarci lo Springsteen di The River (‘You Got Through’), il coetaneo ma senz’altro più prolifico Ryan Adams (‘Imogene’), il country folk alla John Prine in The ‘Vow’ dedicata al padre scomparso, le languide melodie blues alla JJ Cale in ‘Walls, Ms’, i racconti notturni e jazzati alla Tom Waits (‘Cold Blue Moonlight’), il rock’n’roll dal taglio punk (‘Another Nightmare In America’), frizzanti rock’n’roll alla Buddy Holly (‘Only Know’). Ad accompagnarlo una formazione ridotta all’osso: Robbie Crowell dei Deer Tick alla batteria, tastiere e fiati e James “Haggs” Haggerty al basso. In aggiunta: Amanda Shires (violin e voce), Laura Jane Grace e Dave Hause alle voci. Adios, ma era meglio un arrivederci.
THEE JONES BONES This Is Love (La Stalla Domestica, 2017)
Il sesto disco della band camuna, attiva dal 2001, è stato presentato durante lo scorso weekend: prima in città a Brescia, poi a Darfo Boario Terme nella loro Val Camonica. Assistendo al primo concerto al Lio Bar (immancabile punto di riferimento per la musica bresciana e non solo) ho potuto testare di persona il mood che caratterizza gran parte di THIS IS LOVE: la presenza di due coriste (Tiziana Salvini e Anna Pina) alla sinistra del trio era sintomatico di qualche cambiamento che su disco viene poi amplificato dalla presenza di una sezione fiati in alcune tracce. Rimane intatta quella semplice magia ad alto volume composta da basso, chitarra e voce che semplificheremo in una bella parola mai passata di moda, rock’n’roll (a morte chi dice: è morto!), ma questa volta il passo più lungo è in direzione America e vengono aggiunte due mani di R&B e soul che fanno tanto Muscle Shoals: ‘Like A Sunshine In The Morning’ e ‘La La La’ (con la voce ospite di Alessandra Cekka Cecala) sono due blues mordenti e dal groove incalzante, mentre ‘Mother’s Heart’ rallenta il ritmo, diventando un ballata soul, sulle impronte della voce dell’ospite Ceki Blues.
Luca Ducoli (voce e chitarra), Paolo Gheza (basso) e Sergio Alberti (batteria) rimangono quella genuina macchina da guerra dei precedenti dischi, dove l’hard blues britannico e il southern rock, il garage made in Detroit e il blues del Mississippi, la solare e psichedelica west coast californiana si rincorrono senza conflitto lungo dieci tracce, spalmate in due facciate di plastica rosso fuoco, proprio come succede nei nostri cari vinili dei 70 impilati sotto il vecchio stereo, con tanto di brevi e suggestivi intermezzi acustici che preparano alle imminenti esplosioni. ‘A Season In Your Soul In The Shadow Of The Sun’ introduce ‘Welcome To The Show’, una vera e propria chiamata alle armi dal taglio hard seventies che durante i live servirà da apripista e dare la scossa primordiale, ‘Little Moon’ è un siparietto acustico che sembra emergere da una bayou e ci prepara a ‘Hey Man (a Song For Johhny Cool)’, omaggio dichiarato a Phil Lynott suonata come dei redivivi Thin Lizzy e con la chitarra ospite di Rick Phillips a primeggiare, mentre ‘Every Cloud Is A Silver Lining’ è l’apripista verso il gran finale chiamato ‘Take It Easy’, che è più Rolling Stones degli ultimi Stones. Se aggiungete presenza scenica e una naturale propensione a jammare e allungare durante i live il gioco è fatto. Un disco grezzo e diretto, nonostante le tante sfumature di abbellimento aggiunte, perfettamente in linea con la precedente produzione. Si va sul sicuro. A vincere sono ancora una volta l'attitudine giusta e la passione vera.