domenica 10 maggio 2020

RECENSIONE: MARK LANEGAN (Straight Songs Of Sorrow)

MARK LANEGAN  Straight Songs Of Sorrow (Heavenly Records, 2020)




 come to me 

"Tutto quel che mi ha lasciato in mano era un vaso di Pandora pieno di dolore e di miseria. Ma subito dopo ho cominciato a scrivere queste canzoni ed è stato un sollievo: mi sono reso conto che quello era il vero dono che avevo ricevuto dalla mia autobiografia". Sono le parole di Mark Lanegan che spiegano come sia passato dall'autobiografia Sing Backwards And Weep a questo disco senza posare mai la penna, un modo antico per trovare nuova pace dentro se stesso. Ci prova da una vita, è l'unico modo che conosce. Fin troppo bene.
Straight Songs Of Sorrow è una raccolta di canzoni che viaggia a braccetto con l'autobiografia appena uscita in America che già ha sollevato un vespaio di polemiche. Perché in mezzo alla sua difficile vita di ragazzo cresciuto a Ellensburg, Washington, in compagnia di droghe, amici sbagliati, morte e la musica dei novanta, salvifica e tentatrice allo stesso tempo, non tralascia piccanti particolari sulle sue relazioni d'amicizia con i vecchi compagni di band Screaming Trees e anche qualche altro personaggio a cui dedica capitoli interi. Pure con molta fierezza. Ad esempio la lite a distanza tra Lanegan e Liam Gallagher sembra si sia riaccesa come un tizzone ardente lasciato riposare per anni tra le pagine dei ricordi. A noi capire quanto possa essere interessante o meno sapere questi fatti. Ho letto solo alcuni spezzoni dell'autobiografia, quindi mi fermo qui e passo alla musica.
Non ci sono più pause nella carriera di Lanegan, nonostante gli siano state consigliate più volte, non esistono periodi sabbatici ma solo un lungo tempo di bulimica voglia di comporre musica, un infinito tuffo nella sua ispirazione che, diciamolo, non sempre è volata alta negli ultimi anni, anche se sempre accattivante e soprattutto sincera. Quello sì. Vi piace? Bene. Non vi piace? Meglio ancora, borbottò qualche tempo fa.
Purtroppo il problema è ancora tutto qui. La fortuna vuole però che dentro alla quantità salti fuori spesso qualcosa di buono. Ecco così che questa raccolta di quindici canzoni diventa un viaggio tra peccato e redenzione, tra i più profondi e dolenti della sua carriera. Fosse uscito vent'anni fa sarebbe un capolavoro. Rimane invece un diario tanto sincero quanto a tratti zoppicante ma sicuramente qui dentro ci sono le sue migliori cose degli ultimi anni. Certamente ci sono tutti gli ingredienti su cui ha basato il cocktail maledetto della sua carriera: amicizie, sangue, cenere, whiskey, blues, peccati, sesso, droga, amore.
E io partirei dal raggio di speranza della finale 'Eden Lost And Found' cantata insieme a Simon Bonney (Crime & The City Solution), che Lanegan indica come il suo cantante preferito, e che dipinge l'uomo Lanegan di oggi, lucido, pulito, per molti tratti perfino nella voce. Ritratto di un uomo che ha cercato di raccogliere le tappe della sua travagliata vita stendendola su un tappeto imbastito di trame acustiche (chitarre e pianoforte) e qualche ordito d'elettronica, esperimenti di new wave comunque notevolmente inferiori rispetto alle ultime uscite Gargoyle (2017) e Somebody's Knocking (2019), e rintracciabili però fin dall'iniziale 'Wouldn't Want To Say' ("quella canzone incapsula l'intera esperienza, libro e disco: per quello ho voluto metterla all'inizio" racconta), 'Internal Hourglass Discussion' e in 'Bleed All Over', il pezzo musicalmente più leggero e con più dosi di new wave iniettato nelle vene.
Già, le vene. Autostrade sempre troppo trafficate in quegli anni "ho pagato per questo dolore che ho messo nel mio sangue" canta in 'Stockholm City Blues' che viaggiando in coppia con la natura morta da pellicola cinematografica di 'Daylight In Nocturnal House' si aggiudicano la palma di canzoni più profonde, malinconiche e toccanti, anche se la compagnia è davvero agguerrita. Il dolente arpeggio di 'Apples From A Tree' (con la chitarra fingerpicking di Mark Morton dei Lamb Of God), la leggera nenia al synth di 'This Game Of Love' cantata con la moglie Shelley Brien, l'oscurità al pianoforte di 'Churchbells, Ghosts', la droga di 'Ketamine'.
Si circonda pure di tanti amici, passati e presenti, vivi e morti. Al caro Dylan Carlson (Earth), vecchio compagno di risate e sventure, dedica l'acustica 'Hanging On (For DRC)', altri partecipano attivamente al disco come Jack Bates (Smashing Pumpkins, figlio di Peter Hook), Adrian Utley (Portishead).
E poi ancora John Paul Jones al mellotron nella più rumorosa 'Ballad Of A Dying Rover', un blues per il 2020 e il "gemello" Greg Dulli voce in 'At Zero Below' insieme al violino di Warren Ellis in una delle migliori canzoni del disco.
Il picco autoconfessionale lo tocca nei sette minuti di 'Skeleton Key' quando ripercorrendo la strada al contrario ritrova troppi cadaveri di amici che non ce l'hanno fatta e quel "è il mio destino essere l'ultimo in piedi" non si sa se è una domanda o un'affermazione. Ma cambierebbe poco dentro al tendone di questo triste circo messo in piedi tra dolore, peccato, miseria e redenzione da un sopravvissuto a cui vogliamo sempre un gran bene.







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