lunedì 11 novembre 2019

DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA # 80: RORY GALLAGHER (Tattoo)

RORY GALLAGHER   Tattoo (1973)



chi si ferma è perduto

Se l'ispirazione chiama, Rory Gallagher risponde. A pochi mesi di distanza da Blueprint, in quel 1973 funestato dalla violenza che serpeggia per le strade dell’ Irlanda del nord, ritorna in studio di registrazione e senza cali di qualità registra uno dei suoi migliori dischi in carriera. Una vita frenetica su e giù dai palchi europei e americani, in mezzo poche settimane per registrare canzoni che nascevano on the road, tra un palco e le camere d'albergo. Questa volta nessun produttore esterno a dare fastidio e creare intralcio. TATTOO lo afferma e lo proietta ancora più in alto.
La genesi dell’album prende il via nell’amata Cork in un club preso in affitto che si trovava in una barca ormeggiata sulla riva del fiume. “Poteva scrivere canzoni, rilassarsi, mangiare cibo casalingo. Le prove si tennero lì e quando tornammo a Londra era tutto pronto” racconterà il fratello Donal.
A Londra, ai Polydor Studios, registra con la band composta da Gerry McAvoy (basso), Lou Martin (tastiere) e Rod de ‘Ath (batteria), la stessa del precedente Blueprint.
La doppietta d'apertura non lascia scampo: ‘Tattoo ‘d Lady’ è un rock carico di rimandi all'infanzia (il circo, il luna Park) ma che si proietta nel suo presente, mentre ‘Cradle Rock’ è una furia a tutta bottleneck destinata a segnare l’intera carriera. Mentre con ‘20:20 Vision’, un breve sipario acustico, e con ‘They Don’t Make Them Like You Anymore’ mette in fila le influenze jazz suonando il bouzouki di Manolis Chiotis omaggiando il musicista greco con la sua Perasmenes Mou Agapes, con ‘Livin’Like A Trucker’ riprende a macinare rock blues sopra ai ricordi e alle suggestioni delle recenti trasferte americane.
‘Sleep On A Clothes-Line’ è un trascinante boogie a cui ‘Who’s That Coming’ risponde con il blues più classico in scaletta costruito su slide e bottleneck. C’è ancora il tempo per ‘A Million Miles Away’ una delle più intense ed evocative canzoni d’amore del suo repertorio, venuta in ispirazione tra le scogliere di Ballycotton e per il riff pesante che guida la conclusiva ‘Admit It’.
Via, si riparte per un altro tour che diventerà Irish 74, schivando ma affrontando di petto il sangue che bagna la sua Irlanda. Non rinuncerà a suonare nei posti più pericolosi. “Sono un musicista, non un politico” era il suo mantra e lo rispetterà fino in fondo, perché “penso che diverrei terribilmente pigro se mi prendessi un anno di pausa o qualcosa del genere”.




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