venerdì 27 settembre 2019

RECENSIONE: STURGILL SIMPSON (Sound & Fury)

STURGILL SIMPSON   Sound & Fury (Elektra, 2019)




cambiare per non morire
Che Sturgill Simpson sia uno dei personaggi più bizzarri capitati alla musica americana negli ultimi anni lo aveva già confermato il precedente disco A Sailor's Guide To Earth uscito tre anni fa, una sincera lettera indirizzata al figlio che diventava un manuale di sopravvivenza al mondo che manteneva ancora quel suono country americana dei precedenti dischi High Top Mountain (2013) e Metsmodern Sounds In Country Music (2014) imbastardendolo con la psichedelia ma soprattutto il soul di casa Stax.
Un passo indietro verso l'outlaw country e due avanti verso qualcosa di sempre originale, tanto da essere considerato uno dei pochi veri innovatori di certi vecchi suoni che abitavano il passato della musica popolare americana.
Questa volta con Sound & Fury, il cantautore del Kentucky si distanzia notevolmente dagli esordi, e di passi indietro non ne fa proprio, abbracciando suoni decisamente più rock, rumorosi, elettronici a tratti industrial "ci siamo buttati senza nessuna idea preconcetta e ne siamo usciti con un album di rock ‘n’ roll trasandato e spinto. È in assoluto il mio lavoro più psichedelico. E il più pesante".
Il primo video estratto ('Sing Along') credo sia una buona sintesi di quello che nasconde il disco: un suono che raccoglie a piene mani dagli ZZ Top periodo Recycler, dai Black Keys, perfino dai Queen Of The Stone Age (Simpson chiama in causa anche T Rex, Cheap Trick, Bee Gees e John Mayal) ma soprattutto lo imbastardisce con synth, loop e rumori assortiti, pare di sentire anche i Black Mountain, e lo presenta con un video diretto dallo scrittore regista Jumpei Mizusaki e il disegnatore di personaggi Takashi Okazaki. Tutto l'album (42 minuti) viaggerà a braccetto con le immagini: un cartoon giapponese futuristico e post apocalittico verrà trasmesso su Netflix dal giorno d'uscita.
Che sia un addio definitivo o solo un arrivederci al country lo sa solo lui.
Se avete amato i vecchi dischi vi metto in guardia, qui Simpson va veramente da altre parti insieme alla sua band (Chuck Bartels al basso, Bobby Emmett alle tastiere e Miles Miller alla batteria): lo si intuisce subito dallo strumentale d'apertura 'Ronin', cupa e con una chitarra psichedelica, dalla marziale 'Remember To Breathe', dai battiti elettronici di 'A Good Look', dal soul spaziale e rumoroso di 'Best Clockmaker On Mars', dalla scheggia cyber rock'n'roll di 'Last Man Standing' che pare amoreggiare con Fatboy Slim, dai sette minuti industrial, rumorosi e carichi di distorsioni della finale 'Fastest Horse In Town'. Qualche rara traccia del passato nelle più quiete 'All Said And Done' e 'Mercury In Retrogade' che mette sotto accusa l'industria discografica.
Il classico disco da adesivo "handle with care" ma se siete dotati di larghe vedute musicali (altrimenti non vi piacerebbe Sturgill Simpson) e vi piacciono le sfide, anche Sound & Fury potrebbe regalare qualche bel momento.
Con questo disco Simpson sfugge ancor di più da ogni forma di catalogazione: uno che ama guidare decisamente fuori strada, lontano dalle strade più battute, dove il rischio più ricorrente è trovare poca gente sul ciglio strada ad applaudirti.








martedì 24 settembre 2019

DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA # 77 : BOB DYLAN (Oh Mercy)

BOB DYLAN  Oh Mercy (Columbia, 1989)


 E all’improvviso il capolavoro. Arriva dopo un disco mediocre e costruito a tavolino con scarti di magazzino come Down In The Groove, buon pretesto per chiudersi sopra a un palco, far partire il Never Ending Tour, e non scenderci più . Un contributo fondamentale arriva dal produttore Daniel Lanois, consigliato da Bono degli U2. Nel frattempo Dylan e gli U2 trovarono il tempo di collaborare tra loro su Rattle And Hum. C’era poco da annusarsi tra Dylan e Lanois : la persona giusta al momento giusto. “Nel giro di un’ora avevo già capito di poter lavorare con lui. Ne ero convinto” scriverà Dylan nell’autobiografia Chronicles che ha tante pagine fitte di aneddoti dedicati all’album . “Rimasi seduto al suo fianco per due mesi mentre scriveva i brani per l’album e fu straordinario. Continuava a intagliare i suoi versi”, replicherà Lanois.
Registrato a New Orleans, a Sonia Street con alcuni musicisti del posto scelti dal produttore, città da cui prenderà alcuni caratteri salienti, uno di questi la spettralità che avvolge alcune canzoni come la crepuscolare ‘Man in The Long Black Coat’, con i suoi grilli da notte fonda a fare da sipario, che Dylan paragonerà a ‘Walk The Line’ di Johnny Cash.

OH MERCY è un disco magniloquente, misterioso, senza tempo, che cattura lentamente su cui Dylan lavora bene di voce mentre Lanois cesella gli strumenti a dovere e con parsimonia. Dylan durante le registrazioni carbura lentamente ma una volta entrato nel metodo lavorativo di Lanois, non c'è ne sarà per nessuno. “Non sapevo che tipo di disco avevo in mente, non sapevo nemmeno se le canzoni fossero buone". Intanto la leggenda racconta di un Lanois incazzato intento a distruggere una chitarra dobro sul pavimento dello studio.
Non si butta via nulla, anche se a prodotto finito Dylan dirà “non saprei dire se questo è il disco che ciascuno di noi voleva”: dall’apertura tambureggiante di ‘Political World’, un carico di visioni apocalittiche che fa il paio con il lungo elenco di ‘Everything Is Broken’ alla ballata ‘Where Teardrop Falls’, i legami sentimentali toccati in ‘Most Of The Time’, la caritatevole ‘Ring Them Bells’, il male della presunzione di ‘Disease Of Conceit’, alle domande poste nei titoli di due canzoni (‘What Good Am I? ‘e ‘What Was If You Wanted? ‘), i dubbi che vengono a galla nella quiete finale di ‘Shooting Star’, dall’album finito resteranno fuori pure canzoni magnifiche come ‘Dignty’ e ’Series Of Dreams’ che fanno da ulteriore termometro all’ispirazione tarata al massimo di Dylan a quei tempi.
Qualcuno (Clinton Heylin) disse che fu il meno dylaniano dei dischi di Dylan (riferendosi alla modernità di registrazione) e francamente la prima cosa che viene da chiedersi è: perché qual’è il vero Dylan? Non era che: ognuno ha il suo? Questo è uno dei (tanti) miei. Buoni 30!




giovedì 19 settembre 2019

RECENSIONE: STATUS QUO (Backbone)

STATUS QUO  Backbone (earMUSIC, 2019)




fedeli nei secoli dei secoli
Non si può dire che gli Status Quo non sappiano fare il loro mestiere. Uno dei gruppi rock più longevi di sempre: 1962 la nascita a Catford, un distretto di Londra, sotto il nome Spectres, lo stesso anno dei Rolling Stones! Una band che non hai mai smesso di suonare in modo onesto e senza troppi sensazionalismi a fare da contorno, guidati dall' intramontabile spirito indomito di Francis Rossi e la sua Telecaster (in li...breria arriverà pure l'autobiografia). Anche in questo trentatreesimo (33!) disco in carriera, il primo dopo la morte del chitarrista e socio in affari Rick Parfitt (a Richie Malone il duro compito di sostituirlo). Un gruppo che ha fatto di coerenza e attitudine i propri punti di forza, senza mai vendersi più di tanto, anche in anni dove il look contava e attirava, mai cedendo agli eccessi, lasciando, casomai, che la musica, soprattutto in sede live, vincesse sull'aspetto visivo. In tempi in cui anche grandi nomi del rock cedevano alle mode del momento, negli anni settanta così come negli anni ottanta, loro rimasero fedeli al rock'n'roll e alla loro immagine tutta jeans e t-shirt. Li ho sempre ammirati per questo. Nonostante tutto rimane uno dei gruppi che ha venduto più dischi nel Regno Unito, si parla di centoventi milioni di album.
Qualcuno diceva che BACKBONE doveva uscire sotto un altro nome per rispetto a Parfitt. Succede invece che questo album sia uno dei loro migliori degli ultimi anni: Status Quo al 100%. Rick Parfitt ne sarebbe orgoglioso.
Inutile svelare la ricetta che è quella di sempre, buon pretesto per caricare gli strumenti e partire per le date live (il loro forte), per cui se li amate andate a colpo sicuro, altrimenti girate alla larga: rock boogie contagioso (su 'Cut Me Some Slack' ci sono gli stessi accordi efficaci di sempre), ora con puntate hard (la veloce 'Get Out Of My Head'), blues ('I Wanna Run Away With You')
altre volte sembrano suonare più british del solito ('Liberty Lane' contiene anche un omaggio ai Rolling Stones), fino a guardare perfino al lontano southern rock americano ('Better Take Care').
I maligni diranno "lo stesso disco di sempre!" ma non sanno che proprio per questo gli Status Quo sono ancora qui a suonarcele.

Spina dorsale di un modo di intendere il rock dove chitarre, basso e batteria non passeranno mai di moda.




 

lunedì 16 settembre 2019

RECENSIONE: ALICE COOPER (Breadcrumbs)

ALICE COOPER  Breadcrumbs (2019)



Detroit: andata e ritorno (alle origini)

Che Alice Cooper goda di buona forma ve lo posso garantire io dopo averlo visto una settimana fa  in concerto a Torino. Che faccia ancora sul serio su disco ce lo conferma questa breve anticipazione del prossimo album in uscita nel 2020. Fresco di stampa, questo Ep di 6 canzoni che esce in vinile 10" a tiratura limitata (ma anche sulle piattaforme digitali), è dedicato alla scena rock di Detroit e ai suoi eroi. Un omaggio alla città natia ma soprattutto alla sua scena musicale che a cavallo tra gli anni 60 e i 70 trasformò la città dei motori in una città di rocker, duri e puri. È proprio da Detroit che Alice Cooper e la sua band fecero partire la loro carriera dopo la breve e poco soddisfacente parentesi a Los Angeles. Il ritorno a casa coinciderà con la firma con la Warner Bros, l'incontro con il produttore Bob Ezrin (ai tempi diciannovenne) e l'incisione di Love It to Death (1971), che conteneva quella 'I'm Eighteen' che gli svoltò la carriera, senza dimenticare i tour seguendo Bob Seger, The Stooges e Mc5. Prodotto anche questo dal fidato Bob Ezrin (una delle collaborazioni più longeve del rock la loro), accanto a due sue composizioni ('Detroit City 2000', sua vecchia canzone ripresa e aggiornata dove vengono citati Mc5 e la Motown e la veloce e punkeggiante 'Go Man Go') trovano spazio omaggi agli Mc5 ('Sister Anne'), a un primissimo e spesso dimenticato Bob Seger ('East Side Story'), Suzi Quatro ('Your Mama Won’t Like Me') e un medley con 'Devil With A Blue Dress On' di Shorty Long, e 'Chains Of Love' dei The Dirtbomb. Non mancano ospiti famosi della scena come Johnny “Bee” Badanjek dei Detroit Wheels, Mark Farner dei Grand Funk, Wayne Kramer dei MC5 che suona proprio nella sua 'Sister Anne', il jazzista Paul Randolph. Un incontro ben riuscito tra le chitarre del garage rock e i fiati che guidano le canzoni più R&B di casa Motown.
Un ritorno agli antichi fasti che Alice Cooper ha spiegato così: "c'è un certo suono di Detroit che stiamo cercando, è indefinibile. C'è una certa quantità di R&B dentro. C'è una certa quantità di Motown. Ma poi aggiungi le chitarre e aggiungi l'atteggiamento e si trasforma in rock di Detroit. Mi sento come se fossimo in giro con tutti i musicisti di Detroit, troveremo quel suono ".
Direi che questi brevi 22 minuti confermano che Alice Cooper quel suono è riuscito a catturarlo.







ALICE COOPER live@PalaAlpitour, Torino, 10 Settembre 2019




mercoledì 11 settembre 2019

ALICE COOPER live@PalaAlpitour, Torino, 10 Settembre 2019



Anche se lo spettacolo horror, i trucchi e le trovate sceniche da luna park sono le stesse di quarant'anni fa adattate al trascorrere del tempo-l'unica novità è quella "normale"divisa azzurra della nazionale italiana di calcio (con il numero 18 e la scriita Cooper sulla schiena)  indossata fieramente nel finale, nonostante si sia sempre professato un fan dichiarato di baseball e golf-non si può certo dire che Alice Cooper abbia portato avanti la sua carriera sedendosi sull'ingombrante passato. In qualche modo ha sempre gestito e cavalcato le mode a suo modo (qualcuna l'ha pure inventata eh): dai primissimi dischi zappiani, al rock di Detroit e il glam dei primi anni settanta, escludendo la brutta parentesi dominata dall'amico/nemico alcol, la rinascita a fine anni ottanta facendo le scarpe all'hair metal losangelino ('Poison' e 'Bed Of Nails' da Trash le più cantate naturalmente), gli anni novanta e duemila cavalcando in sella ai suoni più duri e industrial fino all'ultimo Paranormal da cui estrapolerà la sola 'Fallen In Love'. Uno dei più singolari interpreti del rock che spesso viene sottodimensionato nei quartieri alti del rock'n'roll.
Per questa unica data italiana del tour Ol' Black Eyes Is Back al PalaAlpitour di Torino ci ha dato la prova di tutto questo, ripercorrendo la carriera da cima a fondo anche se i due dischi più saccheggiati rimangono i vecchi Welcome To My Nightmare e Billion Dollar Babies con quattro canzoni a testa. Ad accompagnarlo: il vecchio amico Chuck Garric, un vero rocker quasi d'altri tempi, a torso nudo e con le lunghe basette, le tre chitarre soliste di Ryan Roxie, Tommy Henriksen e Nita Strauss che Alice Cooper presenta come "la miglior chitarrista donna della terra" (finalmente una donna in una band di uomini che non suona il basso e si prende tutta la scena, a volte fin troppo) e la batteria del funambolico Glen Sobel, un prestigiatore delle bacchette. Per tutti loro c'è stato un momento di gloria.
Un'ora e mezza di rock'n'roll alla vecchia maniera e se i primi minuti sulle note di 'Feed My Frenkenstein' mi avevano spaventato, la voce di Alice Cooper non era pervenuta, sistemato il problema tecnico, per il vecchio Vincent Furnier (71 anni) è stato un gioco da ragazzi portare a termine il concerto, facendo cantare e sorridere, provocando, insieme alle tante comparse che animano il castello della scenografia-i suoi eterogenei fan-o lo ami alla follia o lo detesti-formati da vecchi rocker con figli al seguito. Ho visto tanti occhi truccati e pure un boa constrinctor peluche a grandezza naturale avvolto intorno al collo di una ragazza.
Professionalità e mestiere ad altissimi livelli, nessun cedimento armeggiando pugnali, frustini, stampelle e cambiando continuamente abiti di scena. Dollari volanti, bolle di fumo, palloncini colorati sono parte integrante dello spettacolo. Roba da insegnare alle generazioni più giovani di artisti. E poi tanta intelligenza e autoironia. Ecco come si costruisce uno spettacolo rock riuscendo a dare una visione sempre grottesca della società che è poi la stessa di quando iniziò. Nulla è cambiato. Ne guarderei uno a settimana di show come questi.
Naturalmente il momento clou della teatralità si ha su 'Steven' quando la ghigliottina compie il suo rituale di sempre e nel grande finale su 'School Out' che si trasforma in 'Another Brick On The Wall'. La scuola è finita: andata in pace. Spero che tutti abbiano preso appunti. Un altro Alice Cooper non nascerà più.
Una parola anche per i non più giovani (ormai) Black Stone Cherry, band del Kentucky che suona un southern rock ipervitaminico. Coinvolgenti e dinamici anche se ho sempre pensato che non abbiano le "canzoni".
Nota divertente a margine: i Black Stone Cherry davanti a me aprono di potenza con il loro southern metal il concerto di Alice Cooper. Ma la cosa più divertente succede dietro di me. Il chitarrista Ben Wells, zazzera bionda e fazzoletto rosso al collo alla Tom Petty ha una t shirt con un altro faccione biondo stampato sopra. Il tizio dietro di me:"ha la maglia con Nino D'angelo". Naturalmente era la faccia di Tom Petty.
Alla prossima: ritenta, sarai più fortunato.

Setlist: Feed My Frankenstein/No More Mr. Nice Guy/Bed of Nails/Raped and Freezin'/Fallen in Love/Muscle of Love/I'm Eighteen/Billion Dollar Babies/Poison/Roses on White Lace/My Stars/ Devil's Food/Black Widow Jam/Steven/Dead Babies/I Love the Dead/Escape/Teenage Frankenstein/ Under My Wheels School's Out








lunedì 9 settembre 2019

RECENSIONE: SACRED REICH (Awakening)

SACRED REICH  Awakening (Metal Blade, 2019)
 
 
 
 
Ricordate cosa stavate facendo 23 anni fa? Io sì: servizio civile a Chieri, Torino. Era il 1996 e i Sacred Reich, uno dei gruppi più "intelligenti" dell'ondata Thrash metal di metà anni ottanta, nonostante un nome che può trarre in inganno, incideva quello che fino ad oggi era rimasto l'ultimo album in studio, Heal. Lo presi proprio a Torino in uno dei tanti negozi che oggi non esistono più. Poi lo scioglimento e la ripresa live nel 2006, ma di nuovo materiale non se ne parlava. In ventitre anni hanno messo da parte qualche nuova canzone, non troppe a dire la verità ma va bene così.
Awakening è un disco corto e compatto, poco più di mezz'ora, come si usava una volta. Otto canzoni che mischiano sapientemente l'old school thrash (la veloce 'Divide & Conquer') con il groove anni novanta (la quadrata 'Killing Machine', la title track) dei quali il gruppo di Phoenix, Arizona, è stato in un certo qual modo precursore e con qualche apertura più melodica come la pesante e sabbathiana 'Death Valley'. Non mancano assoli di chitarra ficcanti e fulminei.
Sono della partita i due veterani Phil Rind (voce e basso) e il chitarrista Wiley Arnett, e poi il ritorno dell'esperto Dave McClain già batterista del gruppo tra il 1991e il 1997 per poi passare alla gloria con i Machine Head. Completa la formazione il giovanissimo ventiduenne Joey Radziwill alla chitarra. Non inganni anche la vecchia etichetta Metal Blade che non li ha mai abbandonati, aspettandoli, Awakening è un disco che non dorme sugli allori del passato ("i sogni di gloria li abbiamo lasciati nel passato" chiosa Rind), non ha la carica eversiva di dischi come Ignorance (1987), Surf Nicaragua (1988) e American Way (1990) ma si appresta a conquistare nuovi adepti con titoli come 'Manifest Reality', la tirata quasi hardcore 'Revolution' e l'anthemica 'Something To Believe' ancora carichi di testi mai banali, dal piglio positivo e socialmente motivanti.
Una garanzia.
 
 
 
 
 

 
 
 
 

giovedì 5 settembre 2019

RECENSIONE: IGGY POP (Free)



IGGY POP   Free (Caroline, 2019)
I Wanna Be Free
FREE, il nuovo disco di IGGY POP è una passeggiata breve ma intensa alle prime luci dell'alba verso il mare. A inizio Settembre. In solitaria e completa libertà, a torso nudo naturalmente: "I Wanna Be Free" ripete nella breve title track che innesca la sveglia al disco.
Riflessivo, contemplativo, meditativo, amaro, carico di suggestioni. Parlato. A tratti scomodo. Quando hai voglia di stare solo con te stesso, i tuoi pensieri, i tuoi demoni, i tuoi sogni. Con il futuro perso da qualche parte in quell' orizzonte lontano tracciato dall'acqua salata. Post Pop Depression doveva essere il suo ultimo disco. Invece eccolo nuovamente qua. Camaleontico, libero di passeggiare sulla musica in totale libertà, sbattendosene di tutto e tutti. "Questo album in qualche modo mi è capitato, e ho lasciato che accadesse" ha raccontato. Così sia.
Si nutre della luce fioca del sole ancora basso ma timidamente già sveglio: il battito rock di 'Loves Missing' dà la scossa e il buon risveglio scandito dalla chitarra di Aaron Nevezie, anche se sarà la chitarra 
di Noveller, ossia Sarah Lipstate, anche autrice, a segnare le canzoni più ostiche. Il brano più smaccatamente Iggy Pop del disco. Perché qui siamo più dalle parti dello sperimentale Preliminaries, uscito giusto dieci anni fa.
Un sole pronto a scaldare il ripetitivo rumore delle onde e il sussurro disordinato del vento ('Sonali' è scandita da drum machine e synth, spettrale ma colorata dalla serpeggiante tromba, legata da un sottile filo all'ultimissimo David Bowie). Ecco, il suono della tromba di Leron Thomas che accompagna i 34 minuti si aggiunge spesso disegnando malinconia, insinuandosi tra le tante vie delle rughe e la voce segnate dal tempo (sono 72!).
C'è più consapevole tristezza nell'aria e il timido sorriso pop di 'James Bond' e lo straniante ardore latino di 'Dirty Sanchez' sembrano soccombere sotto la tensione degli ultimi quattro brani: gli ululati a bassa voce di 'Page', i sonetti della poesia lasciata dall'amico Lou Reed e donata a Iggy Pop da Laurie Anderson, recitata con voce chiara e perentoria sul tappeto ricamato da Thomas (autore di almeno metà disco), e le restanti 'Do Not Go Gentle Into That Good Night' e 'The Dawn' sono sermoni cupi, carichi di tensioni che paiono condurre più verso le tenebre della notte che verso il sole del giorno. Allora quella copertina si potrebbe capovolgere e trasformare in una passeggiata nell'ora del crepuscolo. Poco cambierebbe.
Iggy Pop ha detto: "questo e' un album in cui altri artisti parlano per me, ma a cui io presto la mia voce". Buona passeggiata e buona libertà a tutti.



martedì 3 settembre 2019

It's Just Another Town Along The Road, tappa 10: DARIO SN (The Easy Way)

 
DARIO SN   The Easy Way (Go Country! , 2019)
 
 
 
 
 
Avevo conosciuto Dario Snidaro ai tempi dei Rusted Pearls & The Fancy Free e del loro Ep d'esordio Roadsigns del 2012, un gruppo friulano che batteva le strade di un southern hard rock genuino e viscerale, fatto di polvere, chitarre e puntate nel soul blues. Dario era il cantante e chitarrista. Lo ritrovo oggi dopo sette anni con un disco solista altrettanto genuino ma con il volante sterzante verso altri vicoli musicali, più intimi e cantautorali, dove a prevalere sono le atmosfere acustiche legate all'americana. La prima influenza che salta alla mente è Ryan Adams, certamente uno dei suoi cantautori preferiti. Ciò permette a Dario di stare con un piede nella pura tradizione country ('Ghost Town') e con l'altro nel folk alternativo. Storie raccolte per strada ('Homeless') durante i viaggi e storie più intime e quotidiane, personali ('Song For A Brother').
Riflessivo e intimista, The Easy Way è fatto di dieci piccole grandi canzoni che non hanno bisogno di troppa amplificazione per essere apprezzate e comprese, benché oltre altra band (Davide Zuin alle chitarre, Mirco Tondon al basso e Paul Zewell alla batteria)  ci siano tanti altri musicisti a lasciare una loro impronta, facendosi bastare la genuinità e la purezza che sembrano uscire prepotenti senza inganni.
 
In viaggio con Dario Snidaro
 
1-I km nel tuo disco. Il viaggio ha influenzato le tue canzoni?
 
Il viaggio ha influenzato le mie decisioni, da sempre. Tante canzoni sono nate da riflessioni a seguito di decisioni prese viaggiando. 'The Easy Way' è la metafora del viaggio attraverso la strada che già conosciamo, che spesso sulla lunga distanza non ci porta ai risultati migliori.
 
2-Tour. Aspetti positivi e negativi del viaggiare per concerti in Italia. Dove torni spesso e volentieri?
 
Viaggiando per concerti in Italia ho sempre incontrato persone positive e situazioni stimolanti, sia come musicista che spettatore. Un posto lo considero come una casa e tornarci mi fa sempre stare bene, è 'La Girada' di Udine. Questo luogo è stato la culla di tanti cantautori della mia zona e suonare uno di fronte all' altro le proprie canzoni come nei vecchi folk club, senza amplificazione, è stato il carburante giusto per tutto ciò che è venuto dopo.
 
3-Radici o vagabondaggio. Cosa ha prevalso nella tua vita?
ph.Sonicyut
 
Ho sempre mantenuto una solida base qui nel Nord-Est italiano nonostante abbia sempre cercato di spostarmi per sentirmi parte di qualcosa di più grande, spinto dalla curiosità e dalla voglia di imparare. Macchina, aereo, treno, bus. Vagabondare ha fatto molto bene alla mia mente in certi momenti.
 
4-Viaggio nel tempo. Passato: per chi o per quale tour avresti voluto aprire come spalla? Futuro: come ti vedi tra vent’anni?
 
Mi sarebbe piaciuto aprire un concerto di Chris Whitley, anche davanti a venti persone, non sarebbe importato in questo caso il numero di spettatori. Tra vent'anni mi piace pensare che troverò ancora nello scrivere canzoni il mio modo più intimo e personale di esprimermi.
 
5-La canzone da viaggio che non manca mai durante i tuoi spostamenti.
 
Ultimamente sto ascoltando tanti artisti recenti e giovani. Varie delle loro canzoni stanno diventando una costante degli spostamenti in auto nelle ultime settimane. Cito un pezzo che ho nuovamente ascoltato in auto ieri e mi ha nuovamente fatto venire la pelle d'oca come la prima volta. Parlo di 'First Defeat', Noah Gundersen.