giovedì 30 agosto 2018

RECENSIONE: THE GREEN MUSHROOM BAND (Low)

THE GREEN MUSHROOM BAND  Low (autoproduzione, 2018)





“In memoria di Gregg Allman” si legge all’interno del digipack e la copertina sembra riportare proprio agli Allman Brothers, certamente una degli amori principali che Riccardo Stura, chitarrista originario del Canavese ma con radici che hanno invaso e attecchito nel biellese, ha riversato dentro al debutto della sua nuova creatura THE GREEN MUSHROOM BAND (Silvano Ganio Mego al presentissimo basso e chitarre, Emmanuele Pella alla batteria). Lasciata nella custodia la chitarra elettrica del suo più recente progetto hard blues Buffalo Trio, tirata a lucido solamente per un bel assolo in ‘Forever Rollin On’, libera nelle dieci canzoni il suo lato più intimo e accomodante, proseguendo in modo originale il progetto acustico con cui rilegge e porta in giro il repertorio di Bruce Springsteen e ricollegandosi alla vecchia avventura Tag My Toe. Se durante i quaranta minuti di ascolto viene a mancare lo scatto rock ed elettrico che mi sarei aspettato da lui (ecco però la chitarra elettrica dell’ospite Jacopo Tommassini in ‘Guns In Our Hands’), tutte le canzoni sembrano unirsi in un unico concept musicale avvolgente e cullante con un piede nella musica americana tra accenti southern, west coast e nelle ballate di Neil Young (‘Mud In Your Eyes’ ha lo stesso passo di ‘Out In The Weekend’) e l’altro nel folk britannico a cavallo tra i ’60 e ’70 grazie ai preziosi interventi del sax di Sebastian Loyola Castillo (‘Before I Sell My Soul To You’). Mentre il flicorno soprano di Igor Vigna (anche tromba) in ‘Handcuffed To Your Life’ sembra riportarci a certe border song care ai Calexico, interessanti sono gli interventi vocali di Chiara Cortese nella spensierata ‘Don’t Dissapear’ dall’appeal pop e sognante e nella più oscura ‘Forever Rollin On’. Un disco dal passo lento e sinuoso che può avvicinarsi a piccoli passi alla seconda prova senza timore, basta un pizzico di esuberanza in più da unire a una buona dose di potenzialità ancora tutte da scoprire.



 
 

lunedì 27 agosto 2018

RECENSIONE: THE PROCLAIMERS (Angry Cyclist)

THE PROCLAIMERS    Angry Cyclist (Cooking Vinyl, 2018)




gli scozzesi non le mandano a dire

I profili dei volti di quei due gemelli dai capelli biondi con occhiali spessi alla Buddy Holly che campeggiava nella copertina del disco di debutto This Is The Story, uscito 31 anni fa, a ben vedere sono gli stessi di oggi, se aggiungete qualche ruga e capelli bianchi in più . Gli scozzesi Craig e Charlie Reid non ricevono più “lettere dall’America”, hanno percorso molto più di “500 miglia” ma in questi anni hanno continuato a incidere dischi con la consueta ironia e battagliera vena sarcastica che li hanno contraddistinti. L’ultimo fu Let’s Hear It For The Dogs uscito tre anni fa. Anche le armonie vocali caratterizzate da quell’accento scozzese tanto sbeffeggiato dai vicini di casa è lo stesso di sempre, di quei metà anni ottanta trascorsi in buona compagnia a quelle latitudini: Housemartins, Smiths, Billy Bragg, Andy White erano figli della stessa battaglia. Il mondo intorno alla loro Scozia è cambiato ma i problemi sono gli stessi di sempre: la Thatcher non c’è più da un po’ ma ora si chiamano Brexit, Donald Trump, anche il referendum per l’indipendenza scozzese non andato a buon fine rema contro. “Io davvero non vedo alcun modo di uscirne. Penso che sia l'errore più grande che abbia mai visto fare a un elettorato occidentale. Assolutamente l'errore più grande. Ma è stato fatto. " dicono i Proclaimers a proposito della Brexit.
 ‘Angry Cyclist’ apre il disco in modo feroce con una metafora pungente, un inno contro il bigottismo imperante che si aggancia a ‘Classy’ e ‘Looted’, argute osservazioni sull’Impero Britannico, e la sua "caduta". È un disco urgente, con le canzoni che difficilmente superano i tre minuti. La loro collaudata e contagiosa miscela di folk pop, addolcita da arrangiamenti d’archi, a volte aspra come il vecchio skiffle (‘A Way With Words’) e ritmata di R&B ('Stretch') sa anche parlare al cuore come avviene in 'You Make Me Happy' e in ‘Streets Of Edimburgh’, dedicata alla loro città, agli abitanti, alle mura piene di storia e riflettere sul tempo che passa inesorabile come avviene in ‘Then It Comes To Me’. In patria sono un’istituzione, i loro concerti sempre pieni, fuori dai confini spesso dimenticati. A me sono sempre stati simpatici e alzo sempre una birra alla loro salute ad ogni nuova uscita.


 

 
 
 

lunedì 20 agosto 2018

DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA # 67: TOM PACHECO (Eagle In The Rain)


TOM PACHECO   Eagle In The Rain (1989)





 È spesso dimenticato TOM PACHECO, eppure il suo album Woodstock Winter che registrò nel 1997 è un pezzo pregiato dell’american music degli anni novanta. Un songwriter girovago per vocazione, cresciuto in una piccola fattoria a Darthmouth nel Massachusetts, classe '46, ma di casa nella vecchia Europa per molti anni (Norvegia e Irlanda). Per registrare quell’ album ritornò in America, a Woodstock, negli studi di Levon Helm che per l'occasione gli fece una sorpresa chiamando in studio anche Rick Danko e Garth Hudson: una buona fetta di The Band gira un altro walzer per Pacheco. Produce Jim Weider, a cui tocca anche il compito di fare (bene) le veci della chitarra di Robbie Robertson. EAGLE IN THE RAIN, invece, uscì nel 1989 e fu il primo disco ad uscire dopo il suo trasferimento a Dublino. Un disco prodotto dal folker irlandese Arty McGlynn che ottenne buone recensioni all’uscita accrescendo la sua reputazione in Europa a scapito di una madre patria poco benevola (controllate la sua scarna pagina su Wikipedia), e che mette fortemente in risalto la sua sopraffina scrittura folk, ricca di storie e particolari come solo il miglior Bob Dylan che incrociò pure nel periodo d’oro del Greenwich Village negli anni sessanta potrebbe fare.

Canzoni come ‘She Always Thought He’d Come Back’ e la lunga ‘Midnight At The Hot Club’ ne sono l’esempio più marcato, oltre a una certa dose d’impegno in ‘You’Will Not Be Forgotten’ che si riallaccia ad Amnesty International, in ‘Made In America’ attacca l’uso e l’abuso di armi da fuoco negli States, un tema sempre caldo, l’impegno ecologico di ‘The Last Blue Whale In The Ocean’. Pacheco percorre le stesse vie di Townes Van Zandt e Eric Andersen, di Ranblin’ Jack Elliott e Woody Guthrie. Tom Pacheco lungo quelle strade non ha mai incontrato troppa fortuna.




PUNTATE PRECEDENTI
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #18: BOB DYLAN-Street Legal (1978)
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #19- CRAZY HORSE-Crazy Horse (1971)

DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #20-TOM PETTY-Wildflowes/Echo (1994/1999)
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #21-NICOLETTE LARSON-Nicolette (1978)
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #22-AMERICA-Silent Letter (1979)
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #23-ERIC ANDERSEN-Blue River (1972)
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #24-BADLANDS-Voodo Highway (1991)
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #25-GEORGE HARRISON-Living In The Material World (1973)
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA#26: DAVID CROSBY GRAHAM NASH-Wind On The Water (1975)
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #27: DICKEY BETTS & GREAT SOUTHERN (1977)
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #28: JUNKYARD-Junkyard (1989)
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #29: STEPHEN STILLS (1970)
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #30: RITMO TRIBALE-Bahamas (1999)
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #31: SUZI QUATRO-Suzi Quatro (1973)
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #32: BADFINGER (1970)
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #33:RONNIE LANE'S SLIM CHANCE    One For The Road (1976)
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #34: EDOARDO BENNATO- Edo Rinnegato (1990)
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #35: GENE CLARK-White Light (1971)
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #36: JOHNNY WINTER-Second Winter (1969)
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #37: CAPTAIN BEYOND-Captain Beyond (1972)
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #38: ROD STEWART-Every Picture Tells a Story (1972)
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #39: GEORGE THOROGOOD & DESTROYERS-Bad To The Bone (1982)
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #40: THE ROLLING STONES-Their Satanic Majesties Request (1967)
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #41: ALBERTO FORTIS (1979)
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #42: NOMADI-Gente Come Noi (1991)
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #43: CROSBY, STILLS & NASH-Daylight Again (1982)
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #44: TERRY REID (River)
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #45: JACKSON BROWNE-Running On Empty (1977)
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #46: THE ROLLING STONES-Emotional Rescue (1980)
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #47:TOM PETTY-Highway Companion (2006)
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #48:STEVE FORBERT-Alive On Arrival (1978)
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #49:CRY OF LOVE -Brother (1993)
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #50:THE BLACK CROWES-By Your Side (1999 )
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #51: NEIL YOUNG-Re-Ac-Tor (1980)
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #52: DUST-Dust (1971)
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #53:THE GEORGIA SATELLITES-Open All Night (1988)
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #54:LYNYRD SKYNYRD-1991/The Last Rebel (1993)
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #55:CHRIS WITLEY-Living With The Law (1991)
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #56:BOB DYLAN-Planet Waves (1974)
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #57:BOB DYLAN-Infidels (1983)
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #58:GRINDERSWITCH-Honest To Goodness (1974)
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #59:THE DEL FUEGOS-Boston, Mass. (1985)
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #60:BILLY JOEL-Cold Spring Harbor (1971)
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #61:GRAM PARSONS-G.P. (1973)
DISCHI DAISOLA AFFOLLATA # 62: LOVE/HATE-Wasted In America (1992)
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #63: SCREAMING TREES-Dust (1996)
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #64: LOU REED-Sally Can't Dance (1974)
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #65 BLACK SABBATH-Vol.4 (1972)
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #66: HEART-Little Queen (1977)
 

martedì 14 agosto 2018

RECENSIONE: STEVE FORBERT (The Magic Tree)

STEVE FORBERT   The Magic Tree (Blue Rose Music, 2018)






Già solo l’uscita di un nuovo disco di Steve Forbert, Magic Tree (il 14 Settembre), è una vittoria sulla cattiva sorte che lo ha perseguitato nell’ultimo periodo, tra cui un intervento chirurgico ai reni e sedute di chemioterapia. Si presenta come un disco nuovo anche se in verità è una raccolta di vecchie canzoni dimenticate, vecchi demo incompiuti, ripresi e fatti rinascere una seconda volta con l’aiuto del produttore Karl Derfler e con lo spirito combattivo di oggi che poi è lo stesso di sempre. Fanno da collante la sua voce affidabile e sempre accomodante, i suoi folk semplici ricamati con chitarra e armonica (‘The Magic Tree’, ‘The Music Of The Night’) le melodie fortemente evocative (‘Carolina Blue Sky Blues’, ‘Lookin At The River In The Rain’), qualche raro sprazzo più elettrico (‘Let’s Get High’) e quella voglia di viaggiare che non è mai venuta meno (‘Movin Through America’) e che ha contraddistinto i suoi primi giorni di carriera. Il primo singolo uscito è ‘That’d Be Alright’.
Il disco farà da giusta colonna sonora al libro autobiografico Big City Cat: My Life in Folk Rock che uscirà in contemporanea, storia di quel giovane ragazzo del Mississippi che a fine anni settanta cercò a New York la sua arte. Qui ancora presente, nonostante tutto.






venerdì 10 agosto 2018

RECENSIONE: THE MAGPIE SALUTE (High Water I)

THE MAGPIE SALUTE    High Water I (Mascot/Eagle Records, 2018)
 
 
 
 
 
 
 
un saluto alla gazza
 
High Water I è la prima parte del ricco disco registrato ai Dark Horse Studios di Nashville che fa seguito al debutto dello scorso anno. Fu un debutto anomalo ma degno del passato dei tre ex corvi Rich Robinson, Marc Ford, Sven Pipen con la nuova voce di John Hogg che vince bene la scommessa, con Matt Slocum alle tastiere e Joe Magistro alla batteria. Se allora scaldarono i motori con una scaletta di canzoni già conosciute e registrate live in studio con una formazione allargata a dieci elementi che loro stessi accomunarono alle carovane variopinte e numerose di Joe Cocker con i suoi Mad Dogs e Delaney And Bonnie, tanto per ribadire quali siano le radici del progetto, questa volta compongono così tante canzoni che si è reso necessario dividere il tutto in due uscite. La prima parte fuori oggi, 10 Agosto, la seconda nel 2019. “Il disco dell’anno scorso era più una celebrazione della musica che avevamo fatto insieme. Era quasi una rivisitazione, quasi come una cosa dei Mad Dogs and the Englishmen. Ci siamo divertiti ed è stato davvero bello. Mentre eravamo in tour l'anno scorso e abbiamo iniziato a concentrarci su ciò che avremmo fatto dopo, ci siamo resi conto di voler essere una band: vogliamo andare in studio, fare un disco e diventare una vera band.” Ascoltando il disco e prestando attenzione alla durata delle canzoni si può notare come questa volta abbiano badato alla forma canzone con più accuratezza e rigore compositivo con una grande attenzione ai dettagli, senza eccedere in lunghezza, non andando mai oltre i sei minuti: la più lunga è la seconda traccia ‘High Water’ con i suoi 5 minuti e 45, canzone che intreccia la West Coast con impasti di chitarre acustiche e voci che riportano ai tempi dei primi CSN così come ‘Walk On Water’ fa salire i Byrds a bordo dei Led Zeppelin in volo radente sopra le campagne del Galles e in cabina comando pare sia seduto Dylan. L’album si apre con il botto, ‘Mary The Gypsy’ è un rock vizioso con le chitarre di Robinson e Ford che grattano furiose ma è veramente difficile inquadrare un album che fa della varietà il suo punto forte. Se ‘Send Me An Omen’ batte le strade hard dell’apripista, nel resto del disco si passa dal soul con forti melodie beatlesiane di ‘Sister Moon’ al crescendo gospel di ‘Color Blind’ che non nasconde il suo importante messaggio antirazzista scritto e cantato con trasporto da Hogg, dal southern rock di ‘Take It All’ che riallaccia i ponti con i padri degli anni settanta, al quieto e carezzevole country condito da pianoforte e lap steel di ‘You Found Me’ che sa infondere libertà, dal blues di ‘Can You See’ che ricorda il migliore Stephen Stills, al divertente honk tonk di ‘Hand In Hand’ fino al finale ipnotico e tetro di ‘Open Up’ che conclude il disco con un volo leggero dentro a una foresta nera e impenetrabile.
L’ombra generata dalle ali aperte dei Black Crowes (si ascolti ‘For The Wind’) è sempre in agguato anche se loro sono abbastanza scaltri per volare liberi verso la luce del sole. A riguardo sono abbastanza chiari: “il confronto con i Black Crowes non ha alcun senso. Naturalmente guardiamo indietro nei set live. Siamo ancora molto orgogliosi del lavoro dei Crowes e fintanto che la gente continua a chiederlo, ci sarà una particolare attenzione verso loro durante le serate. I Magpie Salute, tuttavia, sono una nuova band con musicisti che hanno un legame speciale che stanno vivendo cose molto belle insieme.”
E questa prima parte di High Water è qualcosa di molto bello, dai toni molto più leggeri e freschi rispetto a quello che ci saremmo aspettati dopo il debutto ma mantenendo inalterati i legami verso la musica degli anni 60/70, sia essa figlia del soul, del southern rock, del country o della psichedelia. La confraternita di Chris Robinson da oggi sentirà il fiato sul collo. Salutiamo la nuova gazza, non farlo sembra porti sfortuna.