giovedì 7 giugno 2018

RECENSIONE: ROGER DALTREY (As Long As I Have You)

ROGER DALTREY    As Long As I Have You (Polydor Records, 2018)





Le ricette semplici sono sempre le più ardue da portare a termine con buon gusto e la giusta efficacia che le faccia brillare in mezzo a tante altre portate. Lo sa bene Roger Daltrey che con questo disco vuole fare un po’ di passi indietro “un ritorno agli inizi” dice lui, quando a dominare la sua vita erano il soul e il R&B, quello cantato dalle belle voci. La naturale prosecuzione del precedente disco GOING BACK HOME uscito quattro anni fa insieme a Wilko Johnson (in arrivo anche il suo disco) ma con meno peperoncino e un pizzico di zucchero in più. Sarebbe bastato raccogliere dei vecchi brani degli anni 50 e 60 e reinterpretati. Qui c’è qualcosa in più. Con lui il fedele amico di sempre Pete Townshend che gioca di fino e qualche volta affonda con la chitarra in sette canzoni su dodici (“non c’era bisogno di essere un lampo né un genio per suonare R&B con chitarra. Era necessario disporsi ad un ascolto attento, fino a sentirsi la musica dentro” scriveva Townshend nella sua autobiografia), Sean Genockey (chitarra) e poi Mike Talbot al pianoforte. Compone solo due canzoni di proprio pugno ‘Certified Rose’ e la finale ‘Always Heading Home’, e poi pesca a piene mani nella musica, dimostrando curiosità e buon gusto. Ruba ‘Into My Arms’ a Nick Cave che rimane la straordinaria ballata pianistica di sempre, fa sue la graffiante ‘You Haven’t Done Nothing’ di Stevie Wonder con fiati e cori, ‘The Love You Save’ di Joe Tex e ‘How Far’ di Stephen Stills, apre con una portentosa ‘As Long Ad I Have You’ di Garnet Mimms, trascina con il funk gospel di ‘Get On Out Of The Rain’ dei Parliament. Un disco che mostra, a 74 anni, l’intatta voglia di mettersi in gioco e alla prova, dimostrando ancora fisico ma soprattutto voce. Una prova di vitalità vinta. Un disco che serve più a lui che a noi. Piacevole.





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