lunedì 28 maggio 2018

RECENSIONE: GRAVEYARD (Peace)

GRAVEYARD   Peace (Nuclear Blast, 2018)






Perché aspettare anni e anni per una reunion quando si hanno buone canzoni nel cassetto? È quello che devono aver pensato i GRAVEYARD, svedesi di Göteborg-per la precisione dall'isola di Hisingen, quartiere operaio della città-, a soli pochi mesi dallo scioglimento: fu annunciato nel Settembre del 2016, a Gennaio 2017 l'annuncio della reunion. Rieccoli qua-all'appello manca il primo batterista Axel Sjöberg sostituito da Oskar Bergenheim-con uno dei dischi più centrati e personali della loro carriera, iniziata nel 2006, anche se i rimandi ai settanta sono sempre presenti e gravitanti intorno alla voce roca e blues di Joakim Nillson. Mancherà forse la freschezza compositiva di Hisingen Blues (2011), la loro vetta che finì pure per stazionare primo nelle classifiche di vendita in patria ma tutto suona onesto e credibile. I punti di riferimento sono quelli di sempre anche se questa volta prediligono la concretezza: le dieci canzoni sono più snelle rispetto al recente passato, scorrono veloci e dirette, fin dalla doppietta di apertura 'It Ain't Over You' e 'Cold Love' che stendono e rapiscono fin da subito. Esce preponderante l'amore per Jimi Hendrix in due tracce che scavano nel blues psichedelico: 'The Fox' si muove lenta e sinuosa, avvolgente, ricordando anche i Thin Lizzy del mai dimenticato Phil Lynott, 'Bird Of Paradise' è invece lava incandescente che straripa da un hard blues della miglior specie, tra le migliori. Nei 43 minuti di durata si corre indietro nel tempo con estrema disinvoltura e il gruppo svedese ha dimostrato sul campo di essere una delle più genuine band in circolazione (saranno in Italia l'8 Ottobre al Bloom di Mezzago): ora in modo pesante e sabbathiano ('Please Don't'), ora con incedere tambureggiante nei due hard rock 'Walk On' e A Sign Of Peace', per poi sorprendere nella psichedelica e morriconiana 'See The Day', nel blues a passo d'uomo 'Del Manic', lenta fino a crescere nell'assolo finale e addirittura ricordando lo swamp rock di Tony Joe White nella finale 'Low (I Wouldn't Mind)', un blues che gioca con le ombre e il mistero, sei minuti che si concludono con il botto. A questo punto sarebbe veramente un peccato perderli una seconda volta. Ma perché poi?





RECENSIONE: GRAVEYARD-Hisingen Blues (2011)
RECENSIONE: GRAVEYARD-Lights Out (2012)
RECENSIONE: GRAVEYARD-Innocence & Decadence (2015)

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