venerdì 27 aprile 2018

RECENSIONE: CEK FRANCESCHETTI (Blues Tricks)

CEK FRANCESCHETTI   Blues Tricks (2018)




Finalmente ho tra le mani il nuovo disco del Cek (Andrea Franceschetti). Non che avessi bisogno di ulteriori conferme per dire che pochi in Italia indossano così bene gli abiti più sporchi e sdruciti del blues come sa fare lui, con estrema naturalezza e disinvoltura, ma Blues Tricks è un piccolo manuale del genere. Perché il Cek da New Orleans, ops...da Pisogne, Val Camonica, te li insegna anche i trucchi del blues ma non sperare di diventare come lui una volta assimilati, o li hai dentro per natura o sei destinato a rincorrere. E se chiacchierandoci insieme, ai complimenti replica dicendo che è solo “un ladro di galline” o al massimo “il re dei localini” ti dice la verità. Anche se vanta tour negli States. Va solo tutto moltiplicato per mille naturalmente e aggiungere un “migliore” prima. Tra un tris di vecchi blues rivisitati tra cui lo standard ‘44 Blues’ conosciuta nella versione di Howlin’ Wolf, ‘The Soul Of A Man’ di Blind Willie Johnson, ‘Mardi Gras in New Orleans’ di Professor Longhair e un traditional acustico che chiude il disco (‘Trouble In Mind’) piazza un poker di sue composizioni con la National sempre in primo piano (le elettriche ‘Woman in Blues’ e ‘Walk’, la marcia ‘Mountain Preacher’, la sbuffante ‘Snap Back’) tra cui una spettacolare ‘Hell’s Kitchen’ che si inchioda in testa, tra sangue e ruggine, al primo ascolto. Già un piccolo classico.
Dimenticavo la cosa più importante, va assolutamente visto dal vivo nelle sue tante varianti: one man band, in duo con Luk Habbott all’armonica, con la Cek Deluxe Band al gran completo (Pietro Maria Tisi, Mattia Bertolassi, più Carlo Poddighe). Assi di legno che scricchiolano sotto la sua scomposta silhouette che inizialmente potreste pure scambiare per il primo Willy Deville, sudore che cola, chitarre resofoniche, passione che scappa da ogni parte e un blues grezzo come pochi che scorre ora veloce, poi romantico tra le sue dita affusolate.








giovedì 26 aprile 2018

DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #59: THE DEL FUEGOS (Boston, Mass.)


The DEL FUEGOS     Boston, Mass. (1985)



Per capire cosa abbiano rappresentato i bostoniani DEL FUEGOS nei pieni anni ottanta potrebbero bastare due episodi, o meglio chiamarli segni di riconoscenza, avvenuti proprio in prossimità dell’uscita del secondo album BOSTON, MASS. nel 1985: un Bruce Springsteen, in quel momento al top delle cronache musicali con lo status di popstar più che rock appiccicato addosso, che tra uno stadio e l’altro, copertine patinate sulle riviste più in voga dell’epoca, li raggiunse in un piccolo club del North Carolina, il Rhinoceros Club, per accompagnarli in un paio di pezzi “era tra il pubblico e gli chiedemmo se volesse salire sul palco. Rispose di sì e suonò con noi ‘Stand By Me’ e Hang On Sloopy’. A fine serata la radio ne parlava. Noi chiamammo in nostri amici a Boston: ‘non credereste mai a quello che ci è successo’ “, e poi c'è Tom Petty che con i suoi Heartbreakers se li portò in tour insieme ai Replacements nel 1986. Dimostrazioni d’affetto o una velata nostalgia delle star verso gli ingenui e ruspanti tempi degli esordi? Sicuramente le due cose insieme. La band dei fratelli Dan (voce e chitarra) e Warren (chitarra) Zanes era la band giusta al momento giusto, con Dave Alvin dei Blasters come padrino e l’etichetta Slash che ci crede, furono capaci nell’unire il passato legato alle radici rock'n'roll, garage e R&B con il presente (senza comunque rincorrerlo) e ricondurre il rock nei luoghi a lui più congeniali: dentro i piccoli club affamati di voce, chitarre, basso e batteria e lungo le strade secondarie dove la vita continuava a scorrere tra mille difficoltà. Il vicolo da fine nottata brava rappresentato nel retro copertina è la fotografia giusta: lampioni, rifiuti abbandonati e la luce di un nuovo giorno dietro l’angolo in fondo. Non furono dei rivoluzionari ma proprio per questo apprezzati. Dei tradizionalisti devoti a ferro e legno quando tutti rincorrevano la plastica colorata degli anni ottanta. Spettinavano i capelli con le chitarre (‘Sound Of Our Town’, ‘Shame’, ‘It’s Alright’ potrebbe essere una bella outtake di The River tanto per rimanere a Springsteen), ruffiani il giusto (‘Don’t Run Wild’ era la prova di squadra perfetta con la batteria di Woody Giessmann e il basso di Tom Lloyd in bella evidenza), ma poi erano in grado di ritagliare le stelle dai cieli della notte con affreschi notturni bagnati da hammond, soul e romanticismo (‘I Still Want You’,’Fade To Blue’,’Coupe DeVille’) o lasciare impronte indelebili sul terreno umido caro ai migliori Stones, e ‘Night On The Town’ è lì da ricordare insieme all’esigua manciata di dischi incisi lungo il percorso della carriera.



venerdì 20 aprile 2018

RECENSIONE: JOHN PRINE (The Tree Of Forgiveness)

JOHN PRINE  The Tree Of Forgiveness (Oh Boy Records, 2018)



La foto di copertina dice quasi tutto del suo autore: la faccia fortemente segnata di JOHN PRINE non nasconde nulla ma rivela impietosa anni di dure battaglie vinte contro la malattia (prima nel 1998 poi nel 2013) e una carriera, sì lontana dalle prime pagine, ma piena di attestati di stima (Bob Dylan può bastare?) e riconoscimenti. Con THE TREE OF FORGIVENESS ritorna dopo una lunga pausa di tredici anni, anche se l’anno scorso uscì For better Or Worse, un disco di nuovi duetti ma di vecchie canzoni, dimostrando quanto la sua fine e preziosa penna cantautorale sia sempre stata parsimoniosa ma segnante per il cantautorato americano degli ultimi quarant’anni. Non fa difetto questo disco che raccoglie per strada un paio di vecchi brani che riposavano nel cassetto (‘God Only Knows’ fu scritta insieme a Phil Spector), alcuni ospiti (Jason Isbell alla chitarra in ‘No Ordinary Blue’, le voci di Brandi Carlile e Amanda Shires) e alcune nuove collaborazioni che hanno dato freschi frutti in tempi recenti: l’incontro con Dan Auerbach ha generato buone canzoni, prima nell’ultimo disco solista di Auerbach, poi nel disco di Robert Finley e ora c’è una solitaria e splendida ‘Caravan Of Fools’ qui presente. Prine si è rifugiato a Nashville tra una stanza di Hotel, le strade e lo studio di registrazione RCA Studio A, ha messo giù dieci canzoni per un totale di soli trentadue minuti, proprio come si faceva una volta.
Il tocco semplice e pulito di Dave Cobb in produzione non snatura il classico country folk di tutta la carriera, giocato sulla voce sempre più roca ma caratteristica e su testi che continuano a camminare in scioltezza sui vecchi marciapiedi della quotidianità (‘Knockin’ On Your Screen Door’), dei luoghi ormai conosciuti ( ‘Egg & Daughter Nite, Lincoln Nebraska, 1967 (Crazy Bone’) ), con l’immutata ironia di sempre che a volte irrompe tra le pieghe malinconiche e nostalgiche più massicce(la crepuscolare 'Boundless Love'), senza tralasciare qualche affondo nel sociale (‘The Lonesome Friends Of Science’ con un bel B3 a condurre il gioco) e calzanti metafore sulla vecchiaia (‘Summer’s End’, 'When I Get To Heaven') cantate quasi sottovoce, per non disturbare troppo chi gli ha concesso di arrivare fino a qui da protagonista. A suo modo.



lunedì 16 aprile 2018

DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA # 58 : GRINDERSWITCH (Honest To Goodness)

THE GRINDERSWITCH   Honest To Goodness (Capricorn, 1974)





Non ci fossero i caratteri grafici del titolo e del nome della band, la copertina potrebbe essere scambiata per una vecchia foto dei primi 900 che ritrae degli operai, brutti, sporchi e poco raccomandabili, in posa tra le rotaie di una vecchia linea ferroviaria e con un cotonificio in disuso sullo sfondo, dalle parti di Macon. Basterebbe per riassumere bene la carriera dei GRINDERSWITCH (già sono simpatici per questo), band da seconda linea del southern rock dei settanta, poco fortunata in termini di successo ma una delle più vere e ruspanti. Ma l’aspetto non inganni troppo: tanto selvaggi quanto leggeri in certe pennellate soul blues come quelle che dipingono i sei minuti della ballata ‘Homebound’, i tratteggi country dalle buone armonie vocali di ‘How The West Won’ che vede Jaimoe (Allman Brothers Band) alle percussioni e il New Orleans sound di ‘Peach County Jamboree’. Questo debutto per la Capricorn arrivò dopo dieci mesi trascorsi in una fattoria della Georgia a scrivere canzoni che hanno nell’apertura ‘Kiss The Blues Goodbye’ il motore del disco con la preziosa chitarra di Dickey Betts (Allman Brothers Band) ospite, a cui vanno dietro la più ruspante ‘Catch The Train’, il boogie con il piano alla Fats Domino di ‘Can't Keep A Good Man Down’ e una ‘Roll On Gambler’ che si distende nel country, portando nel cuore un disco come BROTHERS AND SISTERS degli Allman Brothers che cambiò radicalmente il corso del southern rock in quei mesi. Il loro è un southern rock caldo e bluesy, trainato dagli ispirati fraseggi chitarristici di Larry Howard e del cantante dalla voce soul Dru Lombar (scomparso nel 2005), da un pianoforte honky tonk spesso presente suonato dalll’ospite Paul Hornsby. Completano la formazione il bassista Joe Dan Petty, ex roadie degli Allman Brothers Band e fondatore del gruppo (scomparso nel 2000) e il batterista Rick Burnett. Dopo questo debutto arrivarono i buoni MACON TRACKS (1975) e REDWING (1977), ed i Grinderswitch ebbero modo di seguire in tour band più famose quali gli amici Allman Brothers, la Marshall Tucker Band, Charlie Daniels, i Wet Willie e i Lynyrd Skynrd, ma nonostante tutto rimanere sempre un passo indietro in fatto di popolarità. Non avere mai avuto un singolo di successo pesò molto.





lunedì 9 aprile 2018

RECENSIONE: BLACKBERRY SMOKE (Find A Light)


BLACKBERRY SMOKE  Find A Light (3 Legged Records, 2018)
 


 

“Riporteranno il southern rock sulla giusta strada”. Così Gregg Allman (ospite nel precedente disco) augurò un buon futuro alla band di Charlie Starr e ora che il vecchio Gregg non c’è più le parole sembrano ancora più pesanti, quasi da ingombrante passaggio di consegne. Ma la band di Atlanta non si lascia certo intimorire e chi ha assistito ad almeno un loro ...concerto lo sa benissimo. L’anno scorso al Fabrique di Milano dimostrarono quanto la strada e i tour siano il loro pane quotidiano, a loro agio quando l’occasione richiede di estendere le canzoni come nella migliore tradizione southern. Uno dei concerti più divertenti a cui ho assistito l’anno passato. (Quest’anno torneranno in autunno). FIND A LIGHT ha i pregi e i difetti di tutti i dischi incisi fino ad ora dimostrando sì un buon lavoro di squadra ma anche quanto tutto ruoti intorno all’unico fuoriclasse della band: Charlie Starr (voce e chitarra), accompagnato da ottimi comprimari (Paul Jackson, chitarra e voce, Richard Turner, basso e voce, Brit Turner, batteria e Brandon Still, tastiere) ma non dei fuoriclasse da prima pagina.
Mancano altre figure dalla forte personalità che possano generare quella sana rivalità interna che ha sempre fatto tanto bene all’ispirazione di altre band, facendo scattare quella fiamma che bruciando lasci il segno indelebile. Rimanendo da quelle parti, in tempi recenti, come non citare i Black Crowes dei fratelli Robinson. FIND A LIGHT racimola e sparge in giro tutte le anime che abitano le loro canzoni, anche se a disco terminato sembra aver prevalso l’aspetto più quieto e bucolico ben rappresentato dalle pieghe acustiche di ‘I’ve Hot This Song’ impreziosita da un violino, di ‘Seems So Far’, la coralità alla Crosby, Stills & Nash della finale ‘Mother Mountain’ che vede come ospiti i Wood Brothers, la più radiofonica ‘Let Me Down Easy’ in duetto con Amanda Shires.
Ma anche nel versante rock del disco c'è comunque da divertirsi: dall’iniziale ‘Flesh And Bone’, un blues pestone che raggiunge piano piano la piena coralità, le trascinanti e avvolgenti chitarre rock di ‘The Crooked Kind’ e ‘Nobody Gives A Damn’, il veloce boogie dal finale gospel ‘I’ll Keep Ramblin’ con l’ospite Robert Randolph, i tipici temi Southern come ‘Lord Strike Me Dead’, 'Best Seat In The House’ (con Keith Nelson dei Buckcherry ospite), con una speciale menzione per l’epica ‘Till The Wheels Fall Off’ che pare un antico residuo dei seventies. Lontano dal ruspante The WHIPPOORWHIL che rimane ancora il loro miglior disco ma pur sempre vicino ad un modo di fare musica legato alla vecchia e calda tradizione degli stati del Sud.




BLACKBERRY SMOKE live@Fabrique, Milano, 11 Marzo 2017

 

martedì 3 aprile 2018

DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA # 57: BOB DYLAN (Infidels)

BOB DYLAN   Infidels (Columbia Records, 1983)




“’Jokerman’ mi è sfuggita di mano. Molte canzoni di INFIDELS mi sono sfuggite di mano. E’ andata così” Bob Dylan taglia corto e sembra bocciare senza appello quello che spesso viene ricordato per essere il ritorno alla laicità dopo i tre dischi della svolta religiosa. INFIDELS in verità continuò ad essere pieno di citazioni religiose (su tutte l’iniziale ‘Jokerman’-a chi si riferiva?-e ‘Man Of Peace’) ma bastarono un poker di canzoni fortemente radicate nelle strade polverose del presente per far tirare un sospiro di sollievo a molti fan e decretare INFIDELS come il miglior album da molti anni. In verità a Dylan sfuggirono le migliori canzoni registrate in quel periodo, lasciate inspiegabilmente fuori.Videro la luce ufficialmente solo anni dopo con la prima uscita delle BOOTLEG SERIES: la fila è guidata da ‘Blind Willie McTell’ (uno dei vertici dylaniani del periodo, in grado di rivaleggiare ad armi pari con tutti i classici), seguono ‘Tell Me’, ‘Lord Protect My Child’, ‘Foot Of Pride’. Altre come ‘Death Is No The End’ e ‘Clean Cut Kids’ verranno recuperate in album successivi. Rimangono solo le otto tracce scelte da un Dylan che con un colpo di spazzola maldestro sembrò rovinare il buon lavoro fatto dal produttore scelto da lui stesso: Mark Knopfler (la prima scelta fu addirittura Frank Zappa). Una collaborazione nata per SLOW TRAIN COMING e che qui poteva raggiungere alti vertici se solo Dylan non si fosse intrufolato in studio di registrazione, aproffitando dell’assenza di Knopfler-ai tempi sì ai vertici con i Dire Straits- mettendo mani ai pezzi già pronti con alcune sovraincisioni.
“Avevamo preparato le basi musicali e cantato i brani perlopiù dal vivo. Solo in un secondo tempo, quando avevamo preparato parecchio materiale, lo avevamo reinciso…Volevo che fosse un lavoro più completo, qualcosa che non mi ero mai ripromesso per gli altri album… Gli Eagles, per esempio, facevano delle belle canzoni, ma ogni loro nota era prevedibile: con INFIDELS stavo cominciando a provare una sensazione simile, e non mi piaceva affatto, così avevamo deciso di rifare le parti vocali…”.
© Lynn Goldsmith 1983
Il risultato fu comunque eccellente (a parte la rottura con Knopfler) grazie a un suono rock blues incisivo, pulito e contemporaneo, merito di una band che vedeva come sezione ritmica il duo giamaicano formato da Sly Dumbar e Robbie Shakespeare, Mark Knopfler e l’ex stones Mick Taylor alle chitarre e Alan Clark dei Dire Straits alle tastiere. Accanto alle prese di posizioni politiche del country rock’n’roll tra economia e globalizzazione di ‘Union Sundown’, del rock blues pro Istraele di ‘Neighborhood Bully’, della ballata pacifista e umanamente disfattista di ‘Licensed To Kill’ (Dylan è chiaro nel ritenere il primo passo sulla luna come il primo passo dell’umanità verso l’autodistruzione) compaiono un paio di composizioni abbastanza atipiche e dal sapore caraibico come la lunga apertura ‘Jokerman’ che grazie al video fece la sua comparsa su MTV e l’introspettiva ‘I And I’, uno dei migliori testi del disco (“I And I’ è una delle canzoni caraibiche. Ho passato un anno giù ai Caraibi e ne è venuta fuori una serie di canzoni tra cui questa”). A chiudere la quiete di ‘Don’t Fall Apart On Me Tonight’ (che fa il paio con ‘Sweetheart Like You’) con un Dylan ispiratissimo alla voce in un testo personale che si divide tra amore e fede. Il faccione di Dylan ritorna a campeggiare in copertina, cosa che non succedeva da molto ma forse è la foto interna, scattata dalla ex moglie Sara, la più significativa per azzardare un “è tornato il Dylan che conosciamo!”: Bob Dyaln inginocchiato sulla sommità di una collina, il panorama della città di Gerusalemme al tramonto sullo sfondo.


© Lynn Goldsmith 1983