lunedì 24 luglio 2017

DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA # 39: GEORGE THOROGOOD & DESTROYERS (Bad To The Bone)

GEORGE THOROGOOD & the DESTROYERS      Bad To The Bone (1982)






1982. Certo, per noi italiani fu l’anno di Paolo Rossi ai mondiali di Spagna ma da qualche parte, sopra ai palchi disseminati lungo gli sterminati States, anche quello di George Thorogood che lo impiegò per raccogliere tutto il buono che riuscì a seminare l’anno prima. Dopo un tour di supporto ai Rolling Stones (periodo TATTOO YOU), lui con i suoi Destroyers (Billy Blough al basso, Jeff Simon alla batteria, più Ian Stewart al piano) nel frattempo rafforzati con il sax di Hank Carter, portarono a termine l’impresa di suonare 50 concerti in 50 sere (in verità ancora meglio: furono 51 concerti in 50 giorni). In quel 1982 guadagnarono un contratto con la EMI americana e la popolarità mediatica grazie all'ancora giovane MTV che si innamorò di ‘Bad To The Bone’ e il suo video, mandandola in heavy rotation. Lo stretto legame della canzone con i grandi schermi continuò per lungo tempo: da noi diventò la sigla del primo Blob di Raitre. “All’inizio era eccitante. Poi le case discografiche iniziarono a chiedere: ”bè, qual è il video?”. Quindi la gente ha iniziato a scrivere canzoni per i video. Non si potevano fare album senza video…” Canzone che rubacchiava il riff di ‘I’m A Man’ del maestro e amico Bo Diddley, ma aggiungeva la sua speciale formula fatta di alti volumi, sudore, esuberanza, semplicità e genuinità. La bar band perfetta. In verità in quel 1982- come nel restanti album fino ad oggi- non cambiò quasi nulla nel modo di concepire i suoi dischi, costruiti con i devoti omaggi, muscolosi e ipervitaminizzati al blues, gonfiati a dovere dalla sua fidata Gibson. Il suo stile torrenziale lascia poco alla mera tecnica, preferendo l'impatto e la potenza (da ‘No Particular Place To Go’ di Chuck Berry a ‘Nobody But Me’ degli Isley Brothers, da ‘New Boogie Chillun’ di John Lee Hooker a una dimenticata quanto particolarmente riuscita ballata come ‘Wanted Man’ di Bob Dylan) e canzoni scritte di suo pugno, la già citata ‘Bad To The Bone’, l’iniziale ‘Back To Wentzille’ e ‘Miss Luann’. Thorogood si dimostra ancora una forza della natura come pochi. Nulla è cambiato dalla seconda metà degli anni settanta (citazione speciale per MOVE IT ON OVER del 1978), quando uscì allo scoperto rispolverando le grandi canzoni dei padri del blues nero, bagnandole con il suo sudore e arricchendole di forza selvaggia intessuta di boogie e rock’n’roll strabordante, ricevendo anche il benestare dei suoi amati idoli (dai Rolling Stones a Bo Diddley) fino ai giorni nostri. In dirittura d’arrivo, uscirà in Agosto, il nuovo disco PARTY OF ONE per la prima volta senza i fidati Destroyers, ma leggendo la tracklist si può intuire che (forse) poco cambierà!

 
 

DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #18: BOB DYLAN-Street Legal (1978)
 

mercoledì 19 luglio 2017

DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA # 38: ROD STEWART (Every Picture Tells A story)

ROD STEWART-Every Picture Tells A Story (1972)






Dopo la basilare gavetta con Jeff Beck, culminata con l’album TRUTH (1968) e in simultanea con l’avvio della nuova avventura The Faces- corta, sgangherata ma esaltante come poche-Rod Stewart da il via alla carriera solista. Se il debutto THE ROD STEWART ALBUM e il successivo GASOLINE ALLEY , pur ben accolti dalla critica, sembrano riscuotere più successo di pubblico oltre oceano che in patria, solo con il terzo EVERY PICTURE TELLS A STORY qualcosa cambia veramente. “ Stavolta ero davvero unicamente io a figurare come produttore: mi lasciarono gestire le cose da solo…Giunti alla terza occasione, i musicisti conoscevano bene il modo di suonare degli altri, e nella registrazione questo si sente”. Parteciparono alla registrazione: Mick Waller alla batteria, l’inseparabile Ron Wood alle chitarre e basso, Pete Sears al piano più una lunga sfilza di ospiti tra cui Martin Quittenton (coautore di ‘Maggie May’) alla chitarra acustica e Ian McLagan all’organo. Come i precedenti due dischi, le canzoni esaltano il lato roots (gran dispiegamento di strumenti acustici), folk-blues della sua voce calda e roca in contrapposizione con il lato più selvaggio e rock'n'roll che assumeva parallelamente nei Faces. Anche questo disco mischia cover tra cui ‘Tomorrow Is A Long Time’ di Dylan, ‘Reason To Believe’ di Tim Hardin e ‘(I Know) I’m Losing You’ dei Temptation e composizioni originali. “’Every Picture Tells A Story’, ‘Mandolin Wind’ e ‘Maggie May’, "un vago resoconto di quando persi la verginità in un incontro mordi e fuggi con una donna più grande di me al Beaulieu Jazz Festival nel 1961". E ‘Maggie May’, come sapete, cambiò ogni cosa.” ‘Maggie May’ fu scritta insieme al chitarrista Martin Quittenton “un ragazzo gentile, molto tranquillo e diligente con la fronte sempre aggrottata (e una fidanzata adorabile), che in quel periodo era il chitarrista più inventivo che avessi mai incontrato” registrata in sole due take con l’aiuto del mandolino di Ray Jackson dei Lindisfarne. “ Non avrei mai pensato che potesse diventare un singolo…Era senza ritornello. C’erano solo quelle strofe sconnesse. Non aveva niente di orecchiabile”. ‘Maggie May’ fu relegata come b side del singolo ‘Reason To Believe’ fino a quando un dj americano iniziò a passarla in radio. Nonostante i suoi cinque minuti di durata, fu un immediato successo che trascinò l’intero album in cima alle classifiche sia americane che inglesi. “Con mio enorme stupore, e non trascurabile orgoglio, di colpo avevo il singolo e l’album numero uno su entrambe le sponde dell’Atlantico. Era come un allineamento dei pianeti. Nessuno ci era mai riuscito prima: nemmeno Presley, nemmeno i Beatles”. Brani tratti da ‘Rod Stewart-L’autobiografia’.



DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #18: BOB DYLAN-Street Legal (1978)

lunedì 17 luglio 2017

RECENSIONE: LEE BAINS III + The Glory Fires (Youth Detention)

LEE BAINS III + The Glory Fires   Youth Detention (2017)







Là dove il debutto era un concentrato di southern/swamp rock caricato a salve da accecanti, limpide e calde striature soul distribuite anche lungo tranquille camminate nel country, nel secondo disco, anche se pasticciato in produzione, venivano lucidate a dovere le canne dei fucili, pronte per sparare una raffica di tosto e spavaldo garage rock, sporco proto punk-i fumi da polvere da sparo di Stooges e MC5 apparvero ad intossicare in continuazione-con chitarre sature di fuzz e feedback, in questo terzo disco YOUTH DETENTION si prosegue su quella strada minata e pericolosa. Tanto da non sembrare nemmeno la stessa band di quell'esordio. Le chitarre di Andy Wallace davanti in prima linea, la voce e i testi-che contano- di Lee Bains immediatamente dopo, in lotta per catturare la scena attraverso strofe pesanti e taglienti di denuncia sociale dedicate, come scritto nei credits, a tutta la valorosa gioventù americana che ha combattuto per i propri diritti indistintamente dal colore della propria pelle, dal sesso e classe sociale. Per non sentirsi straniero nella propria terra, per combattere per la libertà: motti che qualcuno potrebbe scambiare per anacronistici ma purtroppo sempre validi a certe latitudini. Pochi ricami e tanta furia, il messaggio prima di tutto. Si parte dalle ingiustizie presenti dai bassifondi della loro Birmingham (Alabama) e si amplia il discorso a livello nazionale verso i piani più alti. Potrebbe bastare l’ascolto della belluina doppietta piazzata a metà disco, formata da ‘I Can Change!’ e ‘The City Walls’ per capire gli intenti barricaderi della band. 17 canzoni, infarcite di slogan nati dal basso, per poco meno di un’ora dove i momenti di calma si riducono giusto a un paio, tra cui l’acustica ballata dagli umori sudisti ‘The Picture Of A Man’. Lee Bains è incazzato e ha tanti buoni motivi per esserlo ma poche band americane hanno il loro coraggio in questo momento.





RECENSIONE: MAGPIE SALUTE-Magpie Salute (2017)
RECENSIONE: ELLIOTT MURPHIE-Prodigal Son (2017)
RECENSIONE: GARLAND JEFFREYS-14 STeps To Harlem (2017)
RECENSIONE: JOHN MELLENCAMP- Sad Clowns & Hillbillies (2017)
RECENSIONE: TAJ MAHAL & KEB' MO'-TajMo (2017)
RECENSIONE: CHRIS STAPLETON: From A Room, Volume I (2017)
RECENSIONE: WILLIE NELSON-God's Problem Child  (2017)
RECENSIONE: DAN AUERBACH-Waiting On A Song (2017)
RECENSIONE: STEVE EARLE & The DUKES-So You Wannabe An Outlaw (2017)

RECENSIONE: BLACKFOOT GYPSIES-To The Top (2017)
  

giovedì 13 luglio 2017

RYAN ADAMS live@Anfiteatro Del Vittoriale, Gardone Riviera (BS), 12 Luglio 2017

Già da alcune foto e un filmato postati nel tardo pomeriggio nel profilo instagram dallo stesso RYAN ADAMS, si poteva capire che il Vittoriale di Gardone Riviera gli andasse a genio. Come dargli torto? Posto incantevole, acustica giusta e senza pecche, visuale perfetta. Aggiungo: tramonto e luna sul lago di Garda, lì appena dietro il palco. Era lecito, quindi, aspettarsi qualcosa in più rispetto a quanto offerto la sera prima a Roma. I racconti di chi c'era non sono stati entusiasmanti. Così è stato. Non tanto nella scaletta e nei suoni che testimoniano l’amore e la fedeltà nei suoi due ultimi lavori in studio RYAN ADAMS e PRISONER ('Outbound Train' e 'Trouble' tra le mie preferite): per me un aspetto positivo e vero giudice per tastare un artista con più di quindici album in carriera che non ha nessuna intenzione di vivere nel passato, quanto nel modo di affrontare il pubblico, con un piglio che mixa insieme arroganza, dietro cui si cela una latente fragilità emotiva e tanta timidezza, e spensierata giocosità da eterno fanciullo. Ryan Adams si veste come noi ai concerti e potrebbe essere quello al tuo fianco se ti volti: t-shirt dei suoi gruppi metal preferiti (anche se stasera indossa una delle sue magliette), jeans e scarpe da ginnastica. Ecco che quel inquietante gattone nero incappucciato che ogni tanto sbucava fuori dalle retrovie con un tamburello in mano, che unitamente agli ampli giganti richiamano il Rust Never Sleeps tour di Neil young, diventa il suo alter ego aizzatore di folla che gli permette di starsene quasi sempre in seconda fila a comandare la giovanissima band e essere giudice nel bene e nel male della serata. Dai divertenti siparietti con i musicisti al cazziatone iniziale, con quasi espulsione, rivolto a qualcuno in prima fila che smanettava troppo con il cellulare, fino a captare gli assist del pubblico trasformandoli in musica: un blues improvvisato (‘Walter Grey’) e poi rispolverare la chitarra acustica facendoci capire che la sua anima folk, tanto cara ai die hard fan della prima ora, è ancora viva e necessita solo di essere spronata quel giusto (‘English Girls Approximately’ è un piccolo gioiello). Ed è già tanto. La serata è vissuta di due momenti ben distinti, l'inizio sparato senza soste a presentare gli ultimi due album dal taglio rock chitarristico ma tanto inclini al pop, album saccheggiati per bene durante tutta la serata, una parte centrale dominata da una 'Cold Roses' jammata fino a raggiungere territori psichedelici, immediatamente seguita da una veloce scheggia punk tratta dal personale tributo alla scena hardcore americana degli anni 80 ('When The Summer Ends') e una seconda parte molto più sciolta, improvvisata e dilatata dove il genio musicale di Adams è venuto allo scoperto senza più timori, scavando anche nel passato.
Il bel finale sulla tirata di 'Shakedown In 9th Street' lo vedete nella foto qui sotto e non ha bisogno di troppi commenti.







SETLIST
Do You Still Love Me?/Gimme Something Good /Am I Safe/Stay With Me/Outbound Train/Prisoner/Let It Ride/Juli/Doomsday/When the Stars Go Blue/Anything I Say to You Now/Cold Roses/I See Monsters (plus Cold Roses reprise)/When the Summer Ends/This House Is Not for Sale/I Just Might /Two/English Girls Approximately/Walter Grey/Halloweenhead /Sweet Illusions /Everybody Knows /New York, New York /To Be Without You /Trouble /Shakedown on 9th Street


mercoledì 5 luglio 2017

DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA # 37 : CAPTAIN BEYOND (Captain Beyond)

 
CAPTAIN BEYOND   Captain Beyond (Capricorn Records, 1972)





Potessi riscrivere la storia del rock, o almeno una piccola parte, darei al debutto dei CAPTAIN BEYOND un posto meritevole, lì tra i grandi dischi hard rock (o semplicemente rock) più influenti e da ricordare degli anni settanta. Copertina compresa. I Captain Beyond prendono forma all’indomani dall’uscita di METAMORPHOSIS, quarto album in studio degli IRON BUTTERFLY, un disco diverso e importante per i cambiamenti in formazione e per le nuove strade imboccate, ma come tutta la discografia della band di San Diego schiacciato sotto l’imponenza di un brano monstre come ‘In-A-Gadda-Da-Vida’, uscito qualche anno prima, in grado di diventare un tutt’uno con la band e mangiarsi tutto il resto. Il consolidamento della formazione con due nuovi chitarristi al posto del dimissionario Eric Braunn, paradossalmente, porterà il bassista Lee Dorman e il chitarrista Rhino Rheinhart a cementare la loro intesa fuori dal gruppo madre, dando sfogo alle loro intuizioni musicali con questa nuova e indefinibile creatura. Si uniranno il batterista Bobby Caldwell, che ricordiamo negli And di Johnny Winter e il cantante Rod Evans, in cerca di riscatto negli States dopo i primi dischi registrati come voce dei Deep Purple e la successiva cacciata. La musica dei Captain Beyond è difficilmente etichettabile: una miscela magica di riff hard rock, planate nello space rock, progressioni strumentali, intermezzi acustici e arpeggiati, funanbolismi psichedelici. Un monolite di 35 minuti che se non fosse diviso in 13 tracce che si inseguono con continui rimandi in un gioco di suadente complessità, potrebbe essere preso come un blocco unico e andrebbe bene ugualmente. La chitarra di Rhino ama dividersi tra Jimi Hendrix,. Santana e Tony Iommi, la batteria e le percussioni di Coldwell sono fantasiose e mai banali, il basso di Dorman batte forte, mentre la voce di Evans declama testi che spesso si perdono tra le galassie. Complicato citare le canzoni, visto l’unitarietà del disco, per cui ne scelgo una per tutte da esempio: la sfacettata e multicolore ‘Thousand Days Of Yesterdays’. Creativa, eterea, visionaria, potente, raffinata e sognante, la musica dei Captain Beyond lascia sempre il segno. Senza tempo. Uscito per la Capricorn e dedicato a Duane Allman scomparso da poco ( fu lui a farli firmare per la prestigiosa etichetta che però, bisogna dirla tutta, non li sostenne mai a dovere), in verità il disco ha poco da spartire con il southern rock, candidandosi, invece, a diventare un punto fermo per la generazione stoner californiana, gravitante intorno ai deserti di Palm Springs a cavallo tra gli anni ottanta e i novanta.


 
 

DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #18: BOB DYLAN-Street Legal (1978)